Capitolo 24
Unexpected meeting
Quando Nicole riemerse da quel mare di ricordi, si rese
conto di non essere sola su quello scalino di marmo bianco, freddo, glaciale
come il ferro di quella sedia che era stata la spettatrice del proprio orrore.
Aveva una mano, gentile e rassicurante, piccola e fredda, posata sulla spalla.
Alzò lo sguardo, appannato dalle lacrime, sulla longilinea figura seduta al suo
fianco. Era Rebekah. Sembrava talmente addolorata che persino i suoi splendidi
occhi, sempiternamente allegri e spensierati, erano stretti in un’espressione
afflitta, accorta e notevolmente empatica.
« Mi dispiace così tanto, Nicole,» le sussurrò dolcemente
prima di stringerla in un lungo e caloroso abbraccio. Nicole si affidò a lei,
completamente, sicura del suo supporto, e tentò di non far fluire più le
lacrime sulle sue gote sin troppo pallide e ceree. Il petto era scosso da dei
singhiozzi insopportabili e tutto il suo corpo tremava tra le braccia forti
della vampira Originale. Rebekah le carezzò lievemente i capelli, mormorandole
parole di conforto che le fecero sollevare l’animo da ogni dolore, e fu grazie
a lei che Nicole fu in grado di allontanare quei vani simulacri di amarezza,
delusione e rabbia che le avevano occupato la mente. Si scostò dopo quelli che
le parvero secoli e Rebekah le asciugò le lacrime rimanenti con il dorso della
mano candida. Le stava sorridendo, accogliente, e, stupita da se stessa, Nicole
ricambiò con dolcezza. L’aveva aiutata come nessuno, nemmeno suo padre, aveva
saputo fare.
Aveva
trascorso due mesi senza John, sperando che tutta quella agonia passasse da
sola, sperando che vivere nei vicoli di Richmond, pieni di pericoli e
sotterfugi, la rendesse più forte e determinata. Non fu così. Aveva trovato un
monolocale diroccato dov’era avvenuto, qualche mese prima, un omicidio. Le
pareti erano ancora incrostate del sangue di quella povera donna aggredita in
casa sua e Nicole aveva faticato per due giorni per rimuoverlo del tutto tanto
si era fuso con quell’orribile carta da parati giallo canarino. Gliel’avevano
venduto per nulla, nemmeno un paio di dollari, e Nicole aveva trascorso lì i
due mesi più orribili di tutta la propria vita. Era umido, sporco e la
criminalità era all’ordine del giorno. Sentiva sparatorie tutte le notti e
tentava di soffocare le lacrime nel cuscino, pregando che non perforassero i
vetri delle sue finestre e la morte non la cogliesse in quel sogno costellato
da incubi. Non aveva nulla di suo, né una foto né un vestito e aveva dovuto
procurarsi quei pochi abiti e cibarie alle mense dei senzatetto. Nessuno
avrebbe potuto riconoscere in lei quella ragazza che era stata la regina del
Robert E. Lee da sempre, la favorita della moglie del sindaco, la figlia del
miglior ginecologo dell’ospedale cittadino. Nicole stessa stentava a
riconoscersi. Quelle belle gote floride e rotonde, il suo marchio di innocenza,
erano divenute incavate come quelle di un cadavere. Quei morbidi capelli, per i
quali tante volte le sue compagne l’avevano elogiata, erano diventati stopposi
e sporchi, crespi come cespugli. Quegli occhi splendenti, che avevano fatto
innamorare il suo Tyler, oramai un’ombra nella sua mesta esistenza, avevano
perduto la propria lucentezza, divenendo cupi e spenti, tristi e malinconici.
Non aveva resistito oltre quando, una notte, una pallottola vagante aveva
ferito a morte una ragazza che abitava nell’appartamento a fianco. Era l’una di
notte, Nicole non l’avrebbe mai dimenticato. Era scattata giù dal giaciglio
improvvisato che con disgusto chiamava letto, aveva raccattato quei pochi beni,
antiche immagini di un passato felice, che possedeva. Il vestito di John, gli
orecchini della nonna, il bracciale di Elena. Non aveva nient’altro che quello.
Avrebbe potuto venderli per guadagnarsi un pasto migliore, gli orecchini erano
di veri diamanti, ma non si sarebbe privata di loro per nulla al mondo, sebbene
fosse un pensiero infantile e sciocco. Si svestì di quel pigiama logoro, una
camicia maschile che apparteneva a un ragazzo sulla ventina, un tale Angel
Porter, che l’aveva aiutata a trovare quel posto e le aveva mostrato dove
potesse rifocillarsi. Era stato gentile e non aveva voluto nulla in cambio. Le
aveva solo domandato la ragione per la quale una bella ragazza come lei si
trovava in quelle condizioni, ma Nicole aveva taciuto. Aveva persino mutato il
suo nome. Per Angel lei era Margaret Diaz. Margaret come la piccola figlia, di
soli quattro anni, che tanto le somiglia nel carattere, di alcuni amici di
famiglia che vivevano a Portland e Diaz come il cognome di Morag, l’ultima
persona che aveva visto quella notte, l’ultima amica che le aveva dato il
proprio supporto. Non vi aveva nemmeno pensato troppo prima di rispondere e
Angel non le aveva fatto più domande sul suo passato. Avevano avuto anche una
storia, lei e Angel, sebbene il termine storia fosse un’esagerazione. Nelle
notti buie e sin troppo cupe Angel la teneva al suo fianco, le carezzava i
capelli e le parlava con dolcezza, quasi come se avesse voluto essere un angelo
silenzioso pronto a rischiarare le sue tenebre.
Era stata la ragione per la quale Nicole non si era lasciata
andare, ma aveva reagito a quel folle destino che le andava contro con foga,
volendo annientarla totalmente e indissolubilmente.
« Torniamo dentro, Rebekah. Oramai è passato,» mormorò
delicata, issandosi in piedi a fatica tanto le tremavano le gambe. Non voleva
più ricordare nulla. Aveva abbandonato persino Angel per fuggire verso il suo
futuro.
Aveva
solo un indirizzo che rimembrava alla perfezione, quasi fosse stata la sua
unica ancora di salvezza alla quale doversi aggrappare per risalire l’abisso.
Aveva indossato le vesti della sua vecchia vita e aveva corso per le vie buie
di Richmond, quasi ad occhi chiusi, piangendo come una bambina. Erano le tre di
notte quando arrivò dinanzi alla villetta di quello che ormai sapeva essere suo
padre. Aveva salito gli scalini che con quella luce soffusa sembravano essere
grigi, come il resto della casa, e si era fermata sul pianerottolo. Non aveva
avuto il coraggio di bussare alla sua porta, vedendo le luci spente, e si era
accoccolata sul divano. Non aveva dormito, gli occhi erano rimasti spalancati e
fissi dinanzi a sé per tutta la durata della notte sino a quando non aveva
scorto il Sole sorgere dietro la casa. Si era issata in piedi e, facendosi
forza dopo un lungo sospiro, aveva bussato, solo una volta, al portone di legno
chiaro. Tremava, tantissimo, e si torturava le dita e il labbro inferiore, poi,
come disillusa che potesse davvero aprirle, si era volta verso la strada ed era
avanzata di un passo verso gli scalini bianchi. La porta si era aperta con un
piccolo cigolio e Nicole si era subito, prontamente, volta verso di essa con le
labbra schiuse ed esitanti, il respiro corto per l’emozione e le gambe che
sostenevano a stento il suo peso. Aveva incontrato i suoi occhi azzurri,
bellissimi, luminosi e le lacrime avevano rischiato di velare i propri. John
era lì, dinanzi a lei, dopo due mesi trascorsi nel buio totale. John era lì, trepidante
e incredulo di vederla, le labbra sottili spalancate e sorprese, il corpo
proteso verso di lei. Suo padre era lì e Nicole percorse quel breve tratto che
li separava in una falcata per poi abbracciarlo stretto, allacciargli le
braccia dietro il collo e lasciandosi cingere da quelle muscolose e gentili di
John che le carezzavano lievemente la schiena. E fu a casa.
Rebekah le prese entrambe le mani e la condusse all’interno
della villa con fare materno, attenta e premurosa, come se fossero amiche da
sempre, non da qualche tempo.
« Nik stava quasi per azzannarlo,» le rivelò accorata, come
se avesse voluto dare man forte a suo fratello contro Damon, « Elijah l’ha
trattenuto a stento e io sono corsa fuori a vedere come stavi,» le raccontò
stringendola per un altro istante prima di lasciarla andare dinanzi alla porta
della sala dove ancora si svolgeva la cena, « Perdonami per le domande sul tuo
passato, sono stata indelicata e indiscreta,» sussurrò blanda e Nicole scosse
il capo, con un lieve sorriso che non le illuminò lo sguardo perso nelle
meditazioni del suo passato.
« Non… non preoccuparti, Rebekah, davvero. Io… è solo che…
vorrei non aver dovuto ricordare perché ho sempre ritenuto che, se avessi anche
solo pensato di nuovo a quella notte, mi sarebbe piombato il mondo addosso. Mio
padre non ne parlava mai, gli faceva troppo male pensarmi in quello stato e…,»
si interruppe, sentendo le lacrime invaderle gli occhi azzurri e spenti.
Rebekah annuì e le carezzò la guancia con delicatezza.
