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Autore: Francesco_Finucci    16/06/2012    1 recensioni
L'esistenza umana è una infinita lotta col caos. Gli esseri umani tremano, sono terrorizzati dall'idea che una briciola di caos possa comparire nelle loro abitazioni. Mettono a posto, ma dove si è sentito mai di una specie che metta in ordine. Sì, in ordine! Immagini! E' il pensiero, la necessità che qualcosa permanga di noi, fosse anche una forchetta sciacquata e messa nel cassetto. Ma c'è dell'altro, quella forchetta è degna, sì, una forchetta, del nostro tempo, capisce, un giorno non ci saremo, e siamo lì, a insaponare, pulire, sciacquare e posare, un pezzetto di noi, un pezzetto del nostro tempo in una stupida forchetta, capisce, che quando non ci saremo più continuerà ad esistere, uno stupidissimo pezzo di metallo! E se non lo rimettiamo a posto, si ostina a rimanere lì, un segnale, un grido, un sussurro di passato, un tassello del puzzle che reclama il suo diritto di tornare a comporre il nostro ordinato cosmo, la nostra matrice originale, la vita residua di quell'oggetto batte il tempo come un vecchio orologio che non accetta la relatività e continua a scandire i secondi, tutti uguali, l'uno dopo l'altro.
Genere: Avventura, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Izanami la creatrice si mosse in quello scenario di guerra, modulando e distorcendo il dolore, il rumore e le schegge che
volavano nell'aria come un banale traffico di individui su di una strada affollata. La seguiva, consigliere cupo e ridente,
Susano'o, come un Dio delle tempeste. Nella polvere, nelle mani che non trovavano l'una l'altra stava una scacchiera, su di
una panchina. Ai suoi lati, come custodi del gioco, due uomini, anziani e immobili, sormontati da una natura morta, un albero
in fiore e fiamme, al limitare di un parco giochi.
Quando si avvicinarono, da quel simulacro d'immobilità nacque improvvisamente un cambiamento. L'uomo alla destra, dopo
aver posto una mano (di cui era visibile ogni tendine e vena) sul suo marmoreo alfiere, lo mosse a destra, in avanti. Susano'o,
colto dalla follia del movimento suicida di quel vecchio generale, gli si avvicinò, poggiando una mano sulla sua spalla, senza
ch'egli se n'accorgesse.

Un secondo di silenzio, poi le bombe tornarono ad esplodere. L'uomo alla sinistra, accidioso, mosse la mano in avanti,
afferrando il primo pedone utile allo scopo, e quasi annoiato fece l'unica mossa che renda utili i pedoni, nel gioco degli scacchi:
Lo mandò a farsi ammazzare. Izanami si avvicinò, spaurita dell'alfiere, pietosa del pedone mosso a morire. Pose la mano sulla
spalla del giocatore di scacchi. Una mano di speranza, ma anche una mano di paura.
Un'esplosione devastò un nuovo albero del parco adiacente. Foglie e segatura caddero sulla scacchiera, ma i giocatori non
sembrarono accorgersene.
D'improvviso, senza alcun riguardo, si alzarono dai loro posti, lasciando cadere quelle mani di speranza, coraggio e stupidità
come stracci usati e logori. Dopo un breve tragitto nel quale non si scambiarono che uno sguardo, si ritrovarono di nuovo faccia
a faccia, l'uno nello spazio dell'altro, i due generali, senza che alcun vuoto fosse lasciato a che la materia provvedesse ad uno
spostamento.

Stavolta l'uomo di destra si mosse per primo, piegando il pomposo alfiere alla propria volontà, in basso a sinistra, respingendo
l'esercito silenzioso ed obbediente lì da dove era giunto.

Stancamente, infine, protraendo il proprio penare oltre il sopportabile, l'uomo di sinistra prese quello stupido pedone e lo portò indietro,
senza che dalla scacchiera di marmo giungesse un solo gemito di lamento perché tutto della propria esistenza era stato violato.
Piegata, anche lei, da un sottile strato di velluto, cinica comodità che anche i più brutali orrori delle leggi rende non più che uno
stranissimo solletico.
Non aveva ancora abbandonato il pedone al destino che per esso era stato scelto, che dall'albero di fiori e di fuoco cadde un tronco,
proprio su quel bel campo di giochi di marmo, spezzandolo in due, e lasciando che i pezzi cadessero a terra con fragore, alcuni
spezzati dal ramo, altri dalla caduta, altri ancora da loro stessi simili.

