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Autore: margherIce46    04/06/2012    4 recensioni
Dal terzo capitolo:
“[...]Senza sapere esattamente cosa dire, si limitò a osservare con dispiacere il livello del pregiato Cabernet-Sauvignon calare molto più velocemente di quanto avrebbe voluto, poi il suo calice ancora vuoto e infine l’espressione stravolta di El.
“Ho bisogno del tuo aiuto!” esclamò infine la donna, dopo avere vuotato anche il secondo bicchiere di vino.
L’uomo si sporse verso di lei e si preparò ad ascoltare [...]”
Terza classificata al contest "You and I: di coppie, intrighi, vendette e tradimenti", indetto da LunaGinnyJackson su efp.
Genere: Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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 Capitolo 2.
 

 
Misses Suit
 
La mattina dopo, Elizabeth si era svegliata con un bacio sulla guancia datole dal marito. Mentre Peter si alzava per andare a farsi una doccia, lei era scesa in cucina a preparare la colazione per entrambi; come ogni altra giornata, avevano bevuto caffè e succo d’arancia con pancake e brioches. Come sempre si erano scambiati il giornale e avevano letto le previsioni meteorologiche. Come di consuetudine, lui le aveva dato un bacio augurandole la buona giornata prima di uscire di casa e lei aveva ricambiato il saluto con un sorriso.
Tutto poteva sembrare normale a prima vista, ma la verità era che qualcosa di inconsueto si agitava sotto quella superficie di calma apparente: le cose non erano andate per davvero come gli altri giorni. Il bacio era stato veloce, appena sfiorato, il suo sorriso era meno solare del solito; Peter era sembrato stranamente smanioso di andarsene, lei aveva provato un inaspettato e indesiderato sollievo nel vederlo uscire, potendo finalmente restare sola. Si`, decisamente qualcosa non andava.
E quel qualcosa non le piaceva. Per nulla.
 
***
 
Mentre andava al lavoro, destreggiandosi fra il traffico folle e caotico della città di New York, non era riuscita a impedire a se stessa di mettersi a rimuginare ancora su quanto strana fosse la situazione, almeno dal suo punto di vista.
Aveva provato ad accendere l’autoradio per distrarsi, ma come sempre aveva sentito più pubblicità che canzoni, e questo non l’aveva aiutata per nulla, anzi era diventata ancora più nervosa di prima; allora aveva deciso di inserire un cd nell’apposito lettore, ma nemmeno quello era riuscito a farle pensare a qualcosa che non riguardasse Peter per più di due minuti. Si era imposta di smettere di rimuginare su  ciò che le sembrava stesse accadendo in casa sua, con suo marito, ma anche in questo aveva fallito.
Era come se i suoi pensieri fossero attratti dalla forza invincibile di una calamita e questa calamita aveva il nome di Peter, il cognome di Burke e l’aspetto di una nuvola nera che andava a formarsi in un orizzonte che sembrava stranamente vicino. E lei non poteva evitare di riflettere su ciò che invece desiderava con tutta se stessa di poter ignorare.
Sapeva, in fondo, che la sera precedente non era accaduto nulla di catastrofico: con un’analisi razionale, lei stessa ammetteva che Peter aveva solo avuto un atteggiamento un po’ diverso dal solito e che questo poteva spiegarsi in mille e più modi, essere solo una manifestazione di stress, stanchezza o Dio solo poteva sapere che altro, ma nulla di più, nulla di cui preoccuparsi forse.
Eppure i piccoli particolari, quell’essere così distratto, il sembrare distante… lei non poteva fare a meno di constatarli, di notarli.
Le occhiate rivolte al telefono, di continuo, e nemmeno tanto di nascosto; di chi stava aspettando notizie con tanta smania? E poi quel maledetto profumo di chi era, da dove veniva? E perché si trovava sul collo del marito, ne aveva impregnato la pelle? Com’era finito lì?
Una parte di lei desiderava non avere risposta a queste domande, desiderava solo dimenticarsene, poter schiacciare il tasto di riavvolgimento di quel nastro che erano le loro vite per mandarlo indietro alla sera prima e ripartire da lì come se nulla fosse mai accaduto. Non chiedeva altro che di scordarsi di quelle sottili ma significative stranezze, eppure non poteva, non riusciva.
Perché un’altra parte di lei, la parte più forte del suo carattere, quella più cocciuta e testarda, le imponeva di mantenere i sensi in allerta, da quel momento in avanti. Le diceva di stare ben attenta, di tenere gli occhi aperti e non permettersi distrazioni.
Una parte di lei voleva sapere, non era disposta a vivere nel dubbio, nel tormento o peggio ancora nell’inconsapevolezza. Avrebbe sofferto, se le sue paure fossero risultate vere; ne era certa, sarebbe stata malissimo, avrebbe pianto e sperato che nulla di tutto ciò fosse vero.
Ma, d’altro canto, se i suoi sospetti si fossero rivelati infondati - e lei lo sperava con tutte le sue forze, con ogni fibra del suo corpo - allora avrebbe potuto vivere serena, piena di fiducia nei confronti del marito come era sempre stato fino a quel giorno e archiviare per sempre quei pensieri in un angolo buio della sua mente, come se mai fossero esistiti.
Ma per poterlo fare, doveva sapere. Aveva deciso. Da quel momento in poi, Elizabeth sarebbe diventata la migliore detective di casa Burke, come ogni moglie sa nel profondo di essere.
 
