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Autore: _vally_    16/01/2007    14 recensioni
House e la sua equipe alle prese con uno stranissimo caso, ma strano è anche quello che sta succedendo al Plaisboro. Cosa è successo tra Wilson e la Cuddy? Perchè Chase si comporta in modo così insolito? E House, che continua a provocare Cameron...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 18

 

31 gennaio, h 20.10

Ufficio di House

 

Non si era calmato, ma tra uno strano pensiero e l’altro era riuscito a mettere insieme qualcosa che assomigliava a una soluzione. Ora veniva quel momento del suo lavoro che adorava: stupire la sua equipe, e qualunque altro spettatore fosse disponibile, con il racconto di come è arrivato alla diagnosi, fingendo che sia stata la cosa più semplice e naturale del mondo.

Temeva che questa volta però non sarebbe apparso così sicuro di sé: aveva ancora dei dubbi, e la diagnosi non era tutta sua…era stata Cameron la prima a parlare di parassiti.

Ma almeno ora sapeva da che parte incominciare ad agire.

Gli venne da sorridere: lei era veramente in gamba per essere così giovane e, cosa più importante, aveva quella giusta dose di umiltà e determinazione che le permettevano di imparare in fretta.

Era testarda, e vinceva.

Anche con lui aveva vinto.

Questo non significava che fosse stato lui a perdere, anzi…

Aveva ragione Wilson, non era una guerra.

L’ingresso di Cameron, seguita dagli altri due medici, lo distolse dai suoi pensieri.

Le sorrise.

Cameron non riconobbe in quel sorriso la solita ironia o la solita sfida. Era solo un sorriso dolce e sincero. Le venne volta di buttargli le braccia al collo, ma non era di certo il momento né il luogo. Era sicura che ci sarebbe stato tempo per tutto.

“Hai avuto l’illuminazione?” chiese Foreman.

“Certo, senza voi attorno i dilemmi si risolvono da soli nella mia testa.”

“Mi chiedo cosa ci hai assunto a fare…” replicò Chase.

“Una sorta di passatempo per rendere il lavoro più leggero.”

“Gentile come sempre…Elliot?” Chase si avvicinò alla finestra e aprì le persiane,

Il ragazzino era seduto per terra e stava leggendo il grosso libro che avevano utilizzato per identificare quel parassita.

“Mi ha chiesto qualcosa da leggere…speravo di scoraggiarlo, invece pare che gli piaccia. Dopo lo interrogo. Se ha imparato quello che sta leggendo, lo assumo al posto tuo. Io e un ragazzino prodigio, insieme, potremmo dominare il mondo!”

“Certo, due manipolatori sono più forti di uno.” mormorò Chase.

“Geloso?”

Chase scosse la testa, non sarebbe mai riuscito ad avere l’ultima parola col suo capo. “Allora, cos’hai scoperto?” cambiò discorso.

“Ho scoperto che la chiave di questo caso è la placenta.”

“Cioè?” chiese impaziente Foreman.

Cameron era appoggiata con la schiena alla parete e non aveva perso un solo movimento di House, seguendolo con lo sguardo in ogni suo gesto. Lui se ne accorse e quell’attenzione lo mise un po’ a disagio. Cercò di evitare il suo sguardo per concentrarsi solo sulla diagnosi.

“Credo che la Pivet, così come il moccioso e sicuramente qualche altro barbone satanista, avessero la cattiva abitudine di cibarsi di tanto in tanto di quella roba.”

“Potrebbe essere a causa di quello strano culto che seguono. Fanno parte di una specie di setta, no?” Cameron fece quella domanda futile con il solo scopo di avere lo sguardo di House su di lei per qualche istante. Ne aveva bisogno.

Non riuscì ad ottenere quello che voleva, lui continuò a parlare passando rapidamente dalla lavagna a Chese e Foreman, evitandola.

“Si, ma non ci interessa il motivo. Di solito si cibano di placenta di bambini nati a termine, ma qualche mese fa è capitato che una donna di strada, del loro giro, ha abortito spontaneamente.”

“Davvero?” chiese stupito Foreman.

“Sto ipotizzando…ci vuole un po’ di fantasia! Dicevo…” sentiva bruciare lo sguardo di Cameron su di lui. “Elliot e la Pivet mangiano questa placenta, che contiene il nostro caro animaletto di pagina 2.149.”

Foreman tentava di seguire il ragionamento del suo capo, la fronte aggrottata. Era impaziente di arrivare alla fine, dove si smetteva di parlare e si agiva.

“Il parassita trova un buon nascondiglio nel cervello: un’area cicatrizzata, delle cellule morte che lo possono ospitare nell’attesa che le uova si schiudano e arrivi la cavalleria.”