Izanami e Susano'o fecero un salto indietro, improvvisamente ossessionati da quello che intorno a loro veniva estratto in fretta dal
mondo dei telegiornali per essere dipinto con i sensi della realtà. Inorriditi videro il giocatore che dei due era sopravvissuto al fuoco,
muovere quell'unica pedina rimasta avanti e indietro, dove una volta era la scacchiera. Decisero di portarlo altrove, lontano da quell'albero
assassino, ma prima ancora che si potessero muovere, una figura si avvicinò al giocatore, Tsukuyomi, Dio della Luna. Questi fu, però,
a sua volta anticipato.

Uomini di questo folle mondo si misero a correre in circolo attorno al vecchio cieco, legandolo con una corda, fino ad immobilizzarlo
completamente, pazzi di rabbia. Il mondo bruciava, così vollero che bruciasse anche quel vecchio politico che aveva fornito la fiamma,
decisione di coloro che erano i fiammiferi.
Tsukuyomi, ammutolito, rimase un secondo a fissare il pendolo prendere la rincorsa per un nuovo movimento scevro di qualsiasi
spostamento, contratto di fronte a quell'idolatria pagana agli dei della collera. Subito però i matti, all'unisono, si scagliarono contro i folli,
per spegnere quell'incendio e quello scempio. Provarono più volte, spinsero, colpirono, ma nulla, dacché ormai altri, prima pochi poi
molti, erano accorsi a vedere il fuoco ardere, costruendo un muro attorno alla vendetta giusta.

Quando pensarono che ormai non vi era nulla da fare, si allontanarono dalla luce del falò, scambiandosi sguardi e poche parole,
dato che anche parlare giungeva inutile di fronte al reale.

Impossibile” disse Izanami.

Probabile” disse Susano'o.

Tsukuyomi prese qualche secondo, per riflettere. Tant'è che gli altri due si girarono ad osservarlo. Li guardò a sua volta, sfidandoli a
ridere, se avessero osato.

Nostra responsabilità”, disse. Gli altri non risposero nulla, né risero, continuarono solo

ad osservarlo.

 

Quanto pensiero per un sistema immaginario, professore. Ha paura che se smettesse di ricordarsene tutto svanirebbe come
qualche miraggio nel deserto?”

Nulla si mantiene senza che qualcuno gli dedichi delle cure”.

Mantenersi o svanire. Ma è necessario esistere per tali lussi”. Amaterasu si svegliò dal proprio sonno per addormentarsi di nuovo
in quell'allucinazione troppo rumorosa per essere ignorata. Le fiamme che divoravano fameliche l'edificio avevano fatto scattare il
pur vecchio sistema antincendio. Amaterasu le aveva tentate tutte per uscire da quella gabbia, ma la porta era bloccata da chissà
quale prodotto della distruzione. Diede una ridicola spallata ricca di frustrazione ma scevra di risultati. Le finestre di fuoco rimanevano
impraticabili, se non per il fumo che generosamente lasciavano permeare nella cella. Amaterasu tentò la maniglia, ma naturalmente
il problema proveniva da altrove. Urlò aiuto, senza alcun effetto, chiusa tra il crepitare rabbioso delle fiamme e la pioggia artificiale del
corridoio, lì a lavare via le allucinazioni oniriche di civiltà pregresse e progredite, lasciando solo qualche matto urlante in fuga dal
progresso cadente dal cielo. Ambulanze, come un refrain musicale, navigavano nella nebbia degli incubi diurni di quella giornata
claustrofobica. Ancora colpi alla porta, mentre Amaterasu implorava di vivere. Un secondo di silenzio del mondo, poi alcuni colpi,
vita apparsa nella foschia, un tonfo e la porta che si apriva. Un uomo si affacciò, urlando di scappare, poi scomparve dalla vista, solo
il tempo che troppa anima si rivelasse tra lo spavento di quegli occhi per giungere ai suoi. Amaterasu si sporse fuori dalla porta.
L'uomo, con una paura folle, correva per quel corridoio infinito, fuggendo attraverso ogni stanza alla ricerca di esseri umani sopravvissuti all'umanità.

