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Autore: Lucy_lionheart    15/06/2012    2 recensioni
Si muoveva alla continua ricerca dell’apertura e, al contempo, emetteva versi striduli che facevano rizzare i peli sulla pelle di lei. Un’altra mossa, più violenta, che fece spostare tutto di una decina di centimetri, e ciò che agitava la busta face capolino da essa con un gemito soddisfatto.
« Cosa diavolo sei. »

Umano e sovrannaturale, su due piani tanto sottili da potersi capovolgere.
Nel battito delle ciglia di un essere mostruoso e di una nuova amica riuscirà Camille a capire che ciò che le manca è ciò che ha lasciato chiuso tra ebano e avorio?
{ A Serena, la mia migliore amica. Grazie per tutto. }
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. Strawberry Fields.





La pioggia cadeva rumorosa, fitta, migliaia di gocce sottili come aghi.
Sotto essa respiravano bocche di uomini e donne che fuggivano sull’asfalto bagnato, riempiendosi le scarpe, i pantaloni o le calze di schizzi di sporcizia. Le strade erano un vorticare di ombrelli dai mille colori, le macchine non si muovevano di un centimetro e tanti erano quelli che, spazientiti, premevano con rabbia sul clacson.
L’odore dell’acqua era irraggiungibile, soffocato dalle fognature traboccanti, dalla benzina e dal fumo delle sigarette.
Quello, le urla delle macchine, il vociare di chissà quante persone e la calca umida che andavano a comporre, stavano ospitando un qualcosa.
Ma nessuno lo sapeva, tranne questo qualcosa, o meglio, qualcuno, che si faceva spazio a spallate nella massa: niente ombrello , i vestiti completamente bagnati e il cappuccio che calava sul viso femminile, sulle labbra sporche; la lingua guizzò fuori da esse, le leccò e la giovane arricciò il naso, disgustata dal sapore del ferro e da quello della pioggia sporca.
Doveva arrivare a casa, immediatamente.
Corse ancora, le converse finirono più volte in pozzanghere paragonabili a laghi e le ginocchia continuarono a tremare sempre di più, per la stanchezza di una corsa che durava da più di un chilometro e, soprattutto, per la paura.
Svoltò ancora e ancora, entrò in una via illuminata da poche insegne e fatta di più mattoni e, una volta arrivata davanti ad una scalinata tutta in ferro e a zig-zag, si mise a saltare quei gradini quasi due a due, una mano ben stretta alla ringhiera bagnata.
Aveva troppo timore per ciò che stava stringendo contro il petto per preoccuparsi di qualcosa come cadere di sotto.
Fatte almeno sei rampe, finalmente, si fermò e infilò la mano sinistra nella tasca; la chiave, la chiave, dov’era la chiave!?
“ Eccola! ”
Disse a se stessa, tirando fuori il mazzo e infilando la chiave più grossa nella porta accanto a lei. Fattò ciò non si preoccupò nemmeno di chiuderla, ma tirò a dritto perl corridoio tappezzato, fino a giungere ad un’ennesima porta, laccata di verde.
Aprì anche questa, ma una volta entrata in un salotto buio, vide bene di chiuderla, girando la chiave nella toppa ben due volte; solo allora si voltò e quasi colpì l’interruttore della luce, rivelando un appartamento distinto e dai grandi pavimenti in parquet, sulla quale le gambe esauste si abbandonarono.
Il cuore non le era mai battuto tanto, nemmeno quando aveva dato il suo primo bacio.
“ Sono al sicuro. ”
Scandì mentalmente e più di una volta, come a volersi tranquillizzare.
Solo allora staccò dal petto quello che aveva protetto per tutto il viaggio, la causa della sua corsa senza fine, e lo gettò sul pavimento: era una borsa di plastica.
Una borsa di plastica in grado di sbranare la camicia sulla quale era stata premuta fino ad allora.
La ragazza si tirò giù il cappuccio, rivelando dei capelli che, se non fossero stati zuppi d’acqua, avrebbero avuto una tinta rosso brillante e una piega riccia, anzi, ribelle.
Oltre a questo c’erano due occhi azzurri contornati da ciglia scure, che adesso seguivano, seri e concentrati, ogni mossa che avveniva dentro quel sacchetto di plastica bianco del supermarket.
Qualcosa si stava muovendo, sì.
Si muoveva alla continua ricerca dell’apertura e, al contempo, emetteva versi striduli che facevano rizzare i peli sulla pelle di lei. Un’altra mossa, più violenta, che fece spostare tutto di una decina di centimetri, e ciò che agitava la busta fece capolino da essa con un gemito soddisfatto.
« Cosa diavolo sei. »
Spirò con voce tremante, osservando quello che, ad una prima occhiata, altro non sembrava  che un giglio bianco e violetto, sbarbato da terra con tutte le radici. Radici che si muovevano, facendogli compiere passi incerti e infantili, mentre sbatteva delle grandi ciglia trasparenti poste sui due petali laterali.
