Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: heles_allgood    09/06/2012    0 recensioni
(Volevo ringraziare la mia immagine, che è l'unica cosa che conta)
Genere: Comico, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Tema: il circo.
Svolgimento: prendi un domatore, uno degli elementi di scena del circo, mettili insieme e portali sul palco di una premiazione internazionale. L’effetto sarà divertente e molto spettacolare.
Il domatore lo abbiamo. Io.
Il mio vestito infatti è come quello di un domatore del circo, con tanto di giacca con le code e passamaneria dorata e mostrine sulle spalle. L’elemento di scena del circo lo abbiamo, il trapezio. Sarà calato dall’alto, con me sopra, con un occhio di bue che mi inquadrerà per tutto il tempo, fino a che non metto piede a terra. Senza protezioni di nessun tipo. Non ho voluto imbragature o reti. So stare su un’altalena senza cadere.
Salgo sul trapezio, cercando l’equilibrio con entrambe le mani ben salde sulle corde che tengono il seggiolino, accavallo elegantemente le gambe, mentre Tanja nell’auricolare mi dice come spostarmi per farmi meglio inquadrare dalla telecamera. Seguo le sue indicazioni fino a che non mi dice che è ok. Non mi interessa se mancano solo quindici secondi e devono tirare su questo trabiccolo.
Ci siamo.
Prendo il microfono con la mano sinistra, mentre con la destra mi tengo saldamente alle corde. Il trabiccolo si muove e mi solleva. Comincio a salire verso l’alto. Sempre più su.
Non ho mai sofferto di vertigini e spero che la cosa non voglia iniziare a manifestarsi proprio ora.
Sto salendo. Due metri.
La platea osserva estasiata.
Tre metri.
Sento questo affare che trema, ma mi convinco che sia solo suggestione.
Quattro metri e mezzo.
Mi sgranchisco il collo spostando la testa all’indietro.
Sei metri.
Mi sta anche venendo fame.
Sette metri.
Devo dire a Tanja di procurarmi qualcosa da mangiare.
Sette metri e mezzo.
Spero di non svenire per la fame.
Otto metri.
Magari mi faccio portare un hamburger.
Nove metri.
E una pepsi.
Dieci metri.
Si. Doppio cheeseburger e pepsi. Perfetto.
La mia corsa si arresta. Sono a dieci metri da terra.
Sono pur sempre su un’altalena. E su un’altalena che si fa? Ci si dondola.
Quindi mi dondolo un po’ anche io, avanti e indietro. È estremamente piacevole. Dondolarsi a dieci metri da terra. Con il rischio di volare di sotto.
Posso quasi sentire una leggera brezza che mi accarezza, ma di nuovo mi convinco che sia solo suggestione.
Sento Tanja che trattiene il respiro nel mio auricolare.
Non cado, le vorrei urlare con disprezzo.
Lo so, maledetta sanguisuga, che ci tieni alla mia pellaccia perché ti faccio vivere meglio della regina d’Inghilterra. Cosa credi? Che pensi che stai con me sono perché mi ami e siamo amiche da sempre? Sei stata tu ad accompagnarmi in ospedale per abortire, perché un bambino non avrebbe giovato all’inizio della mia carriera, soprattutto perché avevo quindici anni e già cominciavo a farmi un nome. E a te faceva comodo toglierti dalla squallida roulotte in cui vivevamo.
Quindi stai tranquilla. Non cado. Sono perfettamente consapevole di quello che sto facendo.
Mi dondolo piano, la platea ha gli occhi puntati su di me.
Sorrido, anche se so che loro non lo possono vedere.
Li sento trattenere il fiato.
Mancano meno di cinque secondi. Siamo pronti.
Le luci si spengono.
Buio. La platea è completamente silenziosa. I miei sensi sono così all’erta che potrei sentir cadere un ago e dirvi se è atterrato di testa o di punta.
La mia entrata è a un angolo del palco questa volta. Occhio di bue leggermente azzurrato che si accende su di me. Inizia la discesa del trapezio, mentre io comincio a parlare per intrattenere il mio pubblico. Non ho nulla di preparato in scaletta per questo pezzo. Quindi posso dire quello che mi viene in mente. Tanja mi consiglia di dire qualcosa di spiritoso e di parlare di come mi sento a dieci metri dal suolo.
Stare sospesi a dieci metri dal suolo è indescrivibile gente. Da quassù sembrate tutti piccoli e carini sapete? Scherzo, sembrate piccoli anche da vicino.
Il pubblico ride.
Mi piace questa cosa.
Inizio a scendere calata da sopra il trapezio. Ho accavallato le gambe e mi tengo alle funi del trapezio con una mano sola. Con l’altra tengo il microfono nel quale parlo.