Mamma, posso continuare a giocare? Voglio nuotare ancora un po'. Per favore!”

Non sei stanco?” Ricordò Amaterasu.
“Aspetta” disse “vengo ad aiutarti”. Si avvicinò di corsa all'uomo, che si era fermato a sbloccare la porta bloccata di una delle stanze
che si affacciavano nel tratto di corridoio crollato per via del bombardamento intelligente e mirato. In quel momento l'uomo, con le
mani tremanti e il fiato mozzo, stava spostando le macerie della civiltà che impedivano alla porta di aprirsi. Amaterasu lo aggirò,
avvicinandosi alla frana dell'edificio, spingendo i ruderi giù dal costone costruito dal soffitto crollato. Ci misero alcuni minuti a liberare
il passaggio. Aprirono la porta ed entrarono nella stanza, dove alcuni semiasfissiati esseri umani giacevano sul pavimento. L'uomo
si avvicinò al primo su cui si posò la sua anima, tossendo come ad espellere quel peso doloroso. Poi cadde sulle ginocchia, tossendo
ancora più forte. Amaterasu gli si avvicinò di slancio.

Fermati un momento, ci penso io, devi essere stanco, tira il fiato”.

L'uomo si alzò con fatica e tremore. “Mi riposerò solo quando sarò morto”.

Amaterasu lo guardò allibita afferrare un corpo forse già morto e trascinarlo con la propria anima fuori dall'inferno. Lei si affrettò a
prendere con sé l'altro essere umano che boccheggiava in procinto di spegnersi, semi-nascosto da una nube di fumo nero che ormai
saturava la stanza.

Uscì fuori dalla stanza, seguendo l'uomo che tornava indietro, verso la cella di Amaterasu, superandola con un unico intento negli occhi.
Due corpi stavano appoggiati, un po' sulla porta della sua stanza, un po' sul muro subito seguente, l'uno sulla testa dell'altro, come a
confortarsi. Chissà cosa doveva aver pensato a spostare quelle vittime carbonizzate per salvare una vita.

Passarono di fronte a tante porte viventi, urlanti e piangenti, trascinando quelle salme esanimi, fino a vedere la flebile luce del giorno
offuscato dal metallo.

Finalmente gettarono a terra quegli occhi socchiusi, quelle mani in preghiera, quelle voci soffocate, cadendo essi stessi sull'erba alta, il
cuore che batteva con furia, la mente che bruciava sensazioni con ritmo forsennato.
Dieci secondi, poi vide l'uomo fuggire di nuovo giù fino al fondo del lago dell'Averno, sghembo nocchiere della salvezza, con il volto, le
mani bruciate e l'anima in fiamme.

 

Giungeva la sera, in quella feroce bizzarria. Tra l'ossessivo ritmo delle bombe ancora in attesa di cadere, Amaterasu vide una donna
nelle tenebre di fuliggine. Correva, mentre la linea rossa si avvicinava, lasciando orbitare attorno a sé molte specie indistinte, figli indecifrabili
dell'evento in atto. Correva, tra uomini-soldato e soldati-sciacallo, tra sciacalli civili e civili-soldato. Tanti (il)legittimi combattenti resi
impensabili dagli eventi che avevano deciso di irrompere in tanta tranquilla bontà. In tutto questo, quella donna apparve come una santa arpia,
gli occhi rossi e la pelle annerita da quella goccia di follia che aveva devastato tanta immeritata perfezione.

Senza degnare di un secondo quel residuo di umanità che giaceva ad appena un passo dalla follia, la donna passò accanto a qualcosa
che attrasse subito i suoi occhi arrossati. Tra i tanti indefiniti della folla, un uomo attendeva qualche gesto di umana speranza, con un
miracolo nello sguardo, mentre vedeva una sfocata chiazza di luce molto somigliante alla propria moglie. La donna con un urlo strozzato
si girò su sé stessa con una qualche magica ed inumana agilità, alla scintilla del miracolo in quegli occhi. Si avvicinò di scatto al marito,
tendendo una mano, poi l'altra, riconoscendo le sensazioni prima ancora che i sensi. Subito dopo, l'ennesimo boato alle sue spalle.
Si volse alla ricerca di chissà quale minaccia, e subito un miracolo nei suoi occhi, mentre osservava quell'entrata per la follia, sotto i colpi
della follia cadere, proprio lì dove l'altra donna, quella che non aveva gettato un pur minimo sguardo di pietà, moriva sotto i colpi degli uomini.
Sperimentato quell'immeritato miracolo, Amaterasu vide quegli esseri umani guardarsi un momento, poi ridere, per un secondo appena.
Le ferite facevano, forse, meno male, perché l'uomo, con l'aiuto della moglie, riuscì a mettersi a sedere. Si guardò intorno confuso.