« Non preoccuparti, Nicole. Va tutto bene,» le assicurò
dolcemente prima di farle cenno di rientrare. Nicole obbedì, asciugandosi gli zigomi
con il dorso della mano destra e percepì gli occhi di tutti su di sé. Si
soffermò su un paio di un azzurro così chiaro da sembrare ghiaccio. Erano
dispiaciuti, amareggiati e oltremodo mortificati e Nicole non fu in grado di
mostrare la sua piena rabbia nei loro confronti. La sua forza di volontà era
stata così grande che per due interi anni aveva allontanato quei ricordi da sé,
accantonandoli nella parte più buia e recondita del suo animo. Era bastata
quella scintilla, dannata e malevola, a far riaffiorare tutto con troppa
violenza perché lei potesse anche solo pensare di ricacciare il passato
indietro.
« Perdonami… non avrei dovuto,» si scusò debolmente, certo
del proprio dispiacere, ma troppo orgoglioso per mostrarlo davvero. Nicole deglutì
a vuoto, tentando di non piangere ancora. Si era sfogata abbastanza per quella
sera, lei che non piangeva mai, lei che tentava di essere sempre composta ed
elegante, una signorina dell’alta società. Lo era sempre stata. Sin da bambina,
sotto l’ala protettiva di Carol, aveva imparato il bon ton, l’étiquette. Aveva
imparato a danzare con leggiadria, a suonare il pianoforte, a sorridere e a
ridere senza eccedere, a vestirsi con eleganza. Tutto quello perché voleva
davvero essere una giovane ed fine ragazza di una cittadina del Sud della
Virginia. Tutto finito. Il suo sogno era stato infranto in un attimo, « È solo
che era davvero così assurdo pensare che…,» si interrupe nel vederle stringere
i pugni, conficcarsi le unghie nella pelle candida come il latte, come se
volesse davvero ferirsi all’esterno per non soffrire nell’anima.
« Pensi sia stato facile?» gli domandò con il petto ansante
e il fiato corto per le lacrime che stava trattenendo con una forza di volontà
che superava qualsivoglia emotività, « Pensi sia stato semplice far finta che
andasse tutto bene e che il mio essere andata via da Mystic Falls non
c’entrasse nulla con il Consiglio, con il padre di quel ragazzo che ho amato con
tutta me stessa, con il padre di quella che è stata come una sorella per anni?
» continuò più accorata, prima di scuotere il capo foga e portarsi una mano
alla tempia, socchiudendo gli occhi chiari e dardeggianti, « Chi altri lo sa? »
gli chiese cauta, avanzando verso di lui, le braccia conserte a difendersi
dalla sua stessa anima che da sola era troppo debole per sostenerla. Voleva
guardare Klaus, per avere conforto, per lasciarsi avvolgere dai suoi splendidi
occhi, ma rimase a osservare Damon, trepidante di una risposta. Sperava che loro non sapessero nulla. Sperava che loro fossero ignari del suo passato, ma
dallo sguardo del vampiro di fronte a lei comprese che era una speranza vana. Loro sapevano. E quello fu il più duro
colpo da sopportare. E fu quello il colpo che la fece crollare. Se Jeremy ed
Elena sapevano, significava che nei loro sguardi così tremendamente simili e
splendidi avrebbe riconosciuto solamente la pietà, la compassione, la
commiserazione. E si sarebbe sentita inferiore. Avrebbe intaccato il suo forte orgoglio,
la dignità nei confronti di se stessa e non avrebbe mai potuto permetterlo.
Erano la sua famiglia. Desiderava che le volessero bene, non che la
compatissero.
« Solo Elena,» le confessò sottovoce, quasi chinando il capo
dinanzi ai suoi occhi feriti. Nicole sospirò, pesantemente, e poi annuì,
volgendo il capo al pavimento.
« Lo sapeva già questo pomeriggio?» gli domandò duramente,
rialzando il capo fiero e orgoglioso, puntando gli occhi nei suoi. Damon fu
quasi stupito da quel cambiamento repentino di atteggiamento, ma annuì
comunque, e Nicole si sentì quasi mancare la terra sotto i piedi. Era una
sensazione orribile comprendere che quello sguardo, così carico di bene e pena,
era stato causato solo da quella verità.
« Sì,» esclamò ad alta voce come per imprimerle quel
messaggio nella mente. Come lei, Damon non era un vigliacco e voleva sfidarla
ad armi pari, perché pensava lo meritasse davvero.
« Perfetto. Ti ringrazio, Damon,» esclamò sardonica e
caustica, la voce quasi nasale e saccente prima che i suoi occhi divenissero
dello stesso colore di un mare in tempesta, « Non voglio che lo sappia nessun
altro,» continuò categorica e risoluta, « Dammi la tua parola che questa storia
non uscirà da questa casa, Damon.»
« Vedi dov’è andato a finire il mondo, allora,» lo canzonò
la giovane, stroncando sul nascere ogni sua protesta. Era la sua vita, non
quella di Damon e nessuno aveva il diritto di intervenire in una sua scelta.
« Quello che voglio dirti è che…»
« Non voglio sentire quello che tu hai da dirmi, Damon. Sul
serio. Non so che diavolo ci sia tra te ed Elena per farti sentire in diritto
di raccontarle tutto,» cominciò irritata, ma con un velo d’ironia, sebbene le
dispiacesse parlare in quel modo dinanzi a quella sala piena di gente che lo
odiavano e lo detestavano, tutti tranne Stefan. Si stava comportando malissimo,
ma non le importava. Era troppo arrabbiata, delusa, da tutti. Persino dalla sua
stessa sorella. Elena aveva taciuto, Elena le aveva mentito. Non lo sopportava.
Non sopportava che la sua gemella potesse, in qualche modo, tradirla.
« È tua sorella, Nicole. Ha il diritto di sapere,» enfatizzò
ragionevole. Lui doveva saperlo meglio di molti altri. Aveva un fratello minore
che adorava, nonostante tutti i dissidi che ci potevano essere tra di loro.
Damon e Stefan avevano un rapporto così forte da farle credere che non si
sarebbe spezzato mai, nemmeno dopo la più furiosa tra le liti. Loro erano veri
fratelli e neanche Katherine ed Elena avevano potuto separarli. Avrebbe voluto
che fra lei ed Elena vi fosse altrettanto ed era sempre stato così. Prima del
suo periodo oscuro, prima di essere andata via, prima di essersi innamorata di
Klaus.
« Non è vero, non ne aveva il diritto, e nemmeno tu. È la
mia vita, non la sua,» contestò atona, ma tremante di rabbia. Lei non si era
mai addentrata nei meandri del passato di sua sorella, non che ve ne fosse
necessità. Lei aveva sempre cercato di non gravare sulle spalle di nessuno,
sebbene tante volte avesse desiderato avere qualcuno che la ascoltasse senza
giudicarla. Ma lei non era Elena.
« Perdonami, Nicole. Non vorrei mancarti di rispetto, non è
assolutamente mia intenzione, ma nella tua assenza abbiamo discusso i termini
di un accordo,» li interruppe Elijah con delicatezza, nonostante nei suoi occhi
vi fosse del senso di colpa per quel passato che doveva averlo scosso. Forse
perché Klaus, o Rebekah, gli avevano raccontato di quanto fossero simili nel
senso dell’onore.
« Che io non ho accettato. Non posso permettere che la loro
faida ammazzi la doppleganger,» esclamò Klaus con voce irata e collerica.
Nicole lo guardò, ferita per quelle parole come se le avesse appena inferto un
colpo al cuore con il più avvelenato dei pugnali. Klaus rispose al suo sguardo,
dispiaciuto, ma risoluto per quella serata, e Nicole scosse il capo,
trattenendo a stento le lacrime.
« Mia sorella non è un oggetto, non è una sacca di sangue ambulante
e soprattutto non è un mezzo per raggiungere gli scopi di nessuno,» chiarì
alterata, osservandolo con astio. Non voleva guardarlo in quel modo, ma le
veniva naturale pensando a Elena. Klaus lo comprese e si portò le dita giunte
sulle labbra rosee e piene, scuotendo il capo e scrutandola come per farla
ragionare. Rebekah rimase al suo fianco e Nicole non poté essergliene più
grata. Non sapeva per quanto sarebbe potuta rimanere in piedi e perdurare a
combattere contro tutti, persino contro il suo Klaus che tanto amava. Ma doveva
farlo. Klaus non poteva parlare di Elena come una risorsa per la creazione del
suo esercito personale di ibridi asserviti. Elena era una persona, era sua sorella,
e Nicole doveva proteggerla ad ogni costo.