Quando arriverò finalmente a terra vi presenterò le nomination per la prossima categoria, che sarà quella di Best singer male.
Il pubblico femminile rumoreggia.
Buone ragazze, buone. Lo so che c’è di che rifarsi gli occhi, ma abbiamo qualche defezione causa matrimonio tra le nomination, sapete? Quindi rifatevi gli occhi ma con moderazione.
Di nuovo ridono.
Anzi, sapete che vi dico? Visto che è l’unica cosa che ci resta, rifacciamoci gli occhi e basta! Tanto non li consumiamo! I cantanti, non gli occhi.
Altra risata seguita da qualche fischio di approvazione.
Grazie. Grazie. Troppo buoni.
Mimo un inchino, per quanto mi sia possibile senza cadere.
Non cado. Ancora non è il mio momento per entrare nel Wall of Fame come celeb morta sul lavoro.
Non ho protezioni di nessun tipo, né corde di sicurezza né imbragature. Se cado sarà il volo più spettacolare della storia.
Questo si chiama “entrare nella leggenda”.
Questo vuol dire diventare delle icone che sopravvivono alla propria morte.
Il trapezio si blocca a circa tre metri dal suolo. Da questa altezza posso rompermi una gamba, ma si aggiusterebbe nel giro di un mese o due.
Oh. Credo si sia inceppato il meccanismo che fa scendere questo affare.
Bugia bella e buona ma il pubblico apprezza a suon di urletti e applausi.
Presenterò quindi da qui le prossime cinque nomination.
Best singer male. The nominees are.
The doc.
Applauso.
Kennedy King.
Applauso comprensivo di urla di approvazione.
Jaz- Tin.
Applauso fragoroso.
TJ.
Applauso.
Scott Hickey dei Juda’s Voice.
Urlo deflagrante.
Quattro rapper neri e un gran figo bianco leader di uno dei gruppi più in vista del momento.
Incrocio le dita sul vincitore. Non ho voglia di un altro stronzo negro e sudaticcio con le mutande in bella vista che mi abbraccia mentre ritira il suo premio.
In qualche modo io devo scendere da qui.
Ovviamente anche questo è stato programmato e provato prima.
Anche se solo due volte con gli Special K, il gruppo di Andy Slater che mi affiancherà in questa premiazione. Le altre volte l’abbiamo fatto coi pompieri. Uno me lo sono anche scopato. Non era male.
Praticamente il compito di questi tre stuzzicadenti in jeans e giacche di pelle è di stendere un telo elasticizzato rosa shocking e tenerlo sotto al trapezio, in modo tale che io possa saltare giù e atterrarvi proprio sopra.
Un po’ come il telone dei pompieri, appunto.
Il principio è sostanzialmente lo stesso.
Solo che i pompieri sono dei bei fustacchioni alti e ben piazzati che potrebbero sollevarmi sul palmo della mano sinistra. Per quello me ne sono fatto uno.
Questi tre potrei sollevarli io con i vestiti addosso. Tutti e tre insieme.
Speriamo che reggano il colpo, o io volo a terra. Posso garantire che non è piacevole. L’ho già fatto una volta durante le prove, quando stavamo calibrando il telone. Ho avuto un orrendo livido viola sul culo per due settimane e quasi non potevo sedermi.
Se mi fanno cadere faccio una delle più colossali figure di merda nella storia della televisione.
E loro sono morti.
Letteralmente.
Quindi sarà meglio per loro che non mi facciano cadere.
Li guardo tutti e tre, per fargli capire le mie intenzioni. Loro stanno srotolando il telone sotto di me. Il copione prevede che salgano sul palco senza degnare la folla di un solo saluto, non si devono fermare a prendere applausi o altro, non devono sorridere, non devono nemmeno considerare l’esistenza delle telecamere. Hanno il telone arrotolato con sé, lo portano in spalla, arrivano sotto il mio trapezio, lo stendono a terra velocemente, lo sollevano, lo tengono bello teso e al mio cenno di intesa a Andy, mi lancio e loro mi prendono.
Questo, sul copione.
Nella realtà.
