1. Strawberry Fields.
La pioggia cadeva rumorosa, fitta, migliaia di gocce sottili come aghi.
Sotto essa respiravano bocche di uomini e donne che fuggivano
sull’asfalto
bagnato, riempiendosi le scarpe, i pantaloni o le calze di schizzi di
sporcizia. Le strade erano un vorticare di ombrelli dai mille colori,
le
macchine non si muovevano di un centimetro e tanti erano quelli che,
spazientiti, premevano con rabbia sul clacson.
L’odore dell’acqua era irraggiungibile, soffocato
dalle fognature traboccanti,
dalla benzina e dal fumo delle sigarette.
Quello, le urla delle macchine, il vociare di chissà quante
persone e la calca
umida che andavano a comporre, stavano ospitando un qualcosa.
Ma nessuno lo sapeva, tranne questo qualcosa, o meglio, qualcuno, che
si faceva
spazio a spallate nella massa: niente ombrello , i vestiti
completamente
bagnati e il cappuccio che calava sul viso femminile, sulle labbra
sporche; la
lingua guizzò fuori da esse, le leccò e la
giovane arricciò il naso, disgustata
dal sapore del ferro e da quello della pioggia sporca.
Doveva arrivare a casa, immediatamente.
Corse ancora, le converse finirono più volte in pozzanghere
paragonabili a
laghi e le ginocchia continuarono a tremare sempre di più,
per la stanchezza di
una corsa che durava da più di un chilometro e, soprattutto,
per la paura.
Svoltò ancora e ancora, entrò in una via
illuminata da poche insegne e fatta di
più mattoni e, una volta arrivata davanti ad una scalinata
tutta in ferro e a
zig-zag, si mise a saltare quei gradini quasi due a due, una mano ben
stretta
alla ringhiera bagnata.
Aveva troppo timore per ciò che stava stringendo contro il
petto per
preoccuparsi di qualcosa come cadere di sotto.
Fatte almeno sei rampe, finalmente, si fermò e
infilò la mano sinistra nella
tasca; la chiave, la chiave, dov’era la chiave!?
“ Eccola! ”
Disse a se stessa, tirando fuori il mazzo e infilando la chiave
più grossa
nella porta accanto a lei. Fattò ciò non si
preoccupò nemmeno di chiuderla, ma
tirò a dritto perl corridoio tappezzato, fino a giungere ad
un’ennesima porta,
laccata di verde.
Aprì anche questa, ma una volta entrata in un salotto buio,
vide bene di
chiuderla, girando la chiave nella toppa ben due volte; solo allora si
voltò e
quasi colpì l’interruttore della luce, rivelando
un appartamento distinto e dai
grandi pavimenti in parquet, sulla quale le gambe esauste si
abbandonarono.
Il cuore non le era mai battuto tanto, nemmeno quando aveva dato il suo
primo
bacio.
“ Sono al sicuro. ”
Scandì mentalmente e più di una volta, come a
volersi tranquillizzare.
Solo allora staccò dal petto quello che aveva protetto per
tutto il viaggio, la
causa della sua corsa senza fine, e lo gettò sul pavimento:
era una borsa di
plastica.
Una borsa di plastica in grado di sbranare la
camicia sulla quale era
stata premuta fino ad allora.
La ragazza si tirò giù il cappuccio, rivelando
dei capelli che, se non fossero
stati zuppi d’acqua, avrebbero avuto una tinta rosso
brillante e una piega
riccia, anzi, ribelle.
Oltre a questo c’erano due occhi azzurri contornati da ciglia
scure, che adesso
seguivano, seri e concentrati, ogni mossa che avveniva dentro quel
sacchetto di
plastica bianco del supermarket.
Qualcosa si stava muovendo, sì.
Si muoveva alla continua ricerca dell’apertura e, al
contempo, emetteva versi
striduli che facevano rizzare i peli sulla pelle di lei.
Un’altra mossa, più
violenta, che fece spostare tutto di una decina di centimetri, e
ciò che
agitava la busta fece capolino da essa con un gemito soddisfatto.
« Cosa diavolo sei. »
Spirò con voce tremante, osservando quello che, ad una prima
occhiata, altro
non sembrava che un giglio bianco e violetto, sbarbato da
terra
con tutte
le radici. Radici che si muovevano, facendogli compiere passi incerti e
infantili, mentre sbatteva delle grandi ciglia trasparenti poste sui
due petali
laterali.
Le grandi iridi gialle, dopo aver lanciato sguardi strabici alla
stanza, si
ritrovarono addosso alla rossa, la quale ricambiò con uno
sguardo a dir poco
inquieto.
Sulla corolla si aprì un sorriso innaturale, composto da
tante fila di dentini
appuntiti.