Diceva mia moglie: Non andare a fare il poliziotto, è troppo pericoloso. Fai il guardiano in una clinica!”

Non fare storie, dobbiamo andare”, rispose la donna, preoccupata, ma anche sollevata che stesse bene.

Ancora cinque minuti, tanto non devo andare al lavoro” rispose l'uomo.

La donna sbuffò, poi si rabbuiò improvvisamente, riprecipitando in quella buia realtà.
“Davvero, dobbiamo andare, subito.” L'uomo la guardò, stupito, difficile comprendere da cosa, poi fece un cenno di assenso. In quel momento
Amaterasu, riprendendosi anch'essa da quel torpore che per un attimo aveva sostituito il freddo, si avvicinò ai due. Col suo aiuto riuscirono
a rimettere in piedi l'uomo, che la ringraziò con frettolosa umanità, ripartendo per il mondo assieme alla moglie, zoppicando nella nebbia.

Dipinta a tinte contrastanti, la notte stellata attendeva che la neve d'acciaio smettesse di cadere, ma il sole permaneva, ed assieme ad esso
Amaterasu, medicando le ferite di quegli esseri umani come poteva, fino alla nausea, fino allo sfinimento. Fino all'odio.

Ogni tanto qualcuno si fermava ad aiutare, ma erano pochi istanti, pochi minuti, troppi pochi, perché le anime non si intrecciassero abbastanza
a fondo, perché non facesse male. Una donna lasciò delle bende, giungeva da uno di quegli strani ospedali per gente sana, quelli di cui
avevano parlato ad Amaterasu, dove si tenta di cancellare ogni segno del tempo vissuto, un concetto che le sembrava perlomeno bizzarro, se
non offensivo. Avrebbe certo provato per quella donna una discreta dose di antipatia, un giustissimo preconcetto, se non le avesse lasciato
praticamente ogni cosa che aveva, se non fosse stata con alcuni di quegli esseri viventi fino all'ultimo battito e respiro. Decisamente necessitava
di qualche ora di stand-by per rielaborare quella mole di informazioni.

Era la notte di natale. E nevicava cenere.

 

L'ira funesta urlava un quella notte di sventura, e Amaterasu perdeva colpi, come il fucile di un naufrago, inceppato dal mare salato. Nella tempesta,
tra gli strattoni malsani di un vento ubriaco e violento, i colpi degli uomini scomparivano in una qualche rapsodica opera tarda. D'improvviso, però,
come l'ossessiva entrata di un solista che non sa più di quale morte morire, una schiera di carri armati lacerò il velo onirico di quella giornata per
impossessarsi di un qualche anonimo brandello di strada, in vena di conquiste nazionali, tanto per farsi ammazzare per un qualche motivo.

Paura del buio, e di una nuova brillante specie. L'arte di esplodere in mille pezzi. Dimostrare la propria esistenza raccogliendo i cocci, o quel che ne rimane.
Si fece il segno della croce, come a digrignare i denti in segno di sfida, mentre il clangore avanzava conglobando in quella cinica attesa il grido del
non umano. Vi fondeva la lunga marcia di enti svuotati lungo la strada, tutti, ad uno ad uno, perfettibili dentro la meta.

Cannoni come un ritmo di tamburi, calavano i loro colpi in direzione della clinica. Era il momento di abbandonare il campo di battaglia, lasciarlo agli
uomini-macchina che dell'Arte avevano fatto dialettica, conflitto, e progressivamente Guerra. L'umanità non era più, in quegli aridi campi, cosa degli uomini.
“Uomo nomotetico, non ti hai che la battaglia, per sentire il sangue nelle vene”.

