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Autore: margheritanikolaevna    16/06/2012    4 recensioni
In questa fic - scritta per il contest "Spargilacrime", indetto da Veronic90 ma giudicato da superkiki92 - vi sono, come dice il titolo, amore e morte. Immensa gioia e immenso dolore, che la vita talvolta sa mescolare in una maniera che agli uomini pare incredibile, come dettata dal più folle dei casi. E che, invece, potrebbe rivelare l'esistenza di qualcosa di più grande di tutti noi...
Il racconto si è classificato al secondo posto e si è aggiudicato il "Premio stile".
La fic ha partecipato anche al contest "Cuori Infranti" indetto da yuma92 su efp e si è classificata al secondo posto, vincendo il premio "Lacrima" per la storia più triste.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emily Prentiss
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo secondo
 
SEI MESI DOPO
 
“La luce crede di viaggiare più veloce di ogni altra cosa, ma si sbaglia. Per quanto veloce viaggi, la luce scopre che l’oscurità arriva sempre per prima ed è lì che l’aspetta” (Terry Pratchett) (2)
 
Aaron Hotchner, con uno dei gesti misurati che gli erano propri, posò tre fotografie ben in vista sul piano di plastica lucida esattamente davanti all’uomo che era seduto, i polsi stretti dalle manette, dall’altra parte del tavolo.
Circa quarant’anni, né alto né basso, qualche capello bianco, nessun segno particolare, un volto assolutamente comune: una persona facile da dimenticare o da non notare nemmeno.
Peccato che con ogni probabilità quell’uomo comune fosse anche l’assassino delle tre giovani donne raffigurate nelle fotografie che il poliziotto gli aveva appena mostrato: ragazze che non si conoscevano tra di loro e che non avevano nulla in comune tranne l’età, scomparse tutte da piccoli borghi del Montana nell’arco di un paio di mesi, otto anni prima, senza lasciare traccia, senza un messaggio di addio alle famiglie né alcuna spiegazione plausibile che lasciasse credere a un allontanamento volontario. Casi archiviati perché non era stata trovata nessuna prova che rivelasse se erano ancora vive o, invece, morte.
Questo finché un gruppo di escursionisti, durante una passeggiata in un bosco, non aveva visto qualcosa di insolito sporgere dal terreno dilavato dalle piogge, quell’inverno particolarmente abbondanti.
Le ossa rinvenute appartenevano a tre scheletri completi, la conformazione del bacino aveva chiarito che trattavasi di individui di sesso femminile e la struttura delle articolazioni rivelava che, al momento della morte, tutte e tre le vittime non avevano più di venti anni. I poveri resti erano sepolti assieme in un’unica buca poco profonda, scavata accanto al capanno che l’uomo occupava durante le sue occasionali battute di pesca.
Risalire a lui non era stato difficile, ma ora restava da capire come quel tipo si sarebbe mosso e se sarebbero riusciti a cavargli qualcosa di bocca; e qui entrava in gioco l’abilità dell’ex pubblico ministero Hotchner a condurre gli interrogatori.
“Allora, signor Irving…”  esordì il federale con voce atona, sedendosi senza alcuna tensione apparente proprio di fronte all’uomo che, invece, lo fissava con un’espressione carica di nervosismo. Toccò con l’indice l’immagine di uno di quei tre volti ignari e sorridenti come erano stati in vita e riprese, senza distogliere lo sguardo da quello dell’altro.
“ Guardi queste…”.
Non completò la frase perché all’improvviso la luce si spense davanti ai suoi occhi per una frazione di secondo. Buio. Buio totale.
Aaron Hotchner sbatté le palpebre incredulo e boccheggiò in cerca di ossigeno. Cercò di riprendersi ma non ci fu niente da fare: era completamente bloccato, le parole non gli uscivano.
Il tutto non durò che pochi - eppure interminabili - secondi alla fine dei quali l’investigatore, col respiro spezzato, si alzò di soprassalto evitando di incrociare lo sguardo sbalordito del sospettato e uscì precipitosamente dalla stanza.
Non riusciva a ragionare lucidamente, sentiva solo il bisogno di restare da solo per qualche minuto e tranquillizzarsi. E tentare di capire cosa gli stesse accadendo tutt’a un tratto.
Percorse quasi di corsa il corridoio che lo separava dal bagno degli uomini. Poche decine di metri lungo i quali incontrò David Rossi che, immaginandolo intento a torchiare il signor Irving, gli rivolse un’occhiata interrogativa e aprì la bocca per dirgli qualcosa; il gesto frettoloso con cui il collega lo bloccò, continuando il suo percorso senza fermarsi neppure un istante per parlare con lui, convinse l’ex scrittore che c’era qualcosa che non andava.
Chino con i gomiti, lasciati scoperti dalle maniche della camicia arrotolate, appoggiati sul lavandino, Aaron Hotchner aprì il rubinetto e si frizionò energicamente il viso con l’acqua fredda; il contatto con il liquido gelato lo riportò sulla terra, schiarendogli all’istante il cervello.
Respirò profondamente senza tuttavia riuscire a calmare i battiti accelerati del cuore. Una domanda angosciante gli attraversò la mente: cosa gli era successo pochi minuti prima?
 
