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Autore: Demolition Prison_    02/06/2012    6 recensioni
Fra i rumori della folla ce ne stiamo noi due.
Felici di essere insieme, parlando poco, forse nemmeno una parola.
(W.Whitman)
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                      Chapter two: Misantropia.                                                                                                                                  

 
Non sono mai stato un grande fan dei viaggi in aereo. Preferivo di gran lunga il treno, o al limite, il bus. Ma se di mezzo c'è un canale discretamente grande, comunemente chiamato Manica, non puoi farne a meno, temo.
La cosa che mi dava più fastidio degli aerei erano le hostess. Sì non era tanto il check-in e le varie puttanate burocratiche, erano le hostess che cercavano di tentarti col cibo durante il volo che mi innervosivano. Voglio dire, se avessi voluto mangiare qualcosa durante il viaggio lo avrei comprato dopo i controlli, no? 
Mi ero appena accomodato al mio posto (fortunatamente ero anche vicino all'oblò), in compagnia di un buon libro che avevo già letto milioni di volte, quando una di queste tipe tutte in tiro dentro al loro tubino blu si avvicinò piazzandomi il suo carrello di metallo pieno di schifezze ipercaloriche davanti agli occhi.
“Prenderò qualcosa da bere, sì Una Cocacola. Light. Giusto perchè ho la gola secca.”
-Una Cocacola, grazie.- Mormorai tendendo gli occhi incollati sul libro -Light.- Precisai poi sforzandomi di staccare lo sguardo dalle pagine per sorriderle
Me la piazzò davanti.
“Solo un bicchiere però. Anzi, metà. Sì, perchè le bibite gassate gonfiano.”
Versai una piccola quantità di bibita nel bicchiere e la sorseggiai in tutta calma, guardando di sottecchi il mio vicino: un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta, intento a studiare un qualche dossier su una di quelle cose noiose da impiegati.
Spinsi la lattina sul bordo del piccolo vassoio che pendeva dal sedile difronte, e tornai ad immergermi nelle pagine ingiallite del Faust di Goethe. Avevo una passione malsana per quel libro: un uomo che vende l'anima al diavolo in cambio di favoreggiamenti, aiuti e promesse di una vita migliore.
Un ragazzo che vende la sua anima all'arte in cambio di fama, gloria e grandezza che hanno tardato molto ad arrivare.
Digrignai i denti amareggiato: non riuscivo a cogliere la differenza tra le due situazioni.
 
Non faticai molto a trovare l'hotel in cui avrei dovuto alloggiare: era praticamente a pochi passi dalla stazione dove ero giunto prendendo un treno dall'areoporto.
Dopo i doverosi (ed odiosi) convenevoli mi installai nella mia camera senza prendermi neanche la briga di sistemare le mie cose. Una volta sdraiato sul letto alzai la cornetta ed ordinai un thè verde, e rimasi immobile fino all'arrivo del servizio in camera.
 