Detto questo, Amaterasu si nascose dietro ad un muro, appoggiandosi alla certezza di un solido costrutto, a contatto, mentre l'ignoto avanzava
gridando al sacrificio, passando sopra quei morti che essa aveva accompagnato alla luce, poi sulla clinica dei folli, stringendo nel guanto d'acciaio
e di seta quell'anomalia contagiosa e distruttrice fino a farne polvere.

 

Nulla era stato risparmiato, di quell'Europa colpita al cuore, a quel gigante cadente, quello spaventoso Frankenstein accoltellato come Cesare
davanti al Senato. Una guerra era scoppiata, per gioco e distruzione, per strani debito contratti e collusioni.
“Ma verrà il giorno, e...” disse Amaterasu, o almeno, avrebbe detto, Amaterasu, se solo un fantasma in quella nebbia della confusione non si fosse
precipitato, in fuga, spiaccicandosi addosso al muro. Seguiva, a breve distanza, Izanami, decisamente più serafica, quasi che l'immensità dell'attimo
giungesse a lei, come le onde del mare, infrangendosi contro il pensiero e modulandolo con lentezza e affanno, troppa era la potenza dei ricordi.

Con un crescente bernoccolo sulla testa, Susano'o si rimise in piedi, contando sull'efficace sostegno di Tsukuyomi, che, dopo un attimo di distrazione,
si avvicinò frettolosamente all'amico, tirandolo su con tanta forza da lasciargli l'impronta di una nuova testata sulla fronte. Mentre Susano'o mugugnava
un debole “ahi” di consolazione, Amaterasu assisteva esterrefatta a quella strana cosa che, nel bel mezzo di un conflitto, apriva squarci di normale
follia, nel bel mezzo di quella follia delle norme.

Ehm, salve” disse, più o meno barcollando, Susano'o.

Non siamo ad una convention, se non te ne fossi accorto” lo interruppe, con uno sguardo di rimprovero, Izanami, comparsa all'improvviso.

Strano, la simpatia e la stima reciproche mi sembravano le stesso” rispose, sarcastico, gettando uno sguardo verso la carica che avanzava nelle strade.
 

In quell'attimo, nella crepa tra il comunicare e il silenzio, Tsukuyomi avvertì qualche cosa, nelle astratte forme delle caotiche prospettive. Si voltò,
avvertendo l'uggioso lamento di una tempesta imminente, i flutti, tormentati, si preparavano a scontrarsi, come nei secoli, contro ripide scogliere.
Avanzavano, dall'altro lato di un campo neanche sgomberato da civili, le truppe di un nuovo diniego. Difficile comprendere, ancora prima che dire, chi
li avesse mandati a farsi massacrare di nuovo. Tsukuyomi mise una mano sulla spalla di Susano'o, l'altra su quella di Izanami, facendo cenno alla
nuova compagnia, interiorizzando, per quanto possibile, la pura associazione della massa in cammino, come imago mortis, perché non facesse così male.

Non staranno a guardare chi siamo”.
Prese un'impercettibile pausa, chiudendo gli occhi appena:

Dobbiamo andare via. Lontano, il più possibile”.

All'atavica ferocia rispondeva, l'uomo, con l'ingegno primordiale di chi ha da inventare, nulla più che oggetti contundenti, e solo per accidente scopre con
noia l'uso civile ed il progresso.

Al rallentatore quella carneficina si consumava, fatale, sotto gli occhi della follia madre, mentre i civili si dileguavano dal palco di un immemore
ombattimento, alla chiusura dell'ennesimo atto, che alla caducità del tempo accompagnava la caduta di uomini consumati nella loro materia organica,
scavati, come a cercare la metastasi invasiva di un oggetto estraneo. Si ammazzarono ancora per qualche minuto, il tempo per odiarsi un po' di più.
Osservavano, inermi e incapaci, i portatori sani di follia, fuggendo ogni volta in un angolo più remoto, più buio. Prima nel bel mezzo della piazza che,
come un oceano di rabbia, scherniva la clinica, l'isola di uno scheletrico e insignificante paese. Poi per le strade, inciampando nei corpi, nelle lacrime,
nelle invocazioni alla madre, in tutte le lingue la stessa, nel desiderio di tornare a casa.