« Chiediti, Nicole, quanto ci vorrà prima che loro due,
nella loro faida, la uccidano o la trasformino in un vampiro? Ci hanno provato entrambi
e tuo padre è dovuto morire per salvarla,» le ricordò con un velo di dolcezza
negli occhi, non volendo vederla soffrire. Nicole chiuse gli occhi per un
istante, una smorfia a deturparle le labbra, e sospirò pesantemente. Non
avrebbe dovuto ricordarle quello. Suo padre, il suo adorato John. Se lui fosse
stato lì, avrebbe saputo esattamente come farla calmare, consolarla. Le avrebbe
detto che tutto si sarebbe risolto, che non v’era alcun bisogno di piangere
perché presto quella tempesta sarebbe passata, dando luce a un arcobaleno di
pace e serenità. E Nicole gli avrebbe creduto, come sempre, sebbene la
situazione fosse davvero insopportabile. Klaus, oramai, aveva capito dove
colpire, quali erano le corde più deboli del suo cuore e le stava sfruttando
proprio in quel momento. Se avesse avuto un minimo di forza in più, l’avrebbe
guardato incendiandolo con i suoi occhi dardeggianti, pronta a sguainare gli
artigli e difendere ciò che aveva di più caro. Però percepiva nella voce
dell’uomo che amava con tutta se stessa una nota di amarezza nei confronti di
lui stesso. Voleva difenderla, voleva infonderle forza con quelle parole, non
abbatterla, e quella consapevolezza le risollevò l’animo. Damon emise un suono
a metà tra lo sdegno e il sarcasmo e Nicole ritornò a guardarlo lentamente,
assottigliando gli occhi divenuti più chiari e calmi, come delle acque di un
laghetto di montagna.
« Suo padre? Il grande John Gilbert? Pessimo cacciatore di
vampiri, pessimo senso dell’umorismo, pessimo padre. Ha fatto un favore
all’umanità ammazzandosi,» esclamò caustico, ridendo appena. Dalle labbra di
Stefan fuoriuscì un sibilo irato, come per comunicare al fratello che stava
esagerando. Rebekah posò una mano sulla sua, come per proteggerla e farla
calmare, notando la sua reazione. Aveva nuovamente stretto i pugni,
conficcandosi le unghie nella carne viva, e delle lacrime le aveva velato lo
sguardo chiaro. Quasi le mancava il fiato per quella collera che le invase il
corpo in quel secondo. Non fu in grado di trattenere la propria magia e lasciò
che quell’ira si incanalasse in ogni fibra del suo essere per poi rivolgere
contro il vampiro. Non avrebbe dovuto dirlo. Damon non lo conosceva nemmeno.
Non sapeva cosa suo padre avesse fatto per lei, non sapeva che padre
meraviglioso fosse, con quanta premura la trattasse. Lui aveva visto solamente
il cacciatore di vampiri che voleva proteggere la sua Elena ad ogni costo,
anche a rischio della sua felicità. Una folata di vento gelido si abbatté su
Damon che fu scaraventato contro il tavolo, portandosi i piatti e le posate con
sé per poi ricadere ai piedi del camino. L’aveva quasi spezzato, il tavolo, e
Nicole comprese di aver esagerato, sebbene la razionalità fosse andata a farsi
un viaggio in solitaria. Damon si rialzò prontamente e Stefan si volse a tre
quarti per poter guardare entrambi, sebbene non ce ne fosse poi molta
necessità. Damon sguainò i canini e gli occhi gli si iniettarono di sangue
mentre sulle palpebre le vene risaltavano dandogli un’aria da assatanato che
divertì Nicole. Quasi lo ringraziò per quello scontro. Aveva bisogno di
sfogarsi, « Tu, ragazzina,» sbraitò con la voce falsata dai canini allungati
che gli perforavano il labbro inferiore. In un lampo le fu davanti, pronta a
colpirla, ma Nicole lo immobilizzò. Sentiva quasi sua nonna gioire con lei.
Aveva sempre odiato i vampiri, Elizabeth Bishop in Gilbert, e per molti giorni
la sua voce dolce e premurosa era stata ovattata. Era arrabbiata con lei per
Klaus, ma in quel momento voleva offrirle solamente il proprio supporto.
« Sono più forte di te, Damon, e sono più incazzata,» gli
comunicò sarcastica, prima di provocargli un aneurisma che gli fece flettere le
ginocchia. Era più forte di quello di Bonnie perché era una strega da più tempo
di lei e quella potenza era amplificata dalla collera. Damon si portò la mano
alla tempia e un guaito sofferente gli sfuggì dalle labbra schiuse. Stefan si
mosse inquieto, sentendo suo fratello soffrire in quel modo. Era certo che
Damon non si sarebbe lasciato sfuggire un suono, proprio come quando erano
bambini e suo padre lo schiaffeggiava per qualcosa che solo lui poteva
conoscere, se le sue condizioni non fossero state gravissime.
« Ti prego, Nicole,» supplicò avanzando verso di lei e
togliendosi, per un solo istante, quella falsa maschera di Squartatore
imperturbabile e gelido. Era Damon, il suo fratellone, e lui doveva proteggerlo
proprio come Damon aveva fatto secoli prima, « È insopportabile, lo so, e ti
domando perdono al posto suo. Non avrebbe dovuto insultare John, ti comprendo,»
tentò di calmarla cauto e Nicole sciolse l’incantesimo. Damon rimase in
ginocchio dinanzi a lei, quasi tremante, poi si issò in piedi e gli rivolse uno
sguardo gelido. Il suo orgoglio era stato intaccato da suo fratello. Stefan
rise quasi di fronte a quella testardaggine, ma i suoi occhi verdi e brillanti
rimasero ancorati a quelli azzurri della giovane strega. Era forse un lampo di senso di colpa quello che poteva scorgere? Nicole
Gilbert era una strana ragazza, doveva ammetterlo, ed era quello il motivo per
il quale tutti nutrivano una certa riservatezza nei suoi confronti, tutti
eccetto i suoi fratelli. Stefan aveva sentito Elena piangere per lei dopo il
funerale di John, quando era andata via senza una parola né uno sguardo. Stefan
aveva notato quanto Jeremy fosse felice quando era al fianco di quella sorella
che aveva pensato di aver perduto per sempre.
« Ehi Stef, ti ricordi quando hai ucciso papà?» gli ricordò
sofferente, ma sempre baldanzoso e sarcastico, le labbra contratte in una
smorfia di dolore, non certo a ricordo di quel padre tiranno che tanto aveva
odiato, « Lascia perdere i moralismi. Il caro John è allo stesso livello.»
Stefan quasi temette che Nicole reagisse allo stesso modo dei minuti
precedenti, ma la ragazza sospirò, chinò il capo, poi lo scosse con foga e
ritornò a guardare Damon.
« Che cosa ne sai tu di mio padre? O della famiglia? Non
conosci nemmeno Elena,» gli comunicò spossata, sottovoce, come se avesse avuto
timore che, alzando di poco il tono, avrebbe potuto spezzare quella quiete
apparente che aveva perdurato quella sera, « Non sai che tipo di ragazza è
stata per sedici anni. Non puoi nemmeno immaginarlo,» continuò quasi con
l’intenzione di ferirli entrambi, di far comprendere loro che quella Elena che
loro avevano conosciuto era diversa da sua sorella, « Poi i nostri genitori
sono morti e siete arrivati voi due a scombussolarle l’esistenza, portando
nella sua vita quel mondo soprannaturale da cui ho tentato di difenderla
tacendo sulla mia magia,» li accusò apertamente, facendo un cenno con la mano,
gi occhi stretti in un’espressione di risentimento e sdegno, « Sono arrivata
persino a mentire a mia sorella, alla mia gemella, a quella ragazza che è stata
una parte di me, della mia anima, per sedici anni. E questo soltanto per
proteggerla,» esclamò sospirando pesantemente. Odiava mentire, Nicole, odiava
tradire, odiava venir meno alla parola data e aveva fatto tutto ciò per amore
di sua sorella, ma tutto era venuto meno per colpa loro. Non avevano il diritto
di entrare nella sua vita senza permesso alcuno. Non avevano il diritto di
renderla la regina della loro faida secolare che aveva preso avvio dalla lotta
per Katherine. Avevano macchiato la purezza di sua sorella, rendendola agli
occhi degli altri alla stregua di una sgualdrina e questo Nicole non poteva
davvero sopportarlo, « Sì, hai perfettamente ragione, Stefan: è insopportabile.
Ma cosa posso farci? Ci devo convivere,» si rassegnò a fatica, le parole quasi
inframmezzate da dei respiri lunghi e profondi. Percepiva ancora lo sguardo di
Klaus su di sé. Era stupito, meravigliato. Non l’aveva mai vista davvero
arrabbiata per qualcosa, « Adesso, tornate alla cena, o quello che stavate
facendo prima,» esclamò volgendosi verso la porta d’uscita. Quella sala la
stava soffocando. Avrebbe voluto fuggire nella notte buia e priva di stelle,
tornare a Richmond e sperare che nella camera accanto alla sua suo padre
dormisse come un bambino rilassato, senza incubi a tormentarlo. Ma rimase lì
poiché sapeva che quella era una speranza inutile. Suo padre era morto e doveva
accettarlo. Damon fu più veloce di lei e uscì dalla sala seguito da Elijah e
Rebekah. Nicole guardò da Klaus a Stefan senza davvero vederli. Klaus percorse
il breve tratto per arrivare al tavolo e finì in un sorso di bere il vino
contenuto nel suo bicchiere di cristallo mentre Stefan perdurava a guardarla.
Sembrava a disagio, come se avesse creduto alle sue parole tanto da sentire
qualcosa fermarsi alla gola, l’oppressione di sapere che se non fosse mai
tornato a Mystic Falls Elena avrebbe potuto continuare la sua vita da umana.
Non era vero, Nicole lo sapeva bene. Elena sarebbe morta senza l’aiuto di
Stefan la stessa notte della morte dei suoi genitori adottivi, « L’hai salvata
senza sapere nemmeno chi fosse, » si lasciò sfuggire con la voce rotta dalle
lacrime nascenti. Stefan la guardò per un istante e anche Klaus rivolse uno
sguardo ai due. Le labbra di Nicole tremarono per un impercettibile secondo per
la potenza del dolore che le stava squassando il petto e quasi flettere le
gambe tremanti.