Uscito dalla doccia mi parve doveroso controllare se il bagno della stanza fosse dotato di una bilancia o di qualsiasi altro strumento in grado di calcolare peso. Ovviamente no.
Rimasi a metà tra l'interdetto e l'isterico quando venni a conoscenza della dura verità, perciò mi limitai a spendere qualche minuto contandomi le costole difronte allo specchio, carezzandone delicatamente la superficie con i polpastrelli e crogiolandomi nell'autocommiserazione.
Un ragazzo francese col nasino all'insù venne a bussare alla mia porta, invitandomi ad una cena con gli altri artisti della mostra. Decisi di accettare solo perchè aveva un naso carino, anche se -ovviamente- sarebbe stata una tortura psicologica.
Arrivai al ristorante qualche minuto (ma pur sempre elegantemente) in ritardo, e presi posto tra due pittori americani. Almeno avrei avuto qualcuno con cui parlare per distrarmi.
Mi sforzai di buttar giù qualcosa, sempre senza superare il minimo indispensabile: dell'insalata, un quadratino di formaggio e sbocconcellai persino un po' di pane, che era la mia nemesi. Giustificai il mio poco appetito con un ipotetico disturbo allo stomaco di qualche giorno prima.
Non mi sforzai molto di essere socievole: tutti parevano essere affascinati dalla mia poca loquacità e dal mio evidente interesse per il cibo spappolato sul fondo del mio piatto. Dovevo essere probabilmente il più giovane, e mi sentii alla stregua del bambino di una coppia che fa parte di un gruppo di amiconi che ha deciso di andare a mangiare una pizza in comitiva il sabato sera. Avevo dei begli occhi, un colore di capelli interessante, un naso particolare, una personalità affascinante, lo sguardo penetrante...tutti si lasciarono andare in piccoli apprezzamenti, specialmente le donne. Mi sforzai di sorridere e di essere realmente amabile come dicevano, fin quando qualcuno non azzardò un commento su quanto fossi magro.
“Non sono magro per niente.”
Mi irrigidii saltando sulla sedia, incupendomi di colpo.
Accennai un diniego veloce con la testa quando mi chiesero se ci fosse qualcosa che non andava e mi affrettai ad alzarmi dal mio posto, scusandomi del fatto che avevo un appuntamento con un amico che non vedevo da tanto tempo. Lasciai 50 euro sul bancone della cassa ed uscii nell'aria fresca di Parigi.
Mentre camminavo mi assalirono i sensi di colpa.
“Non avresti dovuto mangiare. Non così tanto.”
Mi passai una mano sul viso.
“Sei un debole, Gerard. Tutti quegli sforzi per cosa? Non sarai mai perfetto, resterai sempre così. Grasso.”
Era vero: non sapevo trattenermi. Non ero in grado di controllare il mio corpo.
 
Prima di arrivare all'hotel mi nascosi in un vicolo e lasciai che l'inconscio guidasse due dita in un gesto ormai ripetuto milioni di volte.
 
                                               * * *
 
Se fosse esistita realmente un'allergia al mondo, io ero certo di esserne affetto.
Odiavo gli aerei e,soprattutto, gli affollamenti di persone che mi facevano mancare l'aria dalla testa ai piedi.
Forse era proprio per questo motivo che ero solito rimanere a casa mia, o comunque nel mio paese, senza viaggiare molto.
Era una tortura per me tutto ciò. 
E la parte più esilarante era che i miei genitori credevano che pagandomi questo viaggio mi avrebbero dimostrato il loro bene.
In realtà, non sapevano che se c'era una cosa che erano riusciti a realizzare con questa stupida vacanza era farsi odiare da me.
Ma, purtroppo, mi conoscevo fin troppo bene, l'odio non aveva mai fatto parte della mia persona e,alla fine, sarei tornato a casa senza alcun rancore nei loro confronti.
 
Entrai nel tubo che mi avrebbe condotto dritto nell'aereo, e già sentii mancare il respiro per l'odore di chiuso e di...persone.
Camminavo strascicando i piedi, come ero solito fare. Portando sulla spalla il mio zaino, così pesante da farmi quasi curvare in avanti.
Il capitano e le due hostess mi sorrisero raggianti non appena arrivai all'entrata.
'Buongiorno! I tuoi genitori sono già dentro?'
Ecco. Perfetto. 
Già iniziava bene la vacanza. Come sempre ero stato scambiato per un ragazzino.
'Ahm...no, io...veramente ho diciotto anni, e ne devo compiere diciannove.'
Vidi l'hostess abbassare lo sguardo imbarazzata farfugliando delle inutili scuse che comunque non avrebbero aiutato la mia autostima a risalire.
Con la coda dell'occhio, però, notai anche che il pilota se la stava ridendo di sottecchi con l'altra ragazza.
Bene. Neanche ero uscito dall'America ed ero già mira di prese in giro gratuite. L'Europa, di certo, non avrebbe migliorato la mia condizione di sfigato cronico.
 