Gli Special K sono tre froci repressi che non farebbero credere nemmeno a Ray Charles di essere etero, che non appena sentono i primi applausi del pubblico quando entrano da dietro le quinte col telone in spalla, si fermano a salutare e a farsi acclamare come se fossero delle star del cinema e non tre sfigati che a malapena strimpellano e mettono assieme qualche parola a formare una canzone. Per stendere il telone a terra ci mettono all’incirca dieci minuti, troppo presi tra un saluto e un’aggiustata, nemmeno fossero dei geometri. Dovrebbero sollevarlo insieme, lo abbiamo anche provato. Gli altri due, di cui ovviamente non ricordo il nome, ma non importa, dovrebbero guardare Andy, che dovrebbe fare un cenno. A quel punto dovrebbero sollevarlo tutti e tre insieme. Invece sembra uno sketch di Gianni e Pinotto. Due lo tirano su, il terzo lo lascia già. Quando il terzo lo solleva, uno degli altri due lo cala e così via. Mi mordo la lingua per non urlare che sono tre incapaci.
Il pubblico ride, convinto che il loro sia un numero comico appositamente preparato.
Preparato un cazzo.
Sono tre idioti. Non sono nemmeno in grado di sollevare un cazzo di telone. La special K del loro nome mi sa che gli ha veramente bruciato il cervello. Loro e il loro anestetico per cavalli.
E dopo l’ennesimo su e giù del telone, uno dei due di cui non ricordo il nome, che credo sia il batterista, si gira anche verso il pubblico delirante con le braccia al cielo in segno di vittoria o di disperazione, questo non lo so, e si fa acclamare.
Sono senza parole.
Se è possibile rimanere ancora più senza parole di quanto già non fossi prima.
Potrei anche prendere una decisione drastica e buttarmi giù da qui, sperando di atterrare in piedi come i gatti. Solo che se lo faccio, e atterro davvero come i gatti, appena mi rialzo li infilzo tutti e tre su uno dei miei tacchi e gli faccio fare il girarrosto sul fuoco. Sono talmente magri tutti e tre da sembrare degli scheletri. Il tacco di un solo stivale basta e avanza.
Alla fine sembrano decidersi. Credo sia passato un tempo sufficiente per far arrivare una nuova glaciazione.
Se queste sono le premesse, c’è da immaginare il mio animo nel saltare giù. Letteralmente all’apice della gioia. Il pubblico ancora ride, l’attenzione è su di loro. Devo fare qualcosa per riportare l’attenzione di tutti su di me. Sono io la star della serata. Non loro. Non lei. Ma io. Sempre e solo io.
Quindi abbraccio il mio pubblico con lo sguardo, faccio la faccia più comicamente spaventata che mi riesca, non che mi ci voglia molto impegno, bacio la mia speciale croce che porto sempre al collo, mi faccio il segno della croce con la mano che regge il microfono e mi sposto di qualche centimetro in avanti, pronta per il tuffo.
La storia della croce che ho al collo è davvero comica, una di quelle da raccontare ai nipotini.
Quando mi hanno portato in rehab, dopo che le foto di me sbronza e strafatta che improvvisavo una lap dance con un poliziotto e poi gattonavo verso la mia macchina cercando di scappare hanno fatto il giro del mondo, sono rimasta pulita per circa una settimana. Il tempo necessario al mio fisico per disintossicarsi un po’. Il mondo, alla fine della settimana, ha ricominciato a fare schifo come faceva prima e ed essere insopportabile. I tribunali hanno minacciato all’istante di togliermi la custodia dei miei figli. A me non interessava per niente, anzi, l’avrei vista come una benedizione, ma il mio manager ha detto che sarebbe stata una pessima pubblicità. Una madre che si fa togliere i propri figli non è mai una buona pubblicità. Dovevo assolutamente mostrarmi pentita e fare ammenda. Il che significava nuovo look, faccia contrita, lungo rehab, dichiarazioni alla stampa e interviste con lacrime. Tutto studiato nei minimi dettagli. Ho avuto una squadra di pubblicitari ed esperti di marketing e comunicazione al mio servizio 24/7 per due mesi e mezzo. Senza contare i parrucchieri, le truccatrici, le estetiste, i personal trainer, gli insegnanti di yoga e i maestri spirituali.
Una vera e propria squadra, capeggiata ovviamente dal mio manager e da Tanja. Gli unici che potessero ufficialmente portarmi degli oggetti senza che fossero ribaltati da cima a fondo per la perquisizione. In due mesi mi hanno portato una fortuna di oggetti. Molti libri soprattutto, dove la coca era nascosta nella rilegatura della copertina, ma nessuno ovviamente ci ha mai pensato,  ho avuto anche diverse cuffie per il mio ipod, visto che le rompevo a velocità incredibili, ma non avendo altro da fare per tutto il giorno non facevo altro che ascoltare musica, per cui le cuffie si rompevano velocissimamente. Il nascondiglio era l’interno delle cuffiette, o anche il caricabatterie dell’ipod, dove ce ne stava un sacchetto intero. Altre volte erano piccoli album con le foto dei miei figli, di solito degnate di considerazione per meno di venti secondi ma comunque molto sceniche. Di nuovo il posto perfetto era nella rilegatura dell’album. Ogni tanto mi veniva portato un cimelio di famiglia, come un bracciale o una collana col ciondolo. Nessuno ha mai sospettato di nulla. E io non ho masi smesso di volare con gli angeli. Anche se ho imparato a farlo molto meno, tenendo la cosa maggiormente sottocontrollo.