***
 
Da quella mattina in cui aveva finalmente deciso di non chiudere gli occhi ignorando la realtà ma di affrontarla di petto, non si era lasciata sfuggire nemmeno il minimo dettaglio nei comportamenti del marito. E aveva notato molto. Forse, troppo.
Prima  aveva visto le sue occhiate sempre più insistenti al display del telefono: non passava serata senza che se lo portasse ovunque, persino al bagno, in attesa di chissà cosa, chissà chi, anche se a lei diceva sempre che non era nulla a cui fare caso, semplicemente temeva di ricevere qualche improvvisa chiamata dall’ufficio. Rimaneva imbronciato fino a quando andava a letto se lo schermo non si illuminava annunciando una chiamata in entrata.
Il sorriso che invece gli illuminava il volto quando lo sentiva vibrare era impagabile, doveva ammetterlo: non ricordava un’espressione di estasi e gioia simile dai loro primissimi appuntamenti. Ogni volta che riceveva quelle oscure telefonate poi, Peter non rimaneva in casa a parlare, ma con la scusa che si trattava di telefonate di lavoro usciva sul retro oppure, mentre teneva l’apparecchio appoggiato all’orecchio, le faceva un muto cenno con la mano, facendole capire che avrebbe preso il guinzaglio e portato fuori Satchmo, ovviamente sempre continuando la conversazione.
Non era mai riuscita a capire chi fosse al telefono, nemmeno aveva potuto provare a riconoscere il numero, perché ogni volta Peter era così svelto a rispondere e portare il cellulare all’orecchio che non le aveva mai lasciato il tempo di leggere il nome che compariva. E lei era certa che ogni volta fosse sempre, immancabilmente lo stesso. Ma di chi?
Un altro dettaglio che aveva notato - e sarebbe stato impensabile che così non fosse - era stato un vistoso cambiamento nel suo modo di vestire: Peter Burke, che probabilmente era l’agente più famoso del ventunesimo piano del palazzo dell’FBI non perché  aveva catturato uno dei truffatori più abili dell’intero pianeta, ma per le orribili cravatte che era in grado di scegliersi, aveva iniziato a comprarne di nuove, abbinandole poi a camicie e giacche con risultati sorprendenti.
Non c’era mattina senza che lei stessa si stupisse del buon gusto che sembrava avere sviluppato da un giorno con l’altro ed era sicura che anche sul lavoro se ne fossero accorti tutti; era certa che persino Neal, che aveva l’occhio più critico di uno stilista di professione, gli avesse fatto i complimenti. Diamine, la settimana precedente Peter l’aveva accompagnata ad uno degli eventi da lei organizzati ed era vestito meglio lui dell’influente uomo politico, che era un candidato sindaco di New York!
Una sera le aveva detto che l’avrebbe portata fuori a cena e lei ne era stata molto felice: sperava di poter finalmente affrontare l’argomento con Peter, in un bel ristorantino intimo, con calma. Ci aveva già provato un paio di giorni prima, ma era stato come parlare a un robot programmato solo per rispondere “Non c’è nulla che non vada tesoro” e anche “Davvero, non preoccuparti, è tutto a posto El” a ogni singola domanda.