***
 
Emily Prentiss era seduta alla sua postazione e sfogliava senza troppo entusiasmo i documenti contenuti in una delle tante cartelline gialle che giacevano impilate sulla scrivania, accanto alla tazza di caffè ormai gelato che quel giorno aveva costituito il suo unico pranzo.
Davanti ai suoi occhi scorrevano le pagine di un’autopsia: non era certo la prima che leggeva e anzi - con il tipo di lavoro che si era scelta e con tutto ciò che aveva visto durante gli anni che aveva trascorso alla BAU - l’ultima cosa che si sarebbe aspettata di provare facendolo fu l’improvviso e violentissimo attacco di nausea che l’assalì, facendola piegare in due e riempiendole la bocca di saliva.
Si alzò in piedi di scatto, ma immediatamente comprese che non era stata una buona idea: vacillò, migliaia di lucine colorate le offuscarono la vita e forse sarebbe caduta a terra se JJ, che era nella stessa stanza, non fosse subito corsa accanto a lei e non l’avesse sorretta, facendola poi sedere di nuovo.
 
***
 
“Non è necessario, JJ, ti prego, andiamocene” disse Emily all’amica “Tra l’altro mi sento molto meglio! Sarà stata solo un’ipoglicemia, dato che oggi ho saltato il pranzo”.
L’altra scosse la testa e le sorrise; le due donne erano sedute, l’una accanto all’altra, nella sala d’attesa dello studio della ginecologa che aveva seguito l’agente Jareau mentre era in attesa di Henry. La camera non era molto vasta, ma era piena di luce e dalle grandi fotografie appese alle pareti tinteggiate di un vivace giallo ranuncolo faceva capolino almeno una decina di bellissimi neonati: maschi e femmine, bianchi, di colore, asiatici, ma tutti ugualmente incantevoli.
“Quando io ho avuto giramenti di testa e nausea ho fatto il test …” rispose JJ con intenzione.
“Ma non è possibile!” ribatté l’altra, le mani giunte in grembo e l’espressione perplessa.
Questa volta la bionda rise di gusto.
“Come sarebbe a dire che non è possibile? Sei tornata da pochi mesi dal tuo viaggio di nozze e non credo che Hotch sarebbe contento di sentirti dire una cosa del genere!” esclamò di rimando.
Emily abbozzò un sorrisetto e distolse lo sguardo.
“No, cioè ” rispose, esitante e un tantino imbarazzata “è possibile tecnicamente, ma … e poi questo mese ho avuto il ciclo” concluse.
“Beh, magari erano solo delle perdite” fece l’altra, stringendosi nelle spalle “e comunque tra non molto lo sapremo!”.
***
“Signor Hotchner, sono il dottor Bancroft e questo è il radiologo, il dottor Reiting”.
Il neurologo, un signore sulla sessantina con una gran massa di capelli bianchi e un sorriso aperto, strinse la mano al nuovo paziente che era appena entrato nel suo studio e allo stesso tempo indicò con un cenno del capo il collega, di qualche anno più giovane e con una strana voglia violacea che gli copriva il lato destro del viso, che era accanto a lui.
Dopo che si furono seduti tutti e tre il dottor Bancroft iniziò a parlare.
“Oltre a ciò che mi ha raccontato a telefono, ha avuto qualche altro sintomo di recente? Disturbi alla vista, emicrania?” chiese.
Hotch ci pensò un istante e poi rispose: “Niente di rilevante, qualche dolore articolare perché mi sto allenando intensamente per una gara di triathlon e un po’ di mal di testa … alcuni anni fa sono rimasto coinvolto in un’esplosione e da allora mi capita, a volte”.
“È sotto stress in questo periodo?” domandò ancora il medico.
L’altro accennò un lievissimo sorriso che era quasi una smorfia pensando che, se quel dottore dall’aria bonaria avesse saputo che lavoro faceva, senza dubbio non gli sarebbe mai venuto in mente di fargli una domanda del genere. La sua risposta, che suonò più secca di quanto non fosse nelle sue intenzioni, fu solo: “E chi di noi non lo è?”.
“Va bene” concluse l’altro alzandosi in piedi, seguito subito dagli altri due uomini.
“Da quello che mi ha detto, potrebbe trattarsi di un’emicrania atipica o di cerebrite” aggiunse guardando il collega: “Ma comunque facciamo una TAC per essere sicuri”.
 