Il ciondolo a forma di croce deriva proprio da qui.
È stata la prima cosa che Tanja mi ha portato.
Ricordo ancora la scena. In piena notte ho corrotto uno degli inservienti del servizio di sorveglianza notturno. Per i turni di notte la clinica si affida a personale esterno, il più delle volte sono ex buttafuori o lottatori di wrestling falliti, a cui non interessa perché siamo qui. A dire il vero non gli interessa nemmeno chi siamo. Sanno solo che non dobbiamo muoverci dalle nostre stanze fino a che non arrivano gli infermieri la mattina alle sette. A suon di pompini mi sono guadagnata il diritto all’uso del telefono nella saletta ricreazione. Quello è l’unico posto in cui puoi ricevere le telefonate, o farle, ma solo di giorno, e sei sempre sotto il controllo stretto di uno degli inservienti della clinica, che ascoltano ogni singola parola che dici, anche quelle del tuo interlocutore. Quindi di giorno da li ho sempre e solo potuto fare telefonate banali e insignificanti, chiedendo dei miei figli, della casa, interessandomi di Amelie, e chiedendo come andava fuori, anche solo in generale.  Le telefonate serie le ho sempre e solo fatte di notte. A Tanja. E me le sono guadagnate, appunto, a suon di pompini, fatti a quel ciccione di nome Benjamin, o Brendon, non ricordo, che mi lasciava telefonare nel cuore della notte.
La prima persona che ho visto dopo una settimana qui dentro è stata Tanja. Stavo malissimo, ero letteralmente uno straccio. Senza trucco, con le occhiaie profonde e le guance scavate per la mancanza di sonno e il rifiuto del cibo, gli occhi di fuori e i capelli simili a quelli di una strega. Pensavo di morire in breve tempo. Sapevo di non poter continuare così molto a lungo. Volevo assolutamente la mia polvere magica. E volevo una sigaretta. E una birra, o della vodka o qualsiasi cos contenesse una minima traccia di alcool, fossero state pure le ciliegie sotto spirito o il disinfettante.
È stata Tanja a venirmi a trovare  non appena le visite sono state concesse. E mi ha portato la croce. Stavo per fargliela ingoiare. Ma lei ha insistito delicatamente.
Mi ha detto che avrei dovuto ritrovare la fede. Che avrei dovuto imparare a pregare, e a credere in Dio e nelle sue potenzialità. Mi ha detto che non sempre le cose sono come sembrano, e che questo periodo, che in quel momento mi sembrava solo una tortura gratuita, presto avrebbe assunto un altro significato. Mi ha detto di aprirmi alla fede, perché lei si sarebbe aperta per me. Poi mi ha fatto memorizzare a memoria il suo numero di cellulare. Me lo ha fatto ripetere come se fosse il rosario. Ancora e ancora e ancora. Finchè non l’ho imparato a memoria.
Solo allora se n’è andata via.
E io sono tornata in camera mia. A riflettere sulle sue parole. Perché Tanja non è mai stata una fanatica dell’ora di religione. A meno che non si trattasse di pregare un uomo in ginocchio. Li è sempre stata piuttosto fedele. E piuttosto appassionata.
Sapevo che voleva dirmi qualcosa. Così ho cominciato a girarmi in mano il crocifisso, alla ricerca di qualcosa. Poteva essere una chiave, o un indizio per qualcos’altro, ma mi pareva sinceramente impossibile. Troppi sceneggiati polizieschi mi avevano fottuto il cervello in una sola settimana.
Girando la croce ho cominciato a sentire qualcosa che si muoveva al suo interno, come se il suo peso si spostasse. C’era qualcosa dentro. E l’unico modo per vedere cosa era smontarlo.
Manco a dirlo che ho tirato troppo forte. E il braccino verticale si è sfilato di colpo. Ho visto volare granellini di minuscola neve nell’aria. Non potevo crederci.
Tanja era un mito.
Questo di chiama “fare di necessità virtù”.
Questo viene visto come l’unico modo per mantenere il cervello sano in casi estremi.