Notai che mio padre aveva avuto la gentilezza di prenotarmi in prima classe, e quando vidi il mio posto, libero al lato, sospirai di sollievo. 
Non volevo condividere il mio spazio con qualche estraneo.
Posi il mio zaino sul porta bagagli in alto, e mi sedetti chiudendo gli occhi e cercando di rilassarmi.
Ma il karma, per l'ennesima volta, mi ricordò di non essere dalla mia parte, e sentii qualcuno che si sedette nel posto accanto al mio.
Sospirai di nuovo, cercando di non andare in iperventilazione, e poi aprii gli occhi. 
L'uomo che era accanto a me mi guardava con fare curioso, sorridendomi.
Aveva più o meno sessant'anni, dei grandi baffi che gli coprivano quasi tutto il labbro superiore ed un cappello strano appoggiato sul capo. 
Ci manvaca solo Sherlock Holmes dei poveri. Pensai. Ma non dissi.
'ehmmm...sì?'  chiesi. Volendo solamente che quell'estraneo distogliesse i suoi occhi da me.
constatai che non aveva chiuso le palpebre, nemmeno per un secondo, e che continuava imperterrito a fissarmi.
Si riscosse dalla trance in cui era caduto e mi porse la mano.
'Piacere, ragazzo, il mio nome è Richard Kirkland.' 
Ebbi l'impulso di rispondere che non mi interessava assolutamente nulla di chi fosse, e che avrei solo voluto dormire per le otto ore di viaggio in aereo, per poi andarmene in albergo e rimanerci per il resto delle due settimane.
Non dissi nemmeno questo. Nè, gli strinsi la mano, lasciando che lui la ritirasse sempre con lo stesso sorriso sulle labbra.
Non mi sembrava proprio il caso di raccontare la mia vita a quello sconosciuto.
Fu lui, però, a raccontarmela. La mia vita, intendo.
Si portò al labro il suo sigaro, ovviamente senza accenderlo, e iniziò a ciancigarlo.
Mi domandai se quell'uomo pensasse ancora di vivere negli inizi del novecento.
Forse sì. Però scoprii, con mia grande sorpresa, di pensare che sarebbe stato bello poter immaginare di vivere in un'altra epoca. Come probabilmente stava facendo... Richard.
Le hostess annunciarono che l'aereo era pronto per decollare e che quindi avremmo dovuto allacciare le cinture di sicurezza.
Ovviamente, sbuffai. Odiavo metterle. Ma non avevo il coraggio di toglierle per tutto il viaggio.
La mia paura di volare era molto più potente di ogni altra mia paura.
Ma io non avevo solo paura di volare sugli aerei. Io avevo paura di volare anche metaforicamente.
Non mi ero mai sentito felice fino a volare. Nè, ero riuscito a realizzare mai i miei sogni.
Non mi avevano tarpato le ali. Io ero nato, senza ali. 
 
L'aereo decollò velocemente, e il solito farfallio mi attanagliò lo stomaco in una morsa d'accaio. 
E a tutto ciò, si aggiunse anche il mio coinquilino del posto accanto a farmi crescere l'ansia.
'Tu sei qui. Ma non vorresti esserlo.'
Mi girai a guardarlo come se fosse un fantasma.
Non era per il fatto che mi avesse detto quella frase; dalla mia espressione frustrata tutti avrebbero potuto constatare che non ero felice di trovarmi lì.
Ciò che mi sconvolse fu il fatto che la sua non era una domanda, ma un'affermazione.
Sussurrai un semplice 'sì', e lui sorrise continuando a tenere in bocca il suo sigaro.
Era un uomo strano e inquietante. Eppure aveva un non so che di affascinante. 
Avrei voluto sapere di più di lui.
'Io mi chiamo Frank. Frank Iero.'
Gli porsi la mano, e lui non sembrò sorpreso del mio gesto e me la strinse, nonostante prima, maledutacamente, io non avessi risposto al suo gesto.
'Ciao Frank. Sai...ho tante cose da raccontarti su di te.'
'Su...su di me?'
L'inquietudine cresceva, ma con essa anche la curiosità.
'Già. Hai preso la decisione giusta...intendo, ad andare a Parigi. Sai, Parigi ti cambia la vita, amico'
Niente di nuovo. Già l'avevo sentita questa frase. 
'Sì, è esattamente quello che mi ha detto anche mia madre. Ma io...sai, non ci credo molto' 
Lui sorrise, di un sorriso sincero, senza prese in giro.
'Sì, anche io la pensavo come te Frank. Ma poi, quando sono andato a Parigi, per la prima volta, ho capito che era vero. Che Parigi ti cambia la vita. Ehi, non ti sto dicendo che te la cambia in meglio. Potrebbe anche cambiartela in peggio...'
Feci un verso col naso. Richard non capì.
'Come?'
'No, è che pensavo...peggio di così la mia vita non potrebbe essere, quindi...forse hai ragione. Ho fatto bene a decidere di partire'
Lui mi guardò con un sopracciglio alzato -non sapevo come era riuscito a farlo, sinceramente.- e mi rispose con un 'Forse?'.
Scoppiammo a ridere insieme. Non so per cosa. Nè lo volli sapere. 
Sapevo solo che quella era la prima volta che mi aprivo con una persona. 
Con una persona che nemmeno conoscevo.
 
