Johnlock.
Angst/pre-slash, ispirata a questo bellissimo post di Dramatis Echo su Tumblr.
TEA MUG
"John, tesoro,
dov'è la tua tazza da tè?" chiese
Mary mentre finiva di sistemare le sue cose in cucina.
"Non ce l'ho." rispose John, impegnato in una
battaglia impari con il decoder da programmare, che stava vincendo su
tutti i
fronti.
"Dài, non ti credo! Non esiste inglese che non abbia
una di queste." e gli mostrò la sua, gialla e decorata con
tante
coccinelle, sbreccata sul manico e sul bordo. "Ce l'ho da quando avevo
cinque anni - spiegò - è come se fosse una parte
di me."
John evitò lo sguardo della sua fidanzata (moglie tra una
settimana) in preda ai sensi di colpa, perché lui aveva una
tazza da tè, ma non
si trovava lì, nella loro casa nuova; era ancora al 221B di
Baker Street.
Mary aveva portato tutta la sua vita con sé, John no: aveva
finto fin troppo a lungo di aver dimenticato quell'oggetto, quando in
realtà
sapeva benissimo che si trattava dell'ultimo cordone ombelicale che lo
teneva
legato al suo vecchio appartamento e alla sua vita con Sherlock.
E forse era giunto il momento di reciderlo una volta per
tutte.
Prese il cellulare ed uscì sul balcone.
"Hello?" rispose la voce allegra della sua ex
padrona di casa.
"Buongiorno, Mrs. Hudson, sono John... sì, sì,
sto
bene... lo so, è parecchio che non passo, ma fra il trasloco
ed il matrimonio
non ho avuto un attimo di respiro. Comunque ci sono ancora alcune cose
mie che
ho lasciato lì e se lei fosse così gentile da
prenderle e farmele trovare
all'ingresso, passerei più tardi."
"John, caro, lo farei più che volentieri, ma in questi
giorni l'anca non mi dà tregua, non ce la faccio proprio a
salire le scale fino
da Sherlock."
"Oh, mi spiace molto. Allora verrò io e ne
approfitterò per dare un'occhiata alla sua gamba."
"Grazie John, sei sempre così caro."
Mezz'ora dopo
John era fermo davanti al familiare portone
verde scuro: non metteva più piede lì da un mese,
precisamente dal giorno in
cui aveva comunicato a Sherlock la decisione di sposarsi con Mary,
chiedendogli di
essere il suo testimone. Mai avrebbe
pensato che il suo amico potesse reagire a quel modo.
"Dunque
è questo
che vuoi, John? E' questa la tua massima aspirazione? - aveva urlato
con
disprezzo - Una mogliettina tutta casa e chiesa, tendine a fiori alle
finestre,
la cena pronta quando torni a casa la sera. Perché non anche
un cane che ti
porta le pantofole ed il giornale? Completerebbe il quadretto. Che
squallore!"
"Ma che diavolo
ti prende? Ne parli come se fosse una cosa abominevole."
"Lo è! E' talmente
banale ed ordinario da darmi il voltastomaco. E quella donna, poi..."
Era seguita
una sequela di poco lusinghiere e velenose
deduzioni sul conto di Mary e la sua famiglia, interrotte da un gancio
sinistro
assestatogli da John.
Quella era l'ultima volta che lo aveva rivisto, era uscito
di casa come una furia e aveva passato la notte da Mary.
La volta successiva si era accertato con Mrs. Hudson che
lui non fosse in casa prima di andare ad inscatolare le sue cose e
disdire il
suo affitto.
Forse, inconsciamente, aveva dimenticato lì quel piccolo
dettaglio nella speranza di avere l'occasione di incontrare Sherlock
un'ultima
volta e chiarirsi con lui.
E magari chiedergli scusa.
Perché Mary aveva messo davvero tendine fiorite alle
finestre ed alcune delle deduzioni di Sherlock probabilmente non erano
troppo
lontane dalla verità.
Solo che, al punto in cui si trovava tornare indietro era
impensabile.
Indugiò ancora sull'ingresso.
Ma che diamine, doveva solo ritirare una tazza da tè, non un reattore nucleare, non poteva essere così difficile.
Salì le scale ed entrò dalla porta della cucina;
l'appartamento era immerso nella penombra e sembrava deserto. No, a
dire il
vero sembrava fosse stato visitato nottetempo dai ladri: le stoviglie
sporche
nel lavandino non si contavano più, sul tavolo in cucina non
c'era più un
millimetro di spazio libero, giornali, appunti, annotazioni aveva
conquistato
il soggiorno. In breve, il caos che John aveva faticosamente tenuto a
bada
quando abitava lì, ora dilagava libero e senza freni.
Sospirò: la sua tazza era
sul ripiano di fianco ai fornelli, nella stessa posizione di dove
l'aveva
lasciata, come una reliquia. Era una visione quasi commovente,
attorniata
com'era dal disordine più totale.
Allungò il collo verso il salotto e lo vide: Sherlock era
rannicchiato in posizione fetale sul divano, stretto nella sua
vestaglia blu.