“Ma quale sarebbe l’origine della cicatrizzazione?” Foreman incominciava a capire, ma voleva assicurarsi che non gli sfuggisse niente.

“Quello me lo devi dire tu! Ci sono difetti genetici che possono provocare questo tipo di cicatrizzazioni nel cervello?”

“Si certo. Ma mi sembra improbabile che si sia formata nella stessa area in entrambi…”

“Ma essendo madre e figlio, qualche probabilità c’è.”

“Si, può essere, ma…”

“Mi basta il può essere.” gli fece cenno di smettere di parlare “Quindi il giovane parassita appena emigrato…chiamiamolo RinTinTin per la sua intelligenza acuta ma limitata in quanto animale, se ne sta buono buono nel lobo temporale, mentre il flusso sanguigno si addensa. Ma questo non allarma nessuno.”

Cuddy e Wilson avevano raggiunto l’equipe e, in rispettoso silenzio, ascoltavano House descrivere la sua fantasiosa teoria. Fantasiosa, ma con quella sfumatura di realismo e possibilità che ti impediva di smettere di seguire affascinato il suo delirio.

“Quando le uova si schiudono, e incominciano ad arrivare i rinforzi, RinTinTin incomincia a muoversi, per raggiungere il resto della squadra, seminata per il cervello. In Elliot si è mosso verso la corteccia motoria e, per sua fortuna, si è fermato lì.”

“E perché si è fermato?” Wilson osservava l’amico, come si illuminava quando aveva tra le mani la sua diagnosi, la sua adorata diagnosi. Teneva il braccio attorno alle spalle di Lisa, che ancora molto scossa, si era abbandonata a quell’abbraccio fregandosene di quello che potevano pensare di lei, di loro. Era un suo diritto essere coccolata ed amata, era una donna prima di essere l’amministratrice di quell’ospedale. Era una donna che soffriva, e aveva bisogno di un uomo. Indipendentemente da tutto, era Lisa Cuddy e aveva bisogno di Wilson. Dagli occhi con cui l’oncologo la guardava, si capiva che era ricambiata dello stesso dolce sentimento.

“Si è fermato perché Elliot non ha più mangiato quella placenta. La Pivet si però, lei ha una casa, un frigorifero, l’avrà conservata…”

Un’espressione disgustata si fece largo sul volto di tutti i presenti.

House provava sempre un sottile piacere a impressionare le persone, sia in positivo che in negativo. Anzi, forse in negativo gli piaceva ancora di più: quelle facce disgustate gli fecero piacere. “Che razza di pervertito che sono!” pensò, in realtà orgoglioso di se stesso.

“La colonia nel cervello di Elliot non si è ulteriormente moltiplicata, perché gli è mancato il cibo. Sono parassiti che nascono e si moltiplicano nella placenta, nutrendosi di sostanze contenute in essa, che nel nostro organismo sono contenute a livelli troppo bassi.”

“Quali sostanze?” chiese Chase.

“Ma la smetti di rompere?! Non so di che sostanze sto parlando, però è andata così.”

Chase fece spallucce, mentre la Cuddy si passava una mano sulla fronte: se non avesse conosciuto House, sentir parlare così un medico sarebbe bastato a farglielo licenziare in tronco.

“Quindi Elliot rimane con un braccio paralizzato, ma non peggiora. Sua madre invece continua a cibarsi della placenta infetta, permettendo a RinTinTin a ai suoi figli, nipoti e cugini, di nutrirsi, di crescere e moltiplicarsi, continuando ad andare a spasso, in questo caso per il cervelletto.”

“Perché la corteccia motoria in Elliot e il cervelletto nella Pivet?” chiese Foreman.

“Non lo so.”

I medici si guardarono perplessi.

“E perché la Pivet è migliorata tanto da tornare a camminare e poi è peggiorata ancora?”

“Questa domanda è decisamente più interessante!” disse House entusiasta. “Credo che la Pivet quella notte non sia semplicemente migliorata, ma sia guarita del tutto.”

Foreman spalancò gli occhi, incredulo. “Dici che l’abbiamo curata in qualche modo e poi si è riammalata quand’era fuori di qui?!”

“No.” House si spostò verso la porta finestra, la aprì, e fece cenno ad Elliot di entrare.

“Questo piccolo genietto l’ha curata, facendole mangiare della placenta non infetta che, evidentemente, contiene anticorpi che possono distruggere RinTinTin, e così è stato.”

Tutti guardarono Elliot, con un misto di timore e ammirazione. Era davvero un bambino curioso.