'Dammi la mano. Voglio leggertela.'
Erano circa quaranta minuti che non aprivamo bocca. 
'Come?' Lo guardai confuso.
'Sì, beh, vedi io leggo le mani. Penso che lì ci sia scritta ogni cosa. Non sei curioso di sapere cosa ti succederà a Parigi?'
'Nah, mi piacciono le sorprese.'
In realtà, non era vero. Solo che credevo fosse semplicemente una stronzata il fatto di leggere le mani. Non credevo alle streghe, ai maghi. Non credevo nemmeno in Dio, figuriamoci.
'Hai paura di sapere la verità?'
Altra domanda che a me sembrò più un'affermazione.
'no!' Cercai di giustificarmi, per non sembrare un bambino.
Decisi che per non fare la figura patetica del ragazzino era meglio acconsentire alla sua richiesta.
Tanto io non credevo a quelle cose. Era solo un gioco.
'Okay, leggi' lo presi in giro, senza mai mancargli di rispetto.
Lui sorrise e si tolse dalla bocca il sigaro.
Mi prese la mano sinistra e iniziò a guardarla con attenzione. 
Sembrava che ci credesse davvero in quello che stava facendo, tanto da farmi venire il rimorso per averglielo concesso.
Avevo seriamente paura di quello che mi avrebbe detto.
Cercai di sciogliermi.
Non era possibile.
Avevo paura della mia stessa vita.
Tra le tante paure che avevo, questa era la più assurda.
Alzò lo sguardo per incrociare i suoi occhi con i miei.
Mi lasciò andare la mano e si rimise tra le labbra il sigaro.
Volevo sapere. Dovevo sapere. Ma lui rimase in silenzio.
'B-beh?' chiesi, incerto.
Richard chiuse gli occhi e si appoggiò sullo schienale.
Dopo due interminabili minuti, finalmente, parlò.
'Stasera, ci sarà una mostra di arte moderna al museo Fondation Cartier, si trova a 261 Boulevard Raspail. Ci devi andare.'
'Cos-com- eh?'
Mi stava confondendo ancora di più. 
'Frank, senti, ho letto la tua mano, e stasera devi andare lì. So solo che ti cambierà la vita.'
'Quel posto mi cambierà la vita?' 
'No. Non quel posto, Frank. Chi incontrerai in quel posto.'
'E se incontrassi il mio assassino?'
Solo dopo averlo detto mi resi conto di quanto questa frase risultasse così...idiota.
'Frank, non incontrerai nessun assassino. Stai tranquillo. Ma devi andare in quel museo. Anche se non credi alla magia, a me, alla tua vita. Vai lì, Frank.'
Queste parole furono le ultime che sentii uscire dalle sue labbra. 
Dopo di ciò Richard chiuse gli occhi e dormì per il tutto il resto del viaggio.
Io non riuscii a farlo. 
Restai per le restanti sette ore a guardare lo schienale di fronte a me, con il cuore che non smetteva di martellarmi nelle orecchie e con il cervello che mi spinse a scrivere il nome e la via di quel museo sulla mia mano. La mia mano sinistra.


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Tre recensioni? 
Siete davvero crudeli ç.ç 
La furia di Richard Kirkland si scaglierà su di voi u.u
No, sono seria. SVEGLIAAAAAAAA! 
Vogliamo vedervi attivi!
Vi dico solo che al prossimo capitolo ci sarà L'INCONTRO. 
Fate voi u.u
Comunque grazie alle persone che hanno recensito :3
ENJOY! E buon due giugno :D

We love you. 
  
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