« Camille. » Disse il fiore, con voce stridula e
disumana. « Camille, Camille.» Ripeté.
La stava cercando; quell’orrenda bestia sapeva dire solo il
nome di colei che
aveva di fronte e, nemmeno un’ora fa, l’aveva colta
da terra.
Camille amava fare molte cose e tra queste c’erano le
passeggiate. Central
Park, lo spazio verde per antonomasia di New York City, era
indubbiamente il posto
adatto e non passava una settimana senza farvi visita almeno tre o
quattro
volte. Si portava dietro i compiti, l’mp3 o un libro e si
stendeva nei pressi
di Strawberry Fields, in onore dei suoi tanto amati Beatles.
Quel giorno, però, si era fermata un po’
più in là, in una zona un po’ meno
affollata; doveva studiare un capitolo di storia settecentesca e non
voleva
distrazioni.
Stesa sul telo che si era portata dietro, aveva alzato gli occhi solo
dopo che
Robespierre, in una scritta in grassetto a pagina 478, era stato
ghigliottinato.
Nell’acceso verde monotono di quel posto, spuntava, quasi
facendo male agli
occhi, un fiore bianco e viola, con i petali appuntiti.
Lei avrebbe voluto tornare a Robespierre, se non fosse stato che
un’altra cosa
che amava era il giardinaggio e una che odiava, la storia.
Ricordava come si fosse inginocchiata vicino a quel fiore con il
coltello che
aveva portato da casa per sbucciare il suo spuntino,
un’arancia, e avesse
iniziato a scavare attorno ad esso, fino a tirar fuori le radici e una
bella
zolla di terra. Tornata a casa, l’avrebbe piantato in un vaso
vicino a quello
delle margherite.
Soddisfatta, aveva portato il naso a pochi millimetri dai petali e
dalla
corolla, per annusarne la fragranza.
Ma quello non profumava, il suo odore era tutto fuorché
gradevole. Sbigottita,
realizzò che sembrava carne marcia.
Fu in quel momento che gli occhi gli si aprirono e i denti graffiarono
il
labbro di Camille, un secondo prima che lo allontanasse con un urlo
terrorizzato.
Quello che le era sembrato un fiore da coltivare, ora batteva i due
occhi
verticali e la fissava, mentre attorcigliava le radici intorno al suo
polso,
stringendo tanto da farle male.
Allora Camille aveva agito d’istinto e, ficcata la mano nella
busta, aveva
iniziato a colpire, provocando le grida raggelanti di quella piante
maledetta.
“Devo andarmene.”
Aveva pensato, notando che quelle urla avevano attirato sguardi
curiosi.
Era così che aveva deciso di finire quello che aveva
iniziato nel suo
appartamento, dove ora si trovava insieme a quel… mostro.
Il fiore rise, mostrandole le fauci, e Camille, con orrore, vide tra
esse i
brandelli a quadri della sua camicia, il rosso del sangue delle sue
labbra e le
bucce dell’arancia.
Guardò dentro il sacchetto: si era mangiata pure il coltello.
« Camille, Camille. »
Chiamò ancora, facendo cadere fuori dalla bocca la lingua
biforcuta. Ma Camille
ovviamente non rispondeva, presa a pensare come diavolo potesse
risolvere
quella situazione.
Come poteva ucciderla?
Di certo non con un’arma, figurarsi, si era mangiata un
coltello! E se per due
pugni aveva gridato in quel modo, chissà che avrebbe fatto
se avesse provato, per
ipotesi, a bruciarla.
Abitava in un condominio, poco ma sicuro che qualcuno avrebbe chiamato
le
autorità pensando che la figlia dei vicini stesse
assassinando un’amica che
l’aveva tradita.
« Camille, Camille! »
« Basta… »
Disse, con i denti serrati, prima di fare l’ultima corsa,
quella verso camera
sua.
Poteva udire chiaramente, dietro la porta, il mostro continuare
a
chiamare il suo nome.
Girò e rigirò la chiave, mettendo una sedia sotto
il pomello. Non pensava che
quel coso avesse la forza necessaria e, soprattutto,
l’intelligenza per aprire
la porta, ma verso le quattro del mattino, quando sentì
qualcosa grattare
contro di essa, realizzò che le sue radici lo portavano
ovunque
esso desiderasse.
Zam zam,
ecco il prologo.
Che cos'è
l'essere nel sacchetto?
Tutto si
scoprirà nel prossimo capitolo. ♥
Chiedo scusa per l'impostazione più "da libro" (senza
spaziare i dialoghi, per capirci ), ma c'è un motivo per cui
l'ho lasciata così... Nel caso risulti estramente scomodo da
leggere, ditemelo, rimedierò.
Spero che abbia
incuriosito qualcuno e, soprattutto, di ricevere commenti ecc...!
Baci!
_Valkyrie.