« Quella notte… è vero,» sussurrò Stefan, avvicinandosi a
lei e sfiorandole la mano sul cui indice spiccava l’anello dei Gilbert, « L’ho
salvata. Stavo per salvare tuo padre. Elena era già svenuta e tua madre… penso
lei sia morta nell’impatto contro l’acqua,» le raccontò, posando l’altra mano
sulla sua spalla notando quanta afflizione stesse provando. Doveva conoscere
quella storia, era necessario, e Stefan non si sarebbe sottratto a quell’arduo
compito, sebbene il suo cuore morto da secoli fosse tornato a battere per
quella piccola ragazza che aveva dinanzi a sé. Era così vulnerabile e triste
che era un peccato anche solo vederla piangere e non poter far nulla per
impedirlo. Nicole non era Elena, però, in quel momento, Stefan provò lo stesso
affetto che nutriva nei confronti del suo amore, del vero amore della sua
esistenza, « Però tuo padre mi fece cenno di salvare Elena e quando tornai di
sotto per prendere anche lui, era già morto.» Nicole sussultò per quell’ultima
affermazione e Stefan quasi la strinse a sé, ma si trattenne sentendo i passi
di Klaus avvicinarsi a loro, « Mi dispiace, Nicole.»
« Grazie,» sussurrò la giovane piangente, ma risoluta,
determinata e forte. Fu il turno di Stefan per sussultare e aggrottò le
sopracciglia.
« Cosa… cosa hai detto? » le domandò confuso e sbigottito da
quel lieve sorriso che le aveva disteso le labbra esangui.
« Ho detto grazie. Grazie di averla salvata, grazie di
avermelo raccontato, grazie per aver ascoltato mio padre. Grazie,» esclamò
semplicemente, quasi divertita, sebbene fosse evidente la sua sofferenza negli
occhi spenti e mesti.
« Ma… io,» si oppose Stefan. Avrebbe voluto dirle che non
capiva per cosa la stesse ringraziando, che non aveva fatto nulla, che, se
fosse arrivato prima, avrebbe potuto salvare entrambi. Avrebbe voluto, ma non
lo fece. Avrebbe inferto il colpo di grazia a un’anima già provata e spossata
dagli eventi di quella sera. Suo fratello era stato uno sciocco a farle
ritornare alla mente quella triste storia ed era certo che anche Damon si
ritenesse tale.
« Mio padre non avrebbe mai, mai potuto continuare a vivere
senza mia madre o senza Elena. O senza di me e Jeremy. Quindi grazie per aver
rispettato la sua scelta,» gli sussurrò dolcemente, prendendolo quasi alla
sprovvista. Era davvero convinta di ciò che stava affermando, sebbene stesse
così male da mantenersi a stento in piedi.
«
Elijah… perché siete ancora qui? » esclamò Klaus riportando
entrambi alla realtà. Stefan si era come perso negli occhi limpidi della
giovane dinanzi a lui. Avevano la stessa sfumatura dolce e pacifica,
accogliente e tremendamente delicata e risoluta allo stesso tempo, di quelli
della sua migliore amica, della sua Lexi. Le mancava immensamente. Lei avrebbe
saputo come aiutarlo, Lexi sapeva sempre ogni cosa. Ogni volta che lo osservava
negli occhi, Stefan provava la disagevole sensazione che riuscisse a scrutare
gli angoli più reconditi della sua anima, forse anche di più rispetto a Damon.
« Beh
che modi sono questi, fratello? Hai dimenticato il dolce,»
ribatté Elijah, prima di levare la copertura di due pugnali adagiati sul
cartone dorato. Klaus scosse il capo e Mikael lo affiancò preoccupato per
quello che il suo figlio maggiore aveva appena compiuto. Elijah osservava
entrambi, soddisfatto, senza trattenere un sorriso di scherno e Rebekah era a
braccia conserte, il capo alto e fiero, gli occhi dardeggianti e le labbra
lievemente imbronciate in un’espressione di superiorità e durezza, soprattutto
nei confronti di suo padre. Stefan si girò verso suo fratello continuando a
carezzare la spalla della giovane dinanzi a lei. Damon gli scoccò un’occhiata eloquente,
facendogli cenno di andar via, ma Stefan, confuso, non obbedì perdurando a
guardare la scena.
« Cosa avete fatto? » domandò Mikael, mantenendo a stento la
calma. Fremeva di rabbia e si notava. Persino Klaus si sentiva più rilassato
del suo patrigno.
« Cosa hai fatto tu, padre? Non mi fido di te né delle vili
promesse di Klaus. Adesso faremo a modo mio,» affermò, assottigliando lo
sguardo scuro prima che un ragazzo si affacciasse sulla soglia. Nicole lo
guardò attentamente. Era bello, affascinante e avvenente, e giovane, non poteva
avere più di venticinque anni. Aveva i capelli di un biondo scuro, mossi e
lievemente sollevati e mossi mentre gli occhi marroncini, il viso pulito, da
bambino quasi con quella fossetta sul mento. Klaus indietreggiò di un passo
quando quel giovane gli rivolse un sorriso malizioso, sarcastico, strafottente,
che non preannunciava nulla di buono.
« Kol.»
«
Quanto tempo fratello,» esclamò leggero prima di avanzare verso
Klaus che continuava a indietreggiare. Un altro uomo si avvicinò a lui e Nicole
quasi non riuscì a scorgerlo per la velocità che possedeva. Vide solo i suoi
occhi e ne ebbe il terrore. Erano di marrone scuro, come quelli di Elijah, ma
erano di gran lunga più freddi, malvagi e austeri e la fecero tremare soprattutto
per ciò che fece dopo.
« Finn,
no! » esclamò Klaus, notando il pugnale nelle mani di suo
fratello. L’uomo lo conficcò nella sua mano e un grido di dolore fuoruscì dalle
belle labbra del suo Klaus. Nicole mosse un passo e notò che Stefan si era
oramai allontanato da lei per raggiungere suo fratello ancora sulla soglia a
godersi lo spettacolo.
« Potete andarvene, Salvatore. È una questione di famiglia,»
mormorò leggermente Elijah con un sorriso lieve sulle belle labbra rosee
rivolto a suo padre che rimase come inerme dinanzi alla sua famiglia riunita.
Nicole stava quasi per volgere lo sguardo all’uscita, sentendosi talmente
inadeguata da voler fuggire, ma la voce di Rebekah la inchiodò lì dov’era.
« Rimani, Nicole. Fai parte di questa famiglia. Sei l’eredi
di Rowena, moglie di Bishop, e nipote di Esther. È come se fossi nostra
cugina,» le mormorò quasi con dolcezza prima di avanzare verso i suoi fratelli.
Anche Elijah la affiancò. Klaus tolse il pugnale dalla propria mano e la guardò
come per pregarla di andare via e non assistere a quello spettacolo cupo, ma
Nicole scosse lievemente il capo per fargli intendere che sarebbe rimasta con
lui. Per lui. Lo amava e nulla aveva potuto mutare quel sentimento, nemmeno il
pensiero fisso di Elena e degli ibridi.
« Elijah, Finn, Kol, Rebekah, Niklaus, ascoltatemi,» pregò
Mikael, distendendo le mani dinanzi a sé come per riportare la calma nella
sala, come per far evaporare la tensione che si era solidificata in
quell’enorme spazio. Lo sguardo di Mikael vagò per tutti i suoi figli, ma si
soffermò su quella che era stata sempre la sua preferita, sulla sua Rebekah che
tanto gli assomigliava. La giovane rimase fredda, glaciale, senza far affiorare
nemmeno un bagliore di umanità.
« Per cosa?» domandò Elijah irato, facendola quasi
sussultare. Elijah le era sembrato il più pacato tra i suoi fratelli, ma quella
situazione aberrante doveva essere insopportabile persino per la sua calma
imperitura, « Ci hai uccisi, padre. Ci hai fatto bere il vino con quel sangue e ci hai trafitti con una
spada come se fossimo dei nemici e poi ci hai dato la caccia per mille anni,»
gli ricordò con astio, stringendo i pugni. Lo sguardo di Nicole si fermò su
Klaus. Era il più sorpreso di sentire suo fratello parlare in quel modo a suo
padre, «Vorrei solo aver un paletto di quercia bianca e trapassarti quel cuore
di pietra che possiedi. Perché dovremmo ascoltarti ancora? » Mikael chiuse un
attimo gli occhi e si portò una mano alla tempia. A Nicole ricordò tanto quando
aveva pianto a casa di sua nonna dopo averle raccontato della loro famiglia e
provò un moto di tenerezza per lui.
« Perché mi dispiace,» esclamò amareggiato, guardando tutti
i suoi figli riuniti intorno alla figura di Elijah. Finn e Kol erano alla sua
sinistra, il più giovane con le braccia conserte e un cipiglio collerico negli
occhi scuri, mentre Rebekah era alla sua destra, meravigliosa e terribile come
un angelo della morte che non poteva essere scalfito da nulla. Klaus era a metà
tra loro di fronte a Nicole che stava tentando di eclissarsi. Le parole di
Rebekah non corrispondevano al vero per lei. Non aveva alcun diritto di essere
lì ad ascoltare un dialogo così intimo e privato, ma non poteva semplicemente
andare via. Doveva rimanere per Klaus, e anche per Rebekah.