Le grandi iridi gialle, dopo aver lanciato sguardi strabici alla stanza, si ritrovarono addosso alla rossa, la quale ricambiò con uno sguardo a dir poco inquieto.
Sulla corolla si aprì un sorriso innaturale, composto da tante fila di dentini appuntiti.
« Camille. » Disse il fiore, con voce stridula e disumana. « Camille, Camille.» Ripeté.
La stava cercando; quell’orrenda bestia sapeva dire solo il nome di colei che aveva di fronte e, nemmeno un’ora fa, l’aveva colta da terra.
Camille amava fare molte cose e tra queste c’erano le passeggiate. Central Park, lo spazio verde per antonomasia di  New York City, era indubbiamente il posto adatto e non passava una settimana senza farvi visita almeno tre o quattro volte. Si portava dietro i compiti, l’mp3 o un libro e si stendeva nei pressi di Strawberry Fields, in onore dei suoi tanto amati Beatles.
Quel giorno, però, si era fermata un po’ più in là, in una zona un po’ meno affollata; doveva studiare un capitolo di storia settecentesca e non voleva distrazioni.
Stesa sul telo che si era portata dietro, aveva alzato gli occhi solo dopo che Robespierre, in una scritta in grassetto a pagina 478, era stato ghigliottinato.
Nell’acceso verde monotono di quel posto, spuntava, quasi facendo male agli occhi, un fiore bianco e viola, con i petali appuntiti.
Lei avrebbe voluto tornare a Robespierre, se non fosse stato che un’altra cosa che amava era il giardinaggio e una che odiava, la storia.
Ricordava come si fosse inginocchiata vicino a quel fiore con il coltello che aveva portato da casa per sbucciare il suo spuntino, un’arancia, e avesse iniziato a scavare attorno ad esso, fino a tirar fuori le radici e una bella zolla di terra. Tornata a casa, l’avrebbe piantato in un vaso vicino a quello delle margherite.
Soddisfatta, aveva portato il naso a pochi millimetri dai petali e dalla corolla, per annusarne la fragranza.
Ma quello non profumava, il suo odore era tutto fuorché gradevole. Sbigottita, realizzò che sembrava carne marcia.
Fu in quel momento che gli occhi gli si aprirono e i denti graffiarono il labbro di Camille, un secondo prima che lo allontanasse con un urlo terrorizzato.
Quello che le era sembrato un fiore da coltivare, ora batteva i due occhi verticali e la fissava, mentre attorcigliava le radici intorno al suo polso, stringendo tanto da farle male.
Allora Camille aveva agito d’istinto e, ficcata la mano nella busta, aveva iniziato a colpire, provocando le grida raggelanti di quella piante maledetta.
“Devo andarmene.”
Aveva pensato, notando che quelle urla avevano attirato sguardi curiosi.
Era così che aveva deciso di finire quello che aveva iniziato nel suo appartamento, dove ora si trovava insieme a quel… mostro.
Il fiore rise, mostrandole le fauci, e Camille, con orrore, vide tra esse i brandelli a quadri della sua camicia, il rosso del sangue delle sue labbra e le bucce dell’arancia.
Guardò dentro il sacchetto: si era mangiata pure il coltello.
« Camille, Camille. »
Chiamò ancora, facendo cadere fuori dalla bocca la lingua biforcuta. Ma Camille ovviamente non rispondeva, presa a pensare come diavolo potesse risolvere quella situazione.
Come poteva ucciderla?
Di certo non con un’arma, figurarsi, si era mangiata un coltello! E se per due pugni aveva gridato in quel modo, chissà che avrebbe fatto se avesse provato, per ipotesi, a bruciarla.
Abitava in un condominio, poco ma sicuro che qualcuno avrebbe chiamato le autorità pensando che la figlia dei vicini stesse assassinando un’amica che l’aveva tradita.
« Camille, Camille! »
« Basta… »
Disse, con i denti serrati, prima di fare l’ultima corsa, quella verso camera sua.
Poteva udire chiaramente, dietro la porta, il mostro continuare a chiamare il suo nome.
Girò e rigirò la chiave, mettendo una sedia sotto il pomello. Non pensava che quel coso avesse la forza necessaria e, soprattutto, l’intelligenza per aprire la porta, ma verso le quattro del mattino, quando sentì qualcosa grattare contro di essa, realizzò che le sue radici lo portavano ovunque esso desiderasse.


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Zam zam, ecco il prologo.
Che cos'è l'essere nel sacchetto?
Tutto si scoprirà nel prossimo capitolo. ♥
Chiedo scusa per l'impostazione più "da libro" (senza spaziare i dialoghi, per capirci ), ma c'è un motivo per cui l'ho lasciata così... Nel caso risulti estramente scomodo da leggere, ditemelo, rimedierò.

Spero che abbia incuriosito qualcuno e, soprattutto, di ricevere commenti ecc...!


Baci!


_Valkyrie.



   
 
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