“Non credo sapesse cosa stava facendo…” disse Foreman; l’idea che un ragazzino di 12 anni conoscesse la cura per un disturbo che gli aveva impegnati per giorni senza farli nemmeno avvicinare alla soluzione, lo irritava terribilmente. “Se avesse saputo che bastava della placenta non infetta a curare la madre, si sarebbe curato anche lui.”

“Già..” disse House, sorridendo al ragazzino, che lo guardava diffidente.

Appena Elliot si volse verso Chase, del quale cercava lo sguardo appena poteva, House lo afferrò per il braccio sano, torcendoglielo dietro la schiena. Gli spinse poi il bastone sulla gola, tentando di soffocarlo.

Tutti i medici accennarono un passo verso di loro, spaventati dal comportamento del diagnosta, ma si bloccarono non appena fu Elliot, da solo, a liberarsi da quella presa, separando con forza il bastone dal suo collo…usando il braccio paralizzato. Evidentemente non lo era più.

Sguardi confusi passarono ripetutamente dal ragazzino ad House, che aveva una nota espressione di vittoria sul volto.

Elliot ansimava, cercando di recuperare l’ossigeno che gli era mancato per qualche secondo.

“Evidentemente le sue doti di abile ipnotizzatore non erano sufficienti per convincerti a portarlo qui in ospedale.” spiegò House, rivolto a Chase, che sembrava sconvolto. “Serviva anche un elemento che interessasse a noi, come un sintomo in comune con la madre. Mamma e figlio avevano un piano d’emergenza.” si rivolse al ragazzino. “La tua capacità di osservare ti ha permesso di capire che era nella placenta la soluzione del disturbo di tua madre, e del tuo. Tua mamma è però meno furba di te, e appena è tornata a casa ha fatto colazione con gli avanzi congelati della placenta infetta, e si è ammalata ancora.”

Elliot lo guardava ancora ansimando, senza accennare nessun movimento. Era sicuro che, se avesse fatto qualche mossa falsa, quel dottore psicopatico non avrebbe esitato questa volta a soffocarlo veramente.

“Ma…ora che facciamo? Basta farle mangiare della placenta non infetta per farla guarire?” chiese Cameron, confusa.

“Con la paziente in questo stato non ne sono sicuro, ma probabilmente si.” finalmente posò lo sguardo su di lei.

 

Dio, com’era bella.

 

“Non è una pratica medica consona…” tentò di protestare la Cuddy, sicura che sarebbe stata brutalmente interrotta dal diagnosta.

“Hai ragione, non si può fare.” disse invece lui “Non mi permetterei mai di evadere qualche regola del Plaisboro, temo troppo la tua ira vendicativa.”

“Ma finiscila…” Cuddy capì che aveva in mente qualcosa.

“No, davvero! Magari mangiare la placenta la salverebbe, o magari no. Ma anche se la salvasse…noi non conosceremmo comunque l’azione del parassita. Insomma, come fa a provocare quei sintomi, fino alla paralisi?”

“House quella donna sta morendo, se c’è una cosa che può salvarla…” Chase trovava inconcepibile che il bisogno di sapere del suo capo venisse prima della vita di quella donna.

“Non la ucciderò.”

“Deve darle quella placenta!” urlò Elliot improvvisamente, scagliandosi contro di lui.

“Deve dargliela subito! Non può farla morire per la sua sete di conoscenza!” Elliot incominciò a prendere a pugni House, che tentava di tenerlo fermo come poteva. Foreman e Chase intervennero per aiutarlo, mentre gli altri li guardavano disorientati. Quel bambino passava da uno stato di calma e tranquillità che sfioravano l’apatia a quegli attacchi violenti con una velocità strabiliante.

A fatica lo separarono da House. Continuava a dimenarsi, con sempre più violenza. Era difficile tenerlo fermo anche per due uomini forti come loro.

Dopo un minuto abbondante si bloccò di colpo; Chase e Foreman si guardarono perplessi, senza lasciare la presa.

“Se continui a urlare così darai nell’occhio…” disse House, verbalizzando le sue paure. “Ma ormai credo che neanche lo stare tranquillo ti eviterà l’istituto.”

Chase osservò grave il suo capo. Nonostante tutto quello che aveva combinato quel giorno, sentiva per quel ragazzino ancora una forma di affetto, che gli impediva di tradirlo così. “Aspettiamo a prendere decisioni affrettate, House.”

“Di quello che bisogna fare col ragazzo me ne occupo io.” disse decisa la Cuddy. “Ora però voglio che guarite quella donna, il prima possibile. Non mi interessa che metodi userete, ma la voglio fuori da qui. Capito House?”

Lui annuì, apparentemente docile.