« Cosa? » domandò la vampira incredula, la voce alterata
dallo sbigottimento che quelle scuse le avevano provocato.
« Ero così arrabbiato. Non avrei mai dovuto chiedere a
vostra madre di compiere un incantesimo del genere, ma non potevo permettere
che un altro di voi morisse. Avevo già perduto Eyvind e Henrik. Non potevo
permettere che ci portassero via anche voi,» mormorò con sentimento sincero e
vivido, muovendosi di un passo verso i suoi figli.
« Questo non spiega perché ci hai dato la caccia per mille
anni,» esclamò Kol con voce dura e impassibile. Finn non aveva parlato e Nicole
non riusciva a capire cosa stesse passando nella mente del vampiro. Sembrava il
più cupo tra i cinque, il più malinconico e nostalgico ed era quello che era
rimasto maggiormente nella bara. Per novecento anni.
« Volevo Niklaus, non voi,» chiarì Mikael e Klaus rise
appena, scuotendo il capo.
« Dare la caccia a Nik era come darla a tutti noi,» cominciò
duramente Rebekah, avvicinando fulmineamente a suo padre, standogli di fronte
senza alcuna paura. Mikael la guardò, il corpo proteso verso la sua unica
figlia, e Nicole poté vedere negli splendidi occhi della vampira delle lacrime
amare, « È nostro fratello, siamo cresciuti insieme e non mi importa cosa tu
possa dire per sminuire il nostro legame con lui. Rimarrà sempre Nik, di
chiunque sia figlio,» tuonò categorica e Klaus alzò lo sguardo su di lei. Era
semplicemente meravigliato da quella confessione. A loro non importava da dove
provenisse. Era sempre Niklaus, il ragazzo timido che soleva piangere di notte
per la violenza delle percosse che suo padre gli infliggeva senza ragione
alcuna.
« Io stesso non avrei saputo dirlo meglio,» mormorò
dolcemente Elijah, con un lieve sorriso che gli lambiva anche gli occhi scuri.
Un suono ridestò tutti e Elijah si voltò di scatto verso la sua fonte. Era il cigolio
di una porta che veniva aperta. Nicole si volse a tre quarti e vide avanzare
una figura femminile avvolta da un abito lungo, antico, che la sfiorava interamente.
Aveva lunghi capelli biondi che, come onde, ricadevano sul petto e un viso
gentile e magro su cui brillavano due occhi che incutevano soggezione, ma anche
benevolenza. Nicole seppe chi era prima ancora che Rebekah la chiamasse madre.
Non poteva che essere lei, Esther, la strega originale. La sua magia era così
potente da farla tremare. Schiuse le labbra, sorpresa, e indietreggiò di un
passo per permetterle di avanzare verso Klaus. Non guardò nessun altro, se non
suo figlio, e Nicole tornò a lui. Stava piangendo. Quasi sussultò per quella
consapevolezza. Avrebbe voluto tanto stringerlo a sé, ma rimase al suo posto.
Aveva il capo chino e timoroso, come se avesse il terrore che, se avesse
guardato sua madre, gli dei gli si sarebbero rivoltati contro. L’aveva uccisa,
le aveva strappato il cuore dal petto e mai, mai avrebbe ricevuto il suo
perdono, l’indulgenza della donna che l’aveva messo al mondo, andando contro
suo marito. L’aveva tenuto con sé, Esther, sebbene la sua magia avesse potuto
annientarlo già da quando era solamente un embrione. L’aveva tenuto con sé,
sperando di poterlo rendere un uomo migliore rispetto a suo padre, il
licantropo stregato da lei a tal punto da non potersi impedire di averla con
sé, solo per una notte. Klaus non sollevò lo sguardo mentre tremava.
«
Guardami,» gli ordinò facendo fremere persino lei. Nicole si trattenne
a stento dal raggiungerlo completamente, ma avanzò sino a stringere la mano di
Rebekah ancora di fronte a suo padre. Notò che Mikael non scostava gli occhi,
meravigliati e stupefatti, per una volta privi del solito gelo, dalla figura di
sua moglie nemmeno per un secondo. Klaus lo fece, la guardò, e Nicole sentì un
tuffo al cuore quando scorse la sofferenza del pentimento nelle sue iridi
chiare, « Sai perché sono qui?» gli
domandò con una nota quasi dolce, ma più determinata e risoluta del precedente
ordine.
« Sei
qui per uccidermi,» affermò Klaus tremante, come se stesse
accettando il proprio destino. Rebekah strinse la sua mano con più forza e
Nicole le si fece impercettibilmente più vicina.
«
Niklaus, tu sei mio figlio. E sono qui per perdonarti,»
esclamò sinceramente prima di volgersi verso gli altri fratelli. Li guardò
tutti, Finn, Kol, Elijah, Rebekah e Mikael, mentre Nicole rimaneva ancorata a
Klaus. In un passo avrebbe potuto raggiungerlo e baciarlo per non permettere a
quelle lacrime di macchiare il suo bel viso, ma attese. Non era il suo momento,
« Voglio che torniamo ad essere una
famiglia,» continuò con un breve sorriso che avrebbe ricambiato se non fosse
stata così presa da Klaus. Stava sollevando il suo sguardo su di lei e Nicole
quasi si sentì mancare per il sentimento che vi scorse, « Nicole Bishop,» la
chiamò Esther, facendola subito voltare verso di lei.
« Come fai a conoscere il mio nome?» le domandò incredula,
aggrottando le sopracciglia dorate. Esther sorrise, criptica, e avanzò verso di
lei sino a esserle dinanzi, quasi affiancando suo marito.
« Nell’Altro Lato è possibile vedere tutto ciò che accade su
questa terra. Sono stata al fianco di ogni strega Bishop discesa dalla mia
amata Rowena, sino a te,» le raccontò con voce dolce, materna, tanto da
scaldarle il cuore. Sembrava sua madre, la dolce Miranda, non la vampira
Isobel. I fratelli si strinsero impercettibilmente vicino alla sua imponente
figura, tutti tranne Elijah che manteneva uno sguardo incredulo e lievemente
assottigliato. Esther aveva rapito la donna che aveva amato con tutto se stesso
e gli aveva fatto bere il suo sangue quella notte. Nicole non era certa che
avrebbe potuto perdonarla con molta facilità.
« Io… comprendo,» sussurrò timorosa e imbarazzata di essere
ancora lì. Esther la stava analizzando, come per cercare di carpire ogni suo
secreto, facendola sentire quasi a disagio. Era sì abituata a essere scrutata
dalle persone, ma non con quella intensità. Nemmeno Carol, prima di renderla la
sua favorita, l’aveva guardata tanto a lungo. Esther doveva sapere che oramai
lei e Klaus stavano insieme e forse voleva capire se fosse adatta a suo figlio.
« Tua nonna è così orgogliosa di te,» le comunicò facendola
sobbalzare per la delicatezza nella sua voce. Lacrime, insieme di dolore e
infinito amore, le velarono lo sguardo chiaro e quasi chinò gli occhi al
pavimento per quella verità. Elizabeth era orgogliosa di lei, sebbene fosse
innamorata di un Antico, sebbene avesse messo la propria magia al servizio dei
vampiri, « Mi ha detto di comunicarti tutto il suo dispiacere,» continuò
Esther, facendola nuovamente immergere nel mare calmo che erano i suoi occhi
marroni, come quelli di Elijah, Finn e Kol. Nicole aggrottò le sopracciglia,
rimanendo fermamente ancorata alla mano di Rebekah ancora posata sulla propria.
« Per cosa?» le domandò incredula, confusa. Sua nonna non
aveva nulla da farsi perdonare, non da parte sua. Esther sospirò e le sue
labbra si strinsero in un’espressione sofferente ed empatica, prima che
muovesse un altro passo verso di lei.
« Perché, se lei non ti avesse avviato alla magia, non
avresti dovuto subire l’ira del Consiglio,» le chiarì sottovoce, come se
temesse di vederla piangere. Doveva aver superato il suo esame.
« Cosa? » domandò quasi scandalizzata, sgranando gli occhi
limpidi, « No, no, no. Non è colpa sua, non ho mai pensato che lo fosse,»
continuò più dolcemente, a stento trattenendosi dal tremare, « È stata solo
colpa mia. Non sarei dovuta intervenire,» aggiunse con amarezza, chinando il
capo verso il pavimento. Era vero. Se non fosse intervenuta a salvare la vita
di quella vampira, non sarebbe mai andata via. Lei ed Elena si sarebbero
riappacificate, così come con sua madre. Avrebbe ripreso la sua vita,
risorgendo dalle ceneri che le avevano lasciato il fumo, il bere e la collera.
Avrebbe salvato Jeremy e forse non sarebbero morti nemmeno i suoi genitori. Sì,
se non fosse intervenuta, la sua esistenza sarebbe stata più felice. Avrebbe
chiarito con John e sarebbe stata di aiuto per Elena in quella situazione coi
vampiri. Ma avrebbe odiato Klaus, non avrebbe tentato nemmeno di conoscerlo, di
comprenderlo, di amarlo. E lui sarebbe rimasto solo, senza nessuno che lo
amasse per ciò che era, non per ciò che sembrava. No. Non avrebbe mai voluto
dimenticare quello che le era accaduto con Klaus. Mai. Klaus era la più bella
cosa che le era capitata. E poi Isobel sarebbe morta e lei non avrebbe avuto
alcuna possibilità di sapere qualcosa su di lei, di imparare a volerle bene, di
vedere il suo sorriso inorgoglito e immensamente dolce, materno, « È solo che
era la mia mamma. Cosa avrei dovuto fare? Lasciarla morire, permettere che
andasse via, che mi abbandonasse un’altra volta? » domandò a nessuno in particolare.