Ci siamo. Ormai non ho più scuse, e ho tutti gli occhi su di me. i tre cazzoni di sotto tengono il telo  sufficientemente teso. E sarà meglio per loro che non mi facciano cadere di sotto. Siamo in diretta. Non sono concessi errori di nessun genere. Se la scena viene male io non posso fermarmi e ripeterla. Se cado giù e mi spezzo una gamba le mia urla di dolore saranno udibili da tutto il pubblico, compreso quello a casa. Se mi spezzo l’osso del collo milioni di telespettatori potranno dire di aver assistito alla mia morte in diretta e di essere gli unici, visto che molto probabilmente sarà censurata e mai più ritrasmessa.
Quindi mi auguro per il mio bene, ma soprattutto per quello dei tre pagliacci qui sotto, che vada tutto come deve andare. Senza errori.
Salto.
Sono tre metri, non è molto, ma è comunque un bel salto.
Sento l’aria che mi sfila sul viso, stringo le chiappe, involontariamente digrigno i denti, le unghie mi si conficcano nel palmo della mano sinistra, sento le forcine che tirano sui miei capelli veri per tenere attaccata la parrucca bionda e riccioluta, vedo il pubblico con le bocche spalancate che osserva il salto, li vedo bene uno per uno, posso sentire i loro cuori battere all’impazzata, nessuno che tiene il ritmo con quello del vicino, è tutto un gran rombare d tamburi e grancasse e pedali, tra un po’ mi esploderanno i timpani lo so, e il vento mi strapperà la pelle del viso, sarò solo un teschio bianchiccio con un orrendo ghigno e le unghie finte che non mollano il microfono con i brillantini.
Poi il tempo si ferma.
Sono a metà strada, sospesa nel vuoto, l’altalena troppo lontana per allungare il braccio e afferrarla, il tappeto che si avvicina troppo rapido ma non abbastanza per farmici atterrare ora. Sono in bilico tra cielo e terra, sto sostanzialmente volando.
Mi sembra di avere di nuovo 15 anni, quando ho partorito nel bagno della scuola con Brent che mi diceva di fare piano per paura che ci scoprisse qualcuno. Per farmi sentire meno il dolore Brent mi aveva dato della chetamina – credo che fosse ketch almeno, ma non sono del tutto sicura. Non ricordo bene. Lui arrivava sempre con qualcosa di nuovo, io chiedevo solo che effetto facesse. E ogni volta lui mi diceva che mi avrebbe fatto volare. E così fu anche quella volta.
Infatti non ricordo una sequenza ben precisa di eventi, ma solo immagini che si susseguono un po’ a spezzoni, come se fossero i fotogrammi di qualche stupido sceneggiato in tv.
Ricordo il calore. Quando mi si sono rotte le acque. Ricordo di avere bagnato i pantaloni. Pensavo di essermela fatta sotto. Visto che avevo la pipì ogni cinque minuti. Ricordo che pensavo di essere davvero nei guai visto che non avevo un paio di pantaloni per cambiarmi. Ricordo che io e Brent eravamo nel cortile sul retro della scuola, nella parte più lontana dell’edificio, dove di solito i ragazzi più grandi andavano a fumare le canne. Noi invece andavamo la a farci di qualsiasi cosa Brent avesse per le mani. Li ci siamo dati il nostro primo bacio, e sempre li gli ho detto di essere incinta.
Quel giorno stavamo di nuovo li a farci. Io avevo male alla pancia, e non capivo perché. Ricordo che ero molto soddisfatta perché la ma pancia non era particolarmente visibile, anzi ero aumentata solo di qualche chilo, ma nessuno si era accorto di nulla visto che indossavo maglie larghe. Nemmeno le sarte si erano rese conto della cosa. Avevo semplicemente detto loro che, visto che era ormai la fine dell’anno e avevo gli esami finali a scuola e il lavoro, ero più nervosa del solito e sgarravo un po’ con i dolci e le patatine. Ci avevano creduto tutti. E mi avevano garantito che avrei finito quell’anno in quel modo, ma che, per quanto riguardava l’anno successivo, avrei avuto un insegnante privato, perché la mia carriera scolastica era ormai finita.
Osservavo le nuvole bianche che rapide scorrevano in cielo. O almeno rapide sembravano a me. Erano belle cicciottelle, sembravano di panna montata. E raccontavo a Brent quello che avevo fatto il giorno prima in studio. Quando all’improvviso sento il calore. Sento il bagnato. Poi sento una fitta. E quando guardo giù vedo che ho i jeans bagnati ed esclamo: “Cazzo me la sono fatta sotto!”.
Brent mi ha accompagnata in bagno, ma sentivo che c’era qualcosa di strano. Sentivo delle strane contrazioni della mia vagina, e non ero in grado di spiegarmele. Quando lo dico a Brent lui mi guarda, tra l’allarmato e il confuso e mi dice: “Non è che per caso stai partorendo?”