***
“Ecco fatto, signora Prentiss!” disse la dottoressa Angela Di Maio sciogliendo il laccio emostatico dal braccio di Emily e poi riversando il sangue che le aveva appena prelevato dalla siringa in una boccetta col tappo bianco.
“Nel giro di qualche giorno avremo i risultati anche se, sulla base di ciò che mi ha appena raccontato, è estremamente probabile che lei sia incinta”.
“Dottoressa…” esclamò la poliziotta, sistemandosi la manica della camicia che aveva tirato su pochi minuti prima; fece per dire qualcosa, ma poi si fermò.
L’altra percepì la sua esitazione e le chiese se per caso avesse qualche altra domanda da rivolgerle.
“Ecco” disse Emily dopo un attimo di silenzio durante il quale cercò lo sguardo di JJ come per ottenerne sostegno nel rievocare gli attimi dolorosi del suo scontro con Ian Doyle “Non molto tempo fa ho subito un’aggressione, sono stata ferita gravemente all’addome e allora i medici mi dissero che questo poteva forse rendere più difficile un’eventuale gravidanza…”.
La donna sorrise dolcemente e le mise una mano sulla spalla.
“Non è tanto infrequente che uno di noi sbagli!” replicò in tono gioviale “Comunque se si stende sul lettino, signora Prentiss, adesso facciamo un’ecografia, così saprà immediatamente…”
 
***
 
Disteso perfettamente immobile all’interno dell’apparecchio per la TAC, Aaron Hotchner tentava di mantenere la calma, sforzandosi di ignorare quanto quell’angusto abitacolo somigliasse già a una tomba; trasse un respiro profondo e s’impose di razionalizzare la paura. In fondo, le possibilità che fosse qualcosa di veramente grave erano pochissime: era un uomo ancora giovane, sano, aveva praticato sport con regolarità… certo, suo padre era morto di cancro, ma la malattia aveva aggredito i polmoni e comunque non era dimostrata l’incidenza della familiarità nei tumori al cervello. Deglutì a vuoto. Gli doleva un po’ la testa e si sentiva vagamente nauseato.
In quel momento - pensò, rasserenandosi appena - gli avrebbe fatto comodo avere intorno Reid con la sua sconfinata cultura enciclopedica: certamente il ragazzo sarebbe, infatti, riuscito a citare qualche dato statistico sulla percentuale di sviluppo del cancro in soggetti di sesso maschile e di età inferiore ai cinquant’anni e quelle nude cifre, magari, avrebbero finito col calmarlo. O almeno lo avrebbero distratto per il tempo necessario a concludere quella tortura.
 