Quelle richieste erano per se stessa. Avrebbe
avuto davvero il coraggio di abbandonare sua madre al proprio destino? Avrebbe avuto davvero il cuore di
pietra di guardarla morire con un paletto conficcato nel petto, senza
intervenire? No. Non avrebbe mai potuto abbandonarla. Però lei l’aveva
fatto. Era scomparsa, dalla sua vista, dalla sua vita per un altro anno, prima
che John gliela presentasse, come non sapendo che era a lei che doveva far
risalire la sua guarigione accelerata, « Effettivamente dopo l’ha fatto,
quindi…,» si bloccò con un sorriso ironico, prima di alzare il capo e puntare
gli occhi in quelli di Esther. Elena
l’avrebbe fatto? Se sua sorella fosse stata al suo posto avrebbe aiutato sua
madre o avrebbe lasciato morire la donna che l’aveva abbandonata per inseguire
i sogni di gloria e immortalità? Probabilmente no. Sarebbe rimasta e
l’avrebbe offerto il proprio aiuto.
« Ma perché?» domandò Rebekah quasi collerica, non
comprendendo cosa le fosse passato nella mente in quegli istanti.
« Cosa? » le chiese confusa, voltandosi a guardarla, la mano
ancora stretta nella sua.
« Damon ci ha raccontato di aver letto che tuo padre fece
giurare di non dire nulla ai tre mi esimo da dire cosa,» sputò le ultime parole
con sdegno e un’espressione di puro odio negli occhi azzurrini.
« Sì, è così,» si affrettò ad asserire. Suo padre aveva
anche bruciato le carte e tutto ciò che poteva metterla in una posizione
scomoda. Non voleva che qualcuno sapesse di lei, di quello che le era accaduto.
Aveva agito in preda alla rabbia di saperla lontana, ferita e completamente
sola, senza nessuno che potesse prendersi cura di lei.
« Però tu non c’eri più. Perché te ne sei andata?»
« Perché mi sentivo soffocare lì sotto.» Era vero, era
fuggita da quella prigione per quel motivo, ma non era l’assoluta verità e
Rebekah lo comprese, « Mi veniva da piangere e così sono salita, Dio solo sa
come abbia fatto. E lì c’era mia madre, Isobel. Sapevo che era lei, lo sapevo
dall’inizio, da quando l’avevo vista nel parco. Se l’avessi lasciata lì, se me
ne fossi davvero andata e se avessi permesso che Richard la uccidesse, la
portasse via da me per sempre, avrei perso ogni possibilità di conoscerla, di
sapere perché ha fatto quello che ha fatto, di sentire perché, perché avesse
preferito abbandonarci piuttosto che prendersi cura di noi. E perché non volevo,
non riuscivo a guardare mio padre negli occhi sapendo che per colpa mia era
stato costretto ad abbandonare quella che era la sua casa, » le raccontò
accorata, tentando di trattenere le lacrime. Suo padre avrebbe lasciato tutto
per lei e per Elena. Sarebbe anche morto pur di saperle al sicuro. Per lui
erano sempre venute prima loro rispetto a ogni altro bene. E per quello le
aveva lasciate nelle mani di Grayson e Miranda, sapendo che sarebbe stati
genitori migliori.
« E ne è valsa la pena? » domandò Finn facendole udire per
la prima volta la sua voce. Era lievemente roca, come quella di Klaus, ma di
una tonalità più baritonale. Nicole lo guardò. Come sua sorella, anche lui era
piuttosto dubbioso. La giovane quasi scosse il capo. No. Non era valsa la pena.
Sua madre era solo un’egoista e boriosa vampira che le aveva abbandonate per i
suoi capricci di bambina. Aveva persino lasciato suo marito, che aveva giurato
di amare con tutta se stessa, per divenire un vampiro. E poi si era presentata
alla porta di suo padre, di John, come per domandargli di accoglierla
nuovamente con sé. John l’amava, da sempre, dalla prima volta in cui l’aveva
vista con la divisa da cheerleader dell’High School del paese vicino. E Isobel
l’aveva usato per poi buttarlo via. Non l’aveva mai ricambiato e gli aveva
spezzato il cuore.
« Io penso… di dover andare, adesso,» sussurrò riprendendosi
da quel momento di puro dolore. Suo padre non meritava di aver sofferto a quel
modo per una come Isobel. Suo padre era un uomo buono e gentile, onesto e
sincero, « Avrete tanto di cui parlare e…,» si interruppe, sorridendo appena, e
guardando soprattutto Esther.
« Ti accompagno a casa,» mormorò Klaus quasi atono,
monocorde, come se lo sbigottimento precedente non fosse ancora passato. Mosse
un passo verso di lei e le vide scuotere gentilmente il capo, distendendo le
labbra in un sorriso più ampio e dolce.
« No, Klaus, non ce n’è bisogno. Rimani qui, con la tua
famiglia. È giusto che sia così,» esclamò delicata, guardando in quelle iridi
limpide che l’avevano stregata sin dal primo istante, sebbene non se ne fosse
resa conto prima. Klaus sorrise, sornione quasi, e scosse il capo.
« Permettimi almeno di accompagnarti alla porta,» enfatizzò
sereno, leggero e felice. Nicole annuì ed Esther fece un passo indietro verso
suo marito e sua figlia per lasciar passare Klaus. Rebekah le baciò gentilmente
la guancia e Nicole le sorrise dolcemente, come per ringraziarla di
quell’affetto. Camminarono verso la soglia a passo lento e calmo e Klaus si
chiuse la porta di casa alle spalle. Sembrava ansioso, come se avesse voluto
dirle qualcosa di estremamente importante, ma non trovava le parole giuste.
Nicole gli sorrise, incoraggiante e Klaus la strinse a sé, attirandola
cingendole la vita con un braccio mentre l’altra mano le sollevava il mento,
facendo quasi combaciare i loro volti, « Sei arrabbiata con me? » le domandò
preoccupato, guardandola a lungo negli occhi. Nicole sciolse il sorriso e quasi
chiuse i propri con un sospiro.
« Purtroppo no,» sussurrò abbandonandosi a lui. Klaus
avrebbe potuto fare di tutto e avrebbe sempre ricevuto il suo perdono perché
l’amore nei suoi confronti superava ogni altro bene. Schiuse gli occhi nel
sentirlo sobbalzare e lo guardò interrogativa.
« Purtroppo? Perché? » domandò quasi offeso da quella
risposta, come se avesse preferito che gli avesse detto di essere arrabbiata
con lui piuttosto che sentirla in colpa. Nicole sospirò ancora e posò le labbra
sulle sue in un casto e dolce bacio.
« Perché, se fossi arrabbiata con te, apparirei molto più
integra e morale agli occhi degli altri,» gli confessò quasi divertita prima
che Klaus la baciasse con più passione, facendole dimenticare ogni altra cosa
che non fosse lui.
« Spero che domani tu voglia parlarne con me,» sussurrò
quando si scostarono, dopo molti istanti. Nicole aveva le gote arrossate e lo
sguardo sognante, ma si riprese subito nel sentirlo così preoccupato per lei, «
So di non poterti essere di alcun aiuto adesso, ma vorrei che…»
« Grazie, Klaus,» lo interruppe con il cuore in gola per
l’emozione. Lui poteva aiutarla, molto di più rispetto a quello che avrebbe
potuto fare nessun altro perché Klaus l’amava, sebbene non l’avesse ancora
ammesso ad alta voce. Non le importava. L’avrebbe detto lei per entrambi, sino
a quando non ne fosse stato capace, « Adesso vai. Hai aspettato tanto questo
momento. Non voglio che si rovini per colpa mia,» mormorò ironica e divertita,
ridendo appena. Klaus scosse il capo, seriamente, con foga persino e l’attirò
maggiormente a sé.
« Sì, non preoccuparti. Sto bene,» gli assicurò, senza
mentirgli. Grazie a lui stava già molto meglio. Klaus annuì, soddisfatto, e
sciolse la presa permettendole di andar via.
Nicole sentì qualcosa vibrare nella tasca dei jeans di un blu chiaro che
indossava ed estrasse il telefono. Una foto di sua sorella sorridente, scattata
qualche anno prima appena lo zio John le aveva regalato quel telefono, le
rivolse uno sguardo dolce mentre Nicole tremava impercettibilmente. Klaus le
carezzò la guancia e le baciò la fronte prima di entrare in casa e lasciarla
sola sulla soglia. Aveva compreso che desiderava parlarle da sola, che, se
proprio doveva farlo, preferiva non avere nessuno dinanzi a sé per poter anche
solamente piangere. Rimase inchiodata lì, incurante che i fratelli e i genitori
di Klaus potessero udirla. Le gambe si rifiutavano di camminare e avanzare
verso la jeep. Accettò la chiamata e si portò il telefono all’orecchio. Sentì
sua sorella sospirare appena e comprese che per quella sera non aveva ancora
terminato di soffrire.