Mi sembrava impossibile, visto che secondo i miei conti ero al settimo mese o giù di li. Ma sentivo qualcosa spingere, come se volesse uscire. Sentivo premere. E faceva un po’ male.
Ricordo il corridoio deserto. Ricordo di aver ringraziato chiunque fosse dalla mia parte per aver permesso quel piccolo miracolo. Ricordo che anche il bagno era misericordiosamente vuoto. Io e Brent ci siamo infilati in uno dei gabinetti, e abbiamo cominciato a discutere sul da farsi. Io pensavo solo ad asciugare i pantaloni. Brent a escogitare un modo affinché nessuno mettesse piede li dentro prima che noi potessimo aver finito. Chiuse quindi la porta del bagno con il cestino dei rifiuti, ma prima gli attaccò sopra un cartello scritto a penna “Fuori servizio”. Per qualche minuto potevamo sperare di rimanere tranquilli. Io nel frattempo mi ero tolta i pantaloni per farli asciugare con il getto dell’aria calda con cui di solito ci si asciuga le mani. Ricordo che ho buttato le mutandine nel cestino per gli assorbenti. Potevo vivere anche senza. Ma mentre camminavo a piedi scalzi per il bagno della scuola ho sentito un’altra fitta fortissima alla pancia. E allora Brent è costretto ad avvicinarsi a me, per aiutarmi a raggiungere una qualunque superficie di appoggio. Mi fa sedere sul ripiano dove ci sono i lavandini per lavarsi le mani. Io mi prendo la pancia. Sento delle fitte, ma è come se fossero lontane. Come se appartenessero al corpo di qualcun altro. Come se non fossero nemmeno mie.
Non mi rendo nemmeno conto di quello che sta facendo Brent. Io noto una piccola crepa nel muro di fianco ai lavandini e non faccio altro che osservarla a lungo, soffermandomi ad ammirare quanto sia bella e irregolare. Inclino persino la testa di lato per osservarla meglio, mentre Brent mi parla, ma io non lo sto ad ascoltare. Non ho voglia di sentire le sue parole, non ho voglia di sentire la sua voce. Ma è lui che mi costringe a riportare con prepotenza l’attenzione su di sé.
“C’è qualcosa che non va” mi dice leggermente allarmato. “Sei così larga che potrei farci passare attraverso una mano e tu non la sentiresti nemmeno” mi dice sempre con lo stesso tono.
Già, gli rispondo con disinteresse. Almeno credo di aver parlato. Mi stringo nelle spalle, questo è sicuro, mi mordo il labbro, e continuo a guardare la crepa. Percorre tutto il muro, dal pavimento fino al soffitto, poi si dirama sul soffitto, fino a toccare il condotto di aerazione. La leggenda dice che tante matricole si infilino nei condotti di aerazione per andare a spiare nelle altre classi, o nei bagni. Si dice anche che alcuni non siano mai più tonarti indietro, incastrati in qualche condotto da cui non sono più riusciti a divincolarsi, e sono quindi rimasti per sempre la. Chissà se è possibile trovarci le loro ossa.
Questo si chiama “curiosità morbosa”.
Questo viene di solito spacciato come leggenda ma spesso corrisponde al vero.
Sento Brent da molto lontano. Sta parlando ma non sono esattamente sintonizzata sulla sua lunghezza d’onda.  Dice cose strane come “Ci sono tanti più peli di quanti tu non ne abbia di solito” e “Vedo una faccia tra le tue gambe”. Ma sono parole sconnesse e inutili. Io guardo la crepa nel muro. Guardo il condotto di aerazione. Immagino i ragazzi che si sono infilati lassù chissà quanti anni fa per cercare una via d’uscita da questo posto di merda, per evadere un’ora passando inosservati, ma alla fine sono passati inosservati e basta.  Quasi mi dispiace per loro, ma se devo essere sincera non li ho mai conosciuti, quindi alla fine il mio può essere solo un dispiacere relativo. Come fai a dispiacerti per persone di ci non hai mai visto nemmeno gli occhi? O un sorriso?
Sento qualcosa che spinge. Qualcosa che esce. Caldo. Grande.
E’ come quando Brent usa tutta la mano fino al polso. Ma questa volta non ho l’impressione di qualcosa che  sale, ma di qualcosa che scende.
Sento la voce di Brent sempre più allarmata, ma ancora non ci presto attenzione, fino a che lui, terrorizzato come una donnetta mi dice che c’è del sangue. Che c’è tanto sangue.