Immobile, forse dormiva o era immerso nel suo Mind Palace.
Alla vista di quella schiena curva, di quel corpo sottile
che sembrava quasi scomparire nella pelle scura del divano (era
dimagrito in
maniera paurosa, poteva dirlo anche a quella distanza) gli si strinse
il cuore.
Sembrava uno di quei gattini che la gente abbandona con
fastidio in una scatola di cartone vicino ai cassonetti dei rifiuti, la
coscienza messa a tacere dal pensiero che qualcun altro sicuramente si
intenerirà di fronte a quel piccolo batuffolo e lo
porterà a casa con sé.
Non era quello che aveva fatto lui abbandonando
quell'appartamento?
Ma un gattino ringhioso e soffiante come Sherlock non l'avrebbe
preso nessun'altro. Sarebbe
rimasto in
quella scatola di cartone, forse sarebbe morto soccombendo alle
intemperie, o
forse sarebbe sopravvissuto, guardingo e diffidente, rifuggendo il
contatto con
gli umani. Ma no, nessuno ne avrebbe avuto cura. Nessuno poteva
comprendere la
bellezza di quel gattino o coglierne la furbizia e l'elettrica
vitalità oltre
la sua rabbiosa facciata.
Nessuno, se non lui.
Strinse con forza la tazza tra le mani: c'era una donna che
lo aspettava in una casa luminosa, accogliente ed ordinata che avrebbe
dovuto
apparirgli desiderabile, ma che in quel momento non lo era. Doveva
andarsene
subito, prima di iniziare a pensare che in realtà lui
apparteneva a quel buio
ed a quel caos.
In tre passi era di nuovo davanti all'ingresso della
cucina, un altro e sarebbe uscito da lì per sempre, portando
via anche l'ultima
parte di sé.
"Non lasciarmi
solo, John."
Poco
più di un sussurro, tanto che John credette fosse solo
nella sua mente.
Un fruscio di seta e un sospiro che assomigliava troppo ad
un singhiozzo e questo no, non se l'era immaginato.
In un attimo fu accanto al divano. D'un tratto tutto gli fu
chiaro: il perché della sfuriata di Sherlock e del suo odio
nei confronti di
Mary.
La paura di vederlo scomparire dalla sua vita, il desiderio
di riaverlo per sé, solo per sé e le mille altre
cose mai dette tra di loro, tutto
era racchiuso in una supplica impalpabile.
"Non lasciarmi
solo, John."
Non abbandonarmi qui, gridava il gattino nero da dentro lo
scatolone.
"Sherlock..."
Lo afferrò per le spalle voltandolo
verso di sé... dio, se gli erano mancati quegli occhi, e
quegli zigomi, e quei
capelli ricci, e quella voce baritonale.
Come aveva fatto a farne a meno per tutto quel tempo?
Gli passò un dito sulle labbra secche "Che idiota che
sei. - lo rimproverò con dolcezza - Guardati: sei
disidratato. Ti preparo una
tazza di tè."
Fece per alzarsi, quando il suo cellulare diffuse le note
di "I want you back" nell'aria.
La suoneria di Mary.
Scattando come un gatto arrabbiato, Sherlock si liberò della
sua stretta, tornò a dargli le spalle e a raggomitolarsi su
se stesso.
La voce di Gary Barlow continuava a gracchiare, fastidiosa
ed insistente.
John fu investito dalla consapevolezza che la prossima
mossa avrebbe deciso il suo intero futuro. E si sorprese nello scoprire
che in
realtà aveva già deciso da molto, molto tempo e
che, forse, non c'erano mai
state due opzioni tra cui scegliere.
Tolse il cellulare di tasca e lo scagliò lontano, la
canzone della suoneria che morì all'improvviso in
un'esplosione di plastica
infranta. A quel suono, Sherlock si voltò stupito e subito
John gli fu sopra,
costringendolo a distendere il corpo e a sdraiarsi sulla schiena,
bloccandolo
col peso del suo corpo.
"John." Mille domande, mille richieste, tutte
racchiuse nel suo nome.
"Sono qui, Sherlock. - lo rassicurò, appoggiando la
fronte sulla sua - Non me ne vado più."
L'ombra di un sorriso comparve sul volto del detective
"Non volevi farmi un tè?"
John lanciò un'occhiata fugace alla sua tazza da tè,
poggiata sul tavolino: non c'era fretta, quella tazza sarebbe rimasta
al 221B
di Baker Street ancora per molto, molto tempo. Si chinò sul
viso dell'altro
"Conosco un altro metodo per prendermi cura di queste povere labbra
screpolate."
mormorò, prima di reidratare la bocca di Sherlock con la
propria, mentre le sue
mani si insinuavano sotto i pantaloni del pigiama.
Qualche minuto
più tardi una raggiante Mrs. Hudson chiudeva
con discrezione la porta della cucina per impedire che l'eco dell'entusiasmo dei suoi due ragazzi
arrivasse fino in strada.
Ed era certa che John le avrebbe perdonato la sua piccola
bugia, si disse mentre scendeva le scale con agilità.