« Nicole, ciao. Tutto bene? » le domandò con la voce tremula
e lievemente rotta dalle lacrime che probabilmente stava trattenendo. Nicole
chiuse gli occhi e si sedette sullo stesso scalino di prima, sentendo quanto
male le procurasse quel tono.
« Perché quel tono, Elena? C’è qualcosa che dovrei sapere? »
le chiese. Voleva che fosse veloce. Chiuse gli occhi e si abbandonò alla
colonna di marmo bianco sulla sinistra. Elena sospirò nuovamente e sul viso
della giovane strega fluì una lacrima che inumidì la gota sin troppo pallida e
cerea.
« Damon te l’ha detto,» affermò monocorde. Nicole rise, lievemente,
e scosse il capo, abbracciandosi le ginocchia e raggomitolandosi come una
bambina.
« Elena, non avevo bisogno di sentirlo raccontare da Damon.
Io ero lì,» soffiò leggera, con un sorriso ironico sulle labbra esangui.
« Perché? Perché non ci hai detto nulla? Io ho pensato che…»
« Cosa hai pensato, Lena? » le domandò esasperata, issandosi
in piedi con un balzo felino. Aveva riacquistato le forze sentendo quelle
domande veloci e tristi.
« Io pensavo che fosse colpa mia, per quello che ti ho detto
quella notte,» le confessò piangente. Nicole poteva sentire i suoi sensi di
colpa anche attraverso quel gelido apparecchio e sorrise, più dolcemente, « Mi
dispiace tanto, Nicole. Sono stata una stupida e non avevo il diritto di dirti
quelle parole così sciocche. Io…,» si interruppe non sapendo come discolparsi e
Nicole scosse il capo. Non era colpa sua, non lo era mai stata e non l’aveva
mai pensato.
« Era la verità, Lena,» esclamò semplicemente, con le
lacrime agli occhi, « Mi stavo rovinando la vita per qualcosa che non ci
sarebbe dovuto nemmeno essere,» continuò quasi sbuffando. Da quando aveva
saputo che John era suo padre, da quando aveva saputo che le avevano mentito
per una vita intera, aveva sentito una collera immensa ribollire nelle sue
arterie, una collera inutile e insensata. Avrebbe potuto parlare, sfogarsi,
urlare, ma aveva trattenuto tutto dentro di sé, proprio come il giorno del
funerale di sua nonna.
John stava andando via, un’altra volta, triste come mai lo era stato.
Stava facendo le valigie nella loro camera degli ospiti e Nicole lo aveva
raggiunto a braccia conserte, un’espressione tremenda negli occhi. Era rabbia,
mista a vergogna e a sdegno. Aveva battuto il tacco, poco marcato, delle sue
decolté nere e John si era voltato di scatto. L’aveva guardata quasi impaurito
e tremante, ma Nicole non aveva ceduto nemmeno per un istante.
«
Nicole, tesoro mio,» la chiamò preoccupato, avanzando verso di lei. Nicole
rise, lievemente, con scherno e derisione, e scosse il capo per poi poggiarlo
sullo stipite della porta, inclinandolo come quello di una bambina curiosa. Nel
sentire la sua risata, John si arrestò sul posto, a un paio di metri da lei,
guardandola in quel modo supplice che l’avrebbe fatta sorridere dalla tenerezza
in una vita precedente.
« Non
sono il tuo tesoro, Jonathan, quindi non sforzarti a usare dei nomignoli
inutili,» esclamò lieve, carezzevole quasi, strafottente e caustica. La parte
più dolce, quella che perdurava a farla tremare dinanzi all’uomo che oramai
sapeva essere suo padre, odiò quel tono malizioso e saccente, detestevole, ma
era stata soffocata da quell’anima tradita e umiliata da quella verità
sconvolgente. John avanzò di altri tre passi, a un soffio da lei, con le
braccia che ricadevano lungo i fianchi fasciati dall’orlo della giacca di
elegante raso nero che aveva indossato per il funerale di sua madre.
«
Nicole, ti prego ascoltami,» cominciò ragionevole, sfiorandole le braccia. Come
scottata, Nicole lo scansò malamente e John, amareggiato, tornò alla sua
vecchia posa vedendo nei occhi limpidi, così tanto simili ai propri, v’era una
rabbia che non aveva mai scorto negli occhi di nessun altro.
« Non ho
bisogno di alcuna spiegazione,» soffiò irata, assottigliando lo sguardo
ceruleo. John sobbalzò per quel tono, « Le carte parlano da sole. Tu non ci hai
volute, siamo state un errore e ci hai scaricato all’unica persona che voleva
davvero avere un bambino,» sputò quelle parole con sdegno e risentimento, le
lacrime che premevano agli angoli degli occhi, ma che, fieramente, ricacciò
indietro. John la guardò e nuovamente le sfiorò le braccia. Quella volta Nicole
non si scansò, ma un’espressione di puro disgusto le increspò le labbra sottili
ed esangui.
«
Nicole, non dire così,» la pregò duramente.
« Non
osare toccarmi,» quasi sibilò indispettita. Non aveva alcun diritto di parlarle
in quel modo, di guardarla come se fosse la più bella tra le creature, come se
l’entità più magnifica e pura. Lui era suo padre, ma non aveva esitato un
secondo a tradirla, a volgerle le spalle e ad abbandonarla. E Nicole lo odiava
per quello, « Non ho bisogno della tua stupida pietà.» John quasi soffiò per
quel tono così indisponente. Se solo l’avesse ascoltato, avrebbe capito che la
sua non era pietà o commiserazione, o compassione. Il suo era amore, amore
infinito nei confronti di quella splendida giovane donna ferita e tradita nel
peggiore dei modi, « Ho dovuto scoprirlo da me. Per tutti questi anni io...,»
si interruppe, stringendo i pugni e cominciando a percuotergli il petto. Le
lacrime oramai fluivano senza posa sulle sue gote arrossate dalla vergogna e
John la lasciò fare. Se voleva colpirlo, era libera di farlo. Se voleva fargli
del male, ne aveva il diritto. Mirava al cuore, Nicole, mirava a quel cuore che
credeva essere di pietra. Chi mai avrebbe
potuto guardare sua figlia da lontano senza far nulla per averla con sé?
Solamente un insensibile, gelido, imperturbabile, muro di cemento armato.
Quella consapevolezza la impetri. Smise di colpirlo e le gambe non ressero più
il suo peso. Si piegarono e per un istante pensò che si sarebbe trovata in
ginocchio dinanzi a quel muro, ma John si animò e la sorresse, cingendole la
vita con un braccio mentre l’altro ancora ricadeva lungo il fianco, come se
volesse sfiorarla il meno possibile. Le lacrime smisero di inumidirle le guance
e spalancò gli occhi prima di liberarsi della sua presa e arretrare di un
passo, « Vai al diavolo, John, davvero. Ti odio, ti odio con tutto il mio cuore,»
gli sputò quelle parole con rabbia, risentimento e dolore infinito. John chinò
il capo per un attimo, turbato da quell’odio che proveniva da quelle labbra
così dolci e pure. Era solo una bambina, non poteva provare tutto quell’odio.
«
Nicole, bambina mia, calmati,» le sussurrò dolcemente. Nicole lo guardò,
sorpresa per un attimo, mostrandogli il suo cuore ferito e immensamente
candido, poi scosse il capo e la sua espressione divenne di pietra.
«
Bambina mia? Come osi chiamarmi così dopo tutto quello che hai fatto? Io non
sono la tua bambina, non sono la bambina di nessuno. Mi avete tradito tutti
quanti, mi avete pugnalato alle spalle,» quasi urlò incollerita come solo una
donna tradita poteva essere. John le carezzò la guancia, attento e accorto, non
volendo ricevere un altro rifiuto. Non l’avrebbe potuto sopportare, non da
parte di quella bambina che l’aveva sempre adorato come un secondo padre. John
era cosciente che Nicole provava per lui un affetto così grande e puro da
potergli riempire il cuore. Elena non era mai stata affettuosa, con lui, come
Nicole.
« Ti
capisco, Nicole,» sussurrò dolcemente, paterno, continuando a sfiorarle la gota
inumidita con delicatezza.
« Non è
vero,» contestò meno arrabbiata. Quel tocco infantile la stava calmando, o
forse doveva sembrarle talmente patetico in quel tentativo di riconciliazione
da farle provare pietà per lui. Non gli importava. Era sempre stato patetico.
Avrebbe accettato di tutto pur di essere al fianco di quella figlia che aveva
sempre desiderato.
«
Invece sì. Tesoro, io so che adesso mi odi, che adesso sei arrabbiata con il
mondo intero, ma io ti amo così tanto,» le confessò accorato, prendendole il
volto tra le mani.