“Si vede che non hai mai avuto le mestruazioni” gli rispondo io, perlustrando anche il pavimenti. Chissà se questo posto ha anche delle cantine. O quanto meno dei sotterranei. Magari hanno tentato la fuga anche attraverso i sotterranei e ogni giorno noi camminiamo sulla testa di qualche povero scheletro ignoto.
Qualsiasi cosa mi abbia dato prima Brent era davvero molto buona, e ora mi sento così leggera che ho l’impressione di volare. Anche quei tre o quattro chili che ho preso sembrano essere scomparsi. Mi sento così bene. Mi sento in grado di fluttuare nell’aria come una fata. O un fantasma.
Sorrido e chiudo gli occhi, sospirando profondamente.
Potrei quasi addormentarmi in tanta pace.
Ma si sa che quando le cose sono troppo tranquille deve sempre arrivare qualcosa che va a scompigliare i piani. Un cane che abbaia a un topo. Un’ambulanza che corre al pronto soccorso con un ferito da arma da fuoco. Un bambino che piange per la fame.
Odio i bambini che piangono. Specie quando sono troppo vicini a me. Apro gli occhi, infastidita, pronta a trucidare Brent e qualsiasi cosa si stia mettendo tra me e il mio meritato riposo. E vedo Brent con un fagottino in mano, qualcosa di strano, deforme e che fa un discreto casino.
“Fallo. Smettere. Subito” biascico in direzione di Brent.
Brent mi guarda, quasi al limite del collasso emotivo, e mi dice che è una femmina.
“Non mi interessa. Potrebbe anche essere un trans con le orecchie da alieno e le pinne della Sirenetta per quel che mi riguarda. Tu fallo smettere. Subito. Devo dormire.”
Ricordo altri frammenti. L’acqua del lavandino che scorre, Brent che parla sottovoce al fagottino, il fagottino non più sporco, io che mi siedo sul lavandino e mi lavo tra le gambe, togliendo ogni traccia di sangue dai miei peli pubici, Brent che si sfila la felpa e ci avvolge il fagottino, io che asciugo i miei pantaloni sotto al soffione di aria calda, Brent che culla il fagottino e continua a parlargli, io che osservo il pavimento da vicino per accertarmi che non ci siano crepe o fessure di nessun genere, Brent che mi dice di non preoccuparmi e di aspettarlo li, Brent che esce dal bagno, io che finalmente dormo, seduta in uno dei gabinetti, io che mi sveglio alla fine dell’ultima ora, raccolgo la mia borsa e me ne esco dalla scuola, Brent che sparisce fino al giorno dopo.
Oltre a quell’unica volta, io mia figlia non l’ho mai vista. Brent mi disse che l’aveva lasciata davanti all’ospedale, e aveva atteso finchè non era arrivata un’infermiera a raccoglierla. A quel punto se n’era andato a casa e non ci aveva più pensato. Io nemmeno.
Troppi impegni. Troppe cose da fare. La mia carriera era all’inizio. La mia vita come cantante stava per avere una svolta. Una svolta seria. Non mi potevo di certo permettere distrazioni come quella.
Finchè non sono arrivata qui. A volare giù da un’altalena pregando che tre idioti mi prendano al volo su un telone elastico rosa.
Sono a metà strada, in volo tra il mio ritorno alla popolarità e la mia morte mediatica. È un salto incredibile, e quasi completamente inspiegabile. La mia vita si sta giocando in questi pochi istanti. Che a me sembrano non passare mai. Sono completamente irreali. Non si muovono. E io sono ferma insieme a loro.
Fino a che sento la stoffa del telone sfregarmi contro le cosce nude, sento la ruvidezza del tessuto grattarmi dietro i gomiti. Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta ce l’ho fatta ce l’ho fatta! Ho preso in pieno il telone e i tre idioti sembrano reggere ben- ahia!
Gli idioti non reggono bene il colpo. Perché io sbatto il culo per terra.
Cazzo che male.
Alle telecamere però la cosa passa inosservata, dal momento che sembra che i tre coglioni abbiano accompagnato il movimento per smorzare il contraccolpo. Quindi il fatto che io abbia sbattuto il culo per terra non solo non si è visto, me è addirittura sembrato un enorme gesto di intelligenza da parte di questi tre idioti, che si sono dimostrati dei perfetti pompieri.
A me verrà il culo viola ma loro sembrano eroi. Fantastico. Davvero fantastico.
Il telone viene teso, io scivolo giù, di nuovo in piedi, sorridente, e con le braccia la cielo, il pubblico in delirio.
Abbraccio i ragazzi, come da copione, premurandomi di pizzicare dolorosamente il fianco di Andy, che mi guarda con una smorfia di incomprensione, ma che ritrasforma immediatamente in sorriso non appena vede il mio sguardo assassino. Una sola parola e ti trucido sul palco, maledetta checca inutile.