Alla fine ci aveva rinunciato, sentendosi ancora più confusa di quanto già non fosse e anche un pochino sciocca a dire la verità, dato che era lei quella che sembrava strana, a detta del marito. In ogni caso, dopo avere sentito la sua proposta di un’uscita a cena, aveva davvero sperato di poter provare nuovamente a parlare, ma il luogo in cui l’aveva portata l’aveva spiazzata, completamente.
Il suo Peter, che sceglieva piccoli locali che servivano buona cucina tradizionale, aveva prenotato un tavolo in un rinomato ristorante in centro: erano entrati in quell’ampio locale con tavolini coperti da tovaglie color panna abbinate a tende dello stesso colore. Pavimenti in legno e maniglie dorate alle porte completavano un’atmosfera che, in qualsiasi altra situazione, lei stessa non avrebbe esitato a definire “da sogno” ma che in quel momento le fece provare un senso di claustrofobia così forte da dover scusarsi quasi subito, chiedendo indicazioni poi a un cameriere per sapere dove fosse il bagno.
Quando era tornata al tavolo lui le aveva chiesto se si sentisse male e volesse andare a casa, se qualcosa non andasse, senza accorgersi che il problema era proprio lui con i suoi strani atteggiamenti; quella sera, per la prima volta da quando lei lo aveva conosciuto, Peter aveva preso il menù, letto con cura la carta dei vini e infine ordinato uno dei più pregiati.
Ma ciò che l’aveva distrutta, annientata completamente, era stato il suo patetico, inutile tentativo di comportarsi come se nulla fosse cambiato fra loro, quando in verità ogni cosa era ormai diversa: da più di una settimana, infatti, la chiamava sempre a metà pomeriggio dicendole che era sorto un imprevisto al lavoro, c’era un nuovo caso urgente, Neal aveva combinato qualche disastro oppure doveva stare fuori per un appostamento in quel puzzolente furgone e quindi non sarebbe tornato per cena.
Ogni sera tornava un po’ più tardi, spesso quando lei era già andata a letto, le dava un veloce bacio sulla guancia e poi andava a dormire augurandole la buona notte. Ma lei, sdraiata a letto senza prendere sonno, mentre osservava il suo profilo nella semioscurità` della loro camera da letto, sapeva che le sue erano solo scuse ed era certa che non avrebbero potuto reggere ancora a lungo.
Sapeva che in realtà non c’era nessun appostamento, anche se una parte di lei ancora desiderava di potergli credere e non poteva fare a meno di concedergli il beneficio del dubbio. La mattina, però quando provava a chiedere spiegazioni, dopo avere accampato di nuovo varie scuse, la sua risposta era sempre a stessa: “Tesoro, non parliamo del mio lavoro almeno qui a casa, per piacere. Quando sono con te voglio pensare solo a quanto io sia fortunato ad avere una moglie bella e comprensiva come te. Non c’è nulla che non vada, te l’assicuro!”.
Invece tutto non andava e lei aveva deciso: era giunto il momento della prova del nove, avrebbe scoperto la verità.
 E sapeva perfettamente a chi avrebbe chiesto aiuto: l’unica persona che aveva sempre diffidato, anche se per ragioni diverse, di suo marito e che forse (in quel momento parve rendersene conto) aveva avuto anche ragione.
 

  
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