***
Un’ecografia transvaginale non è mai un’esperienza particolarmente piacevole e lo è ancor meno se, come nel caso di Emily Prentiss, la si associa a ricordi dolorosi provenienti da un passato lontano ma mai dimenticato.
Stesa sul lettino, gli occhi strettamente serrati, le gambe sui sostegni, il manipolo freddo come il ghiaccio che entrava dentro di lei provocandole un senso di leggero fastidio, l’agente attese con ansia che sullo schermo alle spalle della ginecologa comparissero le prime immagini. Ma più veloce di esse  - e infinitamente più rivelatore - fu il suono che subito riempì la stanza: era un tamburellare ritmico, rapidissimo, quasi precipitoso.
Prima che la dottoressa parlasse Emily aveva già capito e l’emozione l’aveva travolta: un piccolo cuore nuovo di zecca pulsava dentro di lei, una nuova vita fioriva nel suo ventre!
Lacrime di felicità le offuscarono la vista: come era possibile - pensò confusamente - che lo stesso identico evento che venti anni prima le era apparso un incidente di percorso, solo uno sfortunato accidente da risolvere al più presto, adesso invece riuscisse a colmarle il cuore di una gioia tanto intensa che doveva faticare per non mettersi a ridere come un’isterica?
Certo all’epoca aveva quindici anni, era una ragazzina sola e confusa, sperduta in un paese straniero…ora al contrario aveva sposato l’uomo che amava e quel bambino era esattamente ciò che mancava per rendere la loro vita perfetta.
Perfetta.
Era stato Declan a farle scoprire di possedere un istinto materno, ma quella era stata una cosa completamente diversa… con lui, col figlio di Ian, chi poteva dire dove finiva la compassione per una creatura sfortunata e dove cominciava l’affetto?
No, stavolta sarebbe stato tutto differente. Meravigliosamente differente.
Non era mai stata una persona religiosa e anzi, dopo ciò che era accaduto a Matthew, il suo disinteresse per la fede si era addirittura trasformato in astio nei confronti di coloro che la rappresentavano; eppure, nonostante ciò, in quell’istante Emily Prentiss rivolse un pensiero di gratitudine a Dio per averle concesso quella seconda opportunità, per averla evidentemente perdonata più di quanto non fosse riuscita a fare lei stessa.
 
***
Il dottor Bancroft non aveva paura di parlare con i malati terminali; apprensione era la parola più adatta. Prima doveva respirare profondamente e poi cercare di essere “aperto”, di sentire le vibrazioni nella stanza e di rispettare i tempi dei pazienti. Dire la verità, senza creare false aspettative, ma allo stesso tempo tenendo pur sempre viva almeno una speranza: c’erano pazienti dominati dalla paura di sapere e altri che invece avevano bisogno di ascoltare un parere assolutamente sincero.
Però, come aveva sperimentato nei suoi lunghi anni di carriera, la maggior parte delle persone non muore pacificamente: vi è un'angoscia tremenda che non c'entra niente con la malattia, ma è la pura paura della morte, dell'ignoto, della fine. E, lo sapeva, in questo non fa differenza l’essere credente oppure no.
Ora guardava l’uomo seduto di fronte a lui e pensava a come dirgli che stava per morire.
“Qual è il verdetto?” chiese Aaron Hotchner.
Al dottor Bancroft era sembrato un uomo estremamente razionale, controllato, persino freddo, eppure in quel momento non era riuscito a nascondere del tutto il tremito che gli incrinava la voce.
Il medico guardò ancora una volta le lastre, come sperando che il loro contenuto potesse magicamente cambiare tutt’a un tratto.
Poi rispose: “Purtroppo c’è una massa di circa quattro centimetri e mezzo nel lobo temporale e la TAC ha rivelato anche un’altra formazione, più piccola, nel lobo frontale”.
L’altro non disse nulla e non aprì nemmeno la bocca per parlare, come inebetito dal colpo appena ricevuto.
Il medico riempì il silenzio di ghiaccio che era calato nella stanza.
“Occorrono chiaramente altri esami ma, in base alla risoluzione delle immagini e tenuto conto della forma e della dimensione delle masse, io e il dottor Reiting riteniamo possa trattarsi di un glioblastoma multiforme”.
“Masse”… “glioblastoma” queste parole turbinavano confusamente nella mente sconvolta di Aaron Hotchner.
Concatenazioni di lettere vuote, prive di significato…
Se non fosse che ciò che quelle parole descrivevano l’avrebbe ucciso. Perché di questo era certo, l’aveva visto con chiarezza negli occhi del medico mentre gli stava parlando: era troppo abituato a leggere nell’animo di chi aveva davanti, tanto che si trattasse di un pericoloso S.I. quanto di un medico dall’aria gentile.
Strinse convulsamente le mani intorno ai braccioli della sedia e deglutì, serrando le mascelle.
“Quanto è grave?” domandò tuttavia, spinto dalla speranza di essersi sbagliato.
L’altro represse un sospiro e distolse lo sguardo.
“Le consiglio di sentire anche un altro parere, domani sarà in studio un collega oncologo e potremo chiedere a lui un consulto…”.
“No” pensò Hotch, scattando all’improvviso in piedi “Non voglio essere ingannato. Devo sapere la verità!”.
“Qual è la prognosi?” insisté, le mani strette a pugno, la bocca contratta in una smorfia di dolore.
Il medico attese un istante prima di rispondere e quando lo fece scelse le parole una a una, con estrema attenzione: “La speranza di vita media è di tre-sei mesi. Del 10% dopo un anno”.

  
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