Gli applausi continuano e i ragazzi mi portano alla ribalta. Ovviamente devo fare la faccia di quella che non vuole starci, e che ha quasi vergogna a prendere tanti complimenti, ma in realtà ci sto benissimo, anche perché me li merito tutti.
“Ok ok ok… gente è il momento di continuare, perché vedo già i maschietti nominati per le prossime nomination scalpitare ai loro posti e fare gesti scaramantici di ogni genere. E non è carino vedere tanta gente che si gratta il pacco contemporaneamente! Sembra di essere gli spettatori della più grande orgia del mondo!” scoppiano tutti a ridere.
“Quindi presentiamo la prossima categoria! Best singer male!”
Scoppia un applauso fragoroso.
Presento per bene i cinque in gara. Non so proprio come abbiano fatto a meritare la nomination a best male, dal momento che sono uno più pietoso dell’altro. Ma tant’è. Non sono io che decido.
Abbiamo: The doc con “Fuck you”, Kennedy King con “Harder & hotter”, Jaz- Tin con “Show time”, TJ con “Lie to me” cantata in coppia con May Donovan che però non ha preso nemmeno una nomination, e per finire Scott Hickey dei Juda’s Voice con “Search me (Where there’s no sunshine)”. Quattro rapper uno peggio dell’altro e un cantante che non si capisce da che parte voglia stare.
Viene portata la busta, consegnata nelle mani di Andy, che fa partire un teatrino stupido e quanto mai assurdo. Ha il microfono in mano, e non riesce ad aprire la busta. Un bambino senza un braccio sarebbe meno handicappato di lui.
Io sorrido di cortesia, anzi in alcuni momenti seguo il pubblico, facendo finta di scompisciarmi dalle risate, ma mi appunto mentalmente di fargli recapitare una bottiglia di champagne piena di lassativo. Basta che chiami Tanja non appena vedremo il video del vincitore. E vedi cosa gli combino.
Dopo tre minuti di assurda e oscena pantomimica, riesce ad aprire questa stramaledetta busta e io sbircio. Non avevo dubbi su chi fosse il vincitore. È anche vero che con simili possibilità di scelta, prendere il meno peggio è praticamente d’obbligo.
“And the winner is…” Andy guarda tutti con la sua faccia da schiaffi e un sorriso che farebbe venire gli incubi all’uomo nero, solleva la busta, dopo aver fatto finta di consultarsi con i suoi compagni di gruppo, e annuncia trionfale “Scott Hickey dei Juda’s Voice!”.
L’applauso parte generale e generalizzato. Le telecamere staccano da noi, mentre inquadrano Scott che abbraccia la sua band, bacia la sua fidanzata e percorre il corridoio tra le poltrone per raggiungerci sul palco. Nel mentre a noi viene consegnato il trofeo. Questa orrenda cosa formata da una specie di torcia con tanto di fiamme, circondata da tre cerchi che si conficcano nella base, incrociati tra di loro e di dimensioni asimmetriche, tutta ricoperta di stupida vernice dorata che molto probabilmente se ne andrà alla prima lucidata, e una targhetta davanti con la personalizzazione. Quindi dobbiamo ogni volta controllare che ci sia stato consegnato il trofeo giusto. Prima che al best singer female consegniamo quello di best group. Allora si che la serata finirebbe in merda.
Quindi controllo la targhetta, faccio le prove di sorriso, e aspetto di vedere di nuovo la luce rossa sulla telecamera fissa su di me.
Il buio scompare di nuovo, mentre Scott Hickey percorre il corridoio tra le poltrone e le scale che lo conducono sul palco, le telecamere lo inquadrano, anche se quella fissa su di me riprende. Nessun errore ora. O sarà comunque visto. Scott sale le scale ed entriamo entrambi nella stessa inquadratura.
Mi abbraccia e lo ricambio, sorridendo e complimentandomi con lui, saluta i tre idioti con generose manate sulle spalle e assurde pacche sulle braccia, poi si gira di nuovo verso di me, prende il premio e lo solleva verso l’alto, visibilmente felice.
Gli piazzo il microfono davanti alla bocca, così da lasciargli il tempo per due parole di ringraziamento.
“Volevo ringraziare la mia band, la mia fidanzata, il mio manager, tutta la mia crew, e soprattutto tutti i nostri fans, senza i quali non sarebbe mai stato possibile ottenere questo premio. Grazie a tutti di cuore!” Si prende il suo applauso e se ne torna a sedere al suo posto, con un sorriso a trentasei denti.
Video.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: heles_allgood