Come stesso era il sangue, sparso e perduto, di quell'uomo che videro cadere, perché dalla paura che vide negli occhi di un nemico, non riuscì ad
abbatterlo come se non fosse che un insieme di carne e di ossa. Quando, con gesto desolato, l'altro lo accoltellò, sotto il tacito ammonimento dei fratelli
delle seconde linee, anch'esso si ritrovò ammazzato dalle vorticose dinamiche dell'ira. Così giacevano, nella polvere, i fratelli, con uno strano sorriso. E
il destino aveva voluto che le mani dei nemici si sfiorassero nel gesto della creazione divina, come a domandare se si trattasse di due fratelli ritrovati, e non di due nemici.

Una ragazzina stava, oggetto estraneo, in mezzo a tale ferocia. Su quale costrutto avrebbe edificato la propria realtà, sussurrava, dall'inerme sicurezza
di un angolo dimenticato, Amaterasu. Izanami la guardò:

Castelli di rabbia, erosi dalle tempeste, vuoti all'interno. Pace, perché altrove sia guerra. Guerra, perché altrimenti, non sapremmo più chi siamo, né cosa fare.”

Né chi ammazzare”, concluse Tsukuyomi.

La ragazzina si guardò attorno gridando, muta, di rabbia. Il cuore ostruito dall'odio, alla ricerca del silenzio, anche quando esso non è che malinconica sordità.

Ed ecco il caos tornare a reclamare la sua parte. Dove l'innocenza è perduta, sfilacciata. Erosa dallo sfregare del legno, purché sia la fiamma di un fuoco.
Pur di spegnere le tenebre”. Susano'o.

 

 

Altrove, in un diverso tempo e spazio, il sole splendeva, sotto una terribile afa e su di un campo sconfinato, una donna ed un uomo camminavano, transitori,
tra le nebbie dell'Estate Costituente. Lontano, troppo lontano giaceva spezzata la moneta dei loro sogni infranti, e come eroi in giacca e cravatta, due esseri
umani si erano spinti fino a Villa Borghese, fedeli alla loro essenza vivente, sfuggendo all'afa delle stanze in cui, assieme a molti altri esseri umani, si discuteva
per sfuggire alla Grande Paura che aveva stretto in una morsa il loro piccolo mondo. Un piccolo mondo che rischiava di implodere, polmone di un immenso
ente immortale, collassato e incapace di riprendere a respirare. Nato per morire, come un mostro senza amore. Erano tutti nelle piazze, quell'estate. Vigeva il
silenzio, l'attesa riempiva il mondo con la sua trepidazione. Villa Borghese si ergeva, dai secoli, isola in mezzo agli spettri sull'orlo di una rivelazione esogena.

Il tempo divorato affondava il proprio colpo, e quella villa si svolgeva divenendo una eternità, mentre dagli spazi aperti le due anime vaganti si intrecciavano,
scendendo fino a ritrovare l'anima pulsante di quell'attesa, fino al ritorno di quella civiltà di paura.
 

L'atmosfera si macchiò di nero, mentre alcune follie venivano gridate, storie di trattative interrotte, di negoziati andati male, alcuni citavano un grande giornalista
di un grande giornale il quale citava una strana voce giunta di sottecchi da dove i potentati avevano perso la ragione. Qualcuno, non si capiva bene chi, né
precisamente perché, aveva dichiarato guerra. E alle guerre si risponde, si diceva. E quindi quella grande paura era diventata terrore, e poi rabbia, previa un rancore
mai compreso ed elaborato, e i sentimenti di nazionalismo, improvvisamente, presero fuoco.

Il giorno della redenzione era arrivato, per alcuni. Per altri era solo panico. Per altri ancora l'ennesima riprova che da tutto si possono ricavare soldi. Un piccolo
gruppo si staccò dal fiume di confusione che sgorgava dalle piazze, intrattenendosi per qualche ora (minuti, in verità), a cancellare l'anima che di fronte si erano
trovati, uccidendola, e infine gettandola su di un basso muretto, per caso, per volontà o per sfortuna. Spegnendo una luce, cosi ché per alcune ore, le tenebre
fossero complete.
 

Izanami dilatò i polmoni, gli occhi spalancati nel buio, lasciando che la luce penetrasse, il tempo tornare a scorrere, il ricordo a sciogliersi fino a divenire caos.
Qui brucia anche l'ossigeno, materia infiammabile di un atavico mal de vivre.

   
 
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