« Mi
ami? » gli domandò incredula, con il cuore che batteva come quello di un
colibrì. John sorrise e annuì. Era vero. Amava Nicole ed Elena a tal punto che
avrebbe dato la vita per loro. Nicole lo guardò, tremante, per un solo istante,
poi la rabbia riaffiorò e scosse il capo con foga, liberandosi da quella
stretta, « Non è vero, non ti credo. Tu non mi ami, così come non mi amano
Grayson e Miranda, così come non mi amano la nonna e Tyler. Mi avete
abbandonata, tutti, e mi sento così tradita che…,» si interruppe mentre gli
vedeva volgere le spalle e avanzare velocemente verso la valigia. La chiuse con
un tonfo fragoroso, ma Nicole poté udire perfettamente un singhiozzo provenire
dalle sue labbra sottili. Le spalle gli si incurvarono verso il basso prima che
prendesse il bagaglio color della notte. Nicole sgranò gli occhi, confusa. Lei
gli stava parlando, gli stava aprendo il suo cuore e lui le aveva, ancora una
volta, voltato le spalle, per mostrare che anche un muro di pietra poteva
soffrire, che anche una roccia fredda poteva sgretolarsi dinanzi al dolore per
piangere lacrime di rugiada, « Che diavolo stai facendo? » gli domandò con la
voce arrochita dalla collera. John si volse, mostrandole le lacrime che gli
stavano inumidendo le gote abbronzate, e poi avanzò verso di lei.
« Sto
andando via, Nicole, e non tornerò sino a quando tu non mi vorrai. Sto andando
via perché so che ti fa male vedermi qui, nella tua casa, con i tuoi veri
genitori. Ti hanno cresciuta, con amore infinito, e sapere che io sono il tuo
padre biologico non deve cambiare nulla per te. Io sono tuo zio, non tuo padre.
Nel tuo cuore,» sussurrò abbattuto, ferito, sconfitto prima di sfiorarle il
cuore sopra il cotone del suo abito nero e semplice, un tubino senza scollatura
e lungo sino al ginocchio.
« Se
davvero vuoi abbandonarmi un’altra volta, non tornare mai più e soprattutto
brucia quelle carte di adozione,» esclamò con rabbia e risentimento, la voce
più acuta e disgustata, « Io non voglio che mia sorella, che Elena, possa un
giorno venire a conoscenza di questa… di questo evento,» si bloccò. Avrebbe voluto
dire che era un’infamia, ma era davvero troppo esagerato, «Ne morirebbe,» gli
sibilò prima di girare i tacchi e avanzare verso la camera che condivideva con
sua sorella. Prima che potesse udire nuovamente la voce di suo padre, chiuse a
chiave la porta alle spalle e si lasciò cadere contro il muro. Si asciugò
quelle lacrime che rischiavano di fluire sulle guance, ferendosi gli zigomi. Si
ripromise che non avrebbe più pianto per lui, per quell’uomo che stava
scendendo le scale di casa sua e la stava abbandonando. Un’altra volta. Per
sempre.
« Ero così arrabbiata, sorellina, con tutti,» mormorò
riaffiorando da quel mare di ricordi confusi che le avevano occupato la mente
per un solo istante, « Con Grayson e Miranda perché ci avevano mentito, con
John che ci aveva abbandonate, con la nonna perché era morta e mi aveva
lasciata da sola, persino con te perché tu non sapevi nulla e continuavi la tua
vita senza conoscere la realtà. Quindi sì, Elena, mi stavo rovinando la vita e
stavo portando Jeremy nel baratro con me. Non avrei mai dovuto farlo entrare
nel gruppo, non avrei mai dovuto permettergli di fumare e bere, non avrei mai
dovuto permettere…»
« Basta, ti prego, smettila,» la interruppe. Stava piangendo,
lo poteva percepire dalla sua voce rotta e tremula, da quel tono supplicante
che mai, mai le aveva sentito adoperare. Nicole chiuse gli occhi e si portò una
mano alla tempia. Non avrebbe voluto che piangesse, non sua sorella, non quella
splendida ragazza dal cuore grande e puro. Non meritava tanta afflizione nella
sua vita, « Per favore,» la pregò supplice come se dovesse ricevere la
redenzione da un’entità superiore, « Fa già abbastanza male sapere che… che tu,
la mia splendida, meravigliosa sorella, quella roccia che non avrebbe mai
potuto essere scalfita da nulla e allo stesso tempo quell’eterno simulacro di
innocenza e ingenuità, sia stata…,» si interruppe costernata. Non voleva
continuare, non poteva esprimere ad alta voce ciò che le avevano fatto. Era
impensabile per lei. Nicole sorrise, dolcemente e notò che v’era qualcuno
poggiato sulla soglia. Con la coda dell’occhio si accorse che era Rebekah
pronta darle il proprio supporto. La vide avanzare verso di lei e si sentì
cingere le spalle.
« Dillo, Elena. Coraggio,» la spronò delicata. Voleva
sentirlo da lei, voleva spezzare quel tabù. Solo così avrebbero potuto
continuare la loro vita, senza rimorsi e rimpianti. Solo così avrebbero potuto
superare quell’ostacolo ostico che le aveva divise. Era un sacrilegio dividere
due gemelle, ma nessuno se ne era curato, « Che cosa mi hanno fatto?» Elena
sospirò, ma comprese che quella doveva essere anche la sua volontà.
« Ti hanno torturata perché sei una strega,» sussurrò a
fatica, monocorde, cadaverica, come se quella verità le avesse tolto ogni forza
e non fosse più in grado di reagire, « E se non ci fosse stato nostro padre, ti
avrebbero bruciata viva,» aggiunse con più sentimento. Per la prima volta,
almeno dinanzi a lei, aveva detto nostro padre, non lo zio John, e a Nicole
quello non sfuggì. Sorrise dolcemente e appoggiò il capo sulla spalla di
Rebekah. Profumava di rose e cannella, Rebekah, e quella fragranza le piaceva
molto. Era delicata e dolce, mostrava la parte più umana, « E hanno avuto persino
il coraggio di scriverlo. Con quel tono formale che mi ha messo i brividi, che
ha messo i brividi persino a Damon,» esclamò incredula dinanzi a quella
crudeltà. Piangeva a dirotto, oramai, e il cuore di Nicole era stretto in una
morsa di puro dolore nel sapere che quella sofferenza non doveva essere
presente nel suo animo fiero e indomito.
« Ti prego, Lena, non piangere. Io… sto bene. È passato, è
tutto passato, e non posso sentirti così triste.»
« Ha ragione, Elena. Calmati, ora,» sussurrò una voce
maschile e dolce. La riconobbe subito. Era Matt, il suo più caro amico.
Aggrottò le sopracciglia dorate e Rebekah quasi sbuffò. Probabilmente stava
pensando che a Elena non bastavano i due fratelli Salvatore.
« Matt?» domandò incredula.
« Sì. Rick è stato attaccato in casa nostra, abbiamo dovuto
portarlo in ospedale e Matt non mi ha voluta lasciare sola,» le raccontò
velocemente, preoccupata per l’uomo. Nicole annuì e si trattenne dal chiedere
cosa fosse successo ad Alaric. Non credeva di poter sopportare altro per quella
sera, e nemmeno Elena.
« Ringrazialo da parte mia. Ascoltami, Elena. Io voglio che
tu smetta di piangere, smetta di soffrire e smetta di essere arrabbiata,» le
ordinò categorica e risoluta, ma sempre dolce e leggera. Sentì Elena sbuffare e
la sua opposizione non si fece attendere che un paio di istanti.
« Come faccio? Ti ho lasciata andare quella notte, per
l’amor del cielo. Se fossi rimasta con te, se non fossi stata così dannatamente
stupida, non ti sarebbe successo nulla. E invece continuavo a dirti quelle
parole che io… Oh Nicole, oh cara, potrai mai perdonarmi?» le domandò incerta
di meritare davvero il suo perdono. Nicole sorrise e scosse il capo,
esasperata. Non avrebbe mai voluto che loro lo sapessero proprio per quel
motivo.
« Non è colpa tua, tesoro. Non devi pensarci nemmeno. Ti
voglio così bene, Lena,» la rassicurò blanda e dolce.
« Anch’io,» ricambiò più sollevata e felice.
« Puoi promettermi una cosa, Lena? Non dirlo a Jeremy.
Qualunque cosa succeda, per favore, non dirlo al nostro fratellino.»
« Non sono io a doverglielo dire, Cole. Sei tu. Quando sarai
pronta,» le mormorò percependo l’avvento di un’opposizione. Nicole non voleva
raccontarlo anche Jeremy. La reazione di suo fratello sarebbe stata terribile
da sopportare, lo sapeva. Jeremy le proteggeva sempre, a ogni costo, ed era
così sensibile che quella verità l’avrebbe scosso nel profondo, « Damon ha
bruciato quel… quel racconto. L’ho visto con i miei occhi.»
« Grazie, sorellina. Trascorri la notte in ospedale?»
« Penso… penso di sì. Almeno sino a quando Rick non si sarà
ripreso. Tu? Dove sei?»
« Andrò a casa della nonna, non preoccuparti. Ah, Elena,
un’ultima cosa,» si ricordò alzando di poco il tono. Il racconto di Stefan le
aveva fatto riaffiorare alla mente quale fosse la situazione a casa loro. I
sensi di colpa di sua sorella, quel desiderio di perdurare a inseguire la
ragazza che era stata prima dell’incidente stavano facendo perdere di vista a
Elena il vero significato della sua esistenza. Suo padre, sia Grayson che John,
si erano sacrificati per lei, per donarle la vita ed Elena la stava buttando
via. Elena si stava buttando via.
« Dimmi,» mormorò gentilmente quando non la sentì parlare.
« Quando ero nel mio periodo oscuro, ho avuto modo di comprendere
una cosa che mi ha fatto davvero crescere. Forse è meglio che la dica anche a
te. Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere.»