La Cuddy sapeva che avrebbe fatto comunque tutti i suoi test per scoprire cos’aveva la Pivet, era inutile combattere con la sua sete di sapere. Gli si avvicinò di qualche passo, per non farsi sentire da Elliot. “Almeno non farla morire.” gli sussurrò.

 House si baciò le dita incrociate. “Promesso mamma.”

“Cosa ne facciamo di lui? Chiamo la polizia…”

“No aspetta. Potrebbe tornarci ancora utile, il suo cervello è guarito.”

“House…”

“Dobbiamo aspettare la mezzanotte! Non vorrai rompere quel patto…”

Lei sospirò. “E va bene, ma intanto?”

House guardò Chase. Era un idiota: quel bambino aveva tentato di manipolarlo e l’aveva pure picchiato. Come faceva a tormentarsi ancora per quella stupida promessa? Elliot gli stava ancora a cuore, era preoccupato per la fine che avrebbe fatto. Che razza di…

Incrociò lo sguardo di Cameron, che lesse in lui tutto il disprezzo per il collega. La dottoressa si avvicinò ai suoi capi. “House, lascialo un po’ di tempo con Chase.”

“Perché?”

“Perché non farà nulla, ormai non tenterà più di avvicinare sua madre, né scapperà.”

“Rischia di finire in istituto, certo che scapperà.” disse la Cuddy.

“No, ha ragione Cameron. Non proverà più ad avvicinarla, e non sparirà. Ha ancora paura che io non la curi in fretta, rischierà l’orfanotrofio piuttosto di farmela ammazzare. Che cosa scomoda l’amore filiale.” si girò verso Chase. “Occupati tu di Elliot, però lo voglio lontano da me.”

Il medico lo guardò sorpreso, non si aspettava certo che lo affidassero a lui. Nello stesso tempo era contento, e non si riusciva a spiegarselo: quel ragazzino era un vero bastardo.

Anche Foreman sembrava perplesso, ma in quel momento la paziente gli interessava decisamente più del bambino, ormai guarito, e non vedeva l’ora di poter decidere con House cosa fare con la Pivet.

“Va bene.” rispose Chase dopo qualche secondo di esitazione.

“Fuori di qui.” ordinò House, rivolto a tutti e due.

Elliot si avvicinò a testa bassa a Chase, e insieme lasciarono la sala equipe.

“Che facciamo con la Pivet?” chiese Foreman, irrequieto.

“Sei proprio un insensibile! Non ti importa proprio niente di quel povero ragazzino, né del tuo patetico collega in preda ai sensi di colpa.” lo prese in giro House.

“Se quella donna muore il ragazzino si metterà a piangere e Chase si fustigherà. Lo faccio per loro.”

House sorrise, quel cinismo tra le labbra del suo neurologo era musica per le sue orecchie. “Falle un esame istologico alla materia grigia. Dobbiamo trovare l’anomalia specifica che provoca le paralisi e i disturbi motori. Fai in fretta, non vorrei morisse mentre aspettiamo i risultati. Cameron, tu analizza il campione di placenta rimasto. Voglio sapere tutto ciò che contiene. Tutto.”

I due medici uscirono rapidamente dalla stanza.

 

Quando furono lontani, House si voltò verso Wilson. “Sono nella merda fino al collo.” gli disse in un soffio.

La Cuddy lo osservò stringendogli occhi, come per studiarlo, cercando di capire a cosa si riferisse. Conosceva almeno una dozzina di motivi per cui House poteva essere nella merda fino al collo.

Wilson scosse la testa, sorridendo. “Te la caverai.”

“Se non fosse per lei avrei risolto questo caso ore fa. Mi distrae, mi impedisce di pensare.”

“Non è colpa sua, è tua. Se ti rilassassi e accettassi i tuoi sentimenti senza andare in panico, non interferirebbero più col tuo lavoro.”

Cuddy guardò il diagnosta con meraviglia.

“Cameron?” chiese, divertita.

“Tu stai zitta per favore.”

Le venne da ridere, vedere House così agitato era uno spettacolo davvero insolito.

“Non sopporto l’idea che sia stata a letto con Chase.”

A Lisa venne in mente un ricordo, di tanti anni fa. Un medico arrivato da poco aveva offerto un caffè a Stacy, mentre lei stava aspettando che House finisse di lavorare. Era sempre così: lui non aveva orari, ma lei passava sempre in ospedale dopo il lavoro, e c’era sempre un sorriso per lui quando finalmente la raggiungeva. Stacy aveva accettato con piacere quel caffè, e aveva parlato un po’ con quell’uomo, per passare il tempo. Quando House l’aveva saputo, non le aveva quasi rivolto la parola per giorni. La sua forte gelosia era in contraddizione con l’indifferenza e la freddezza con cui trattava di solito le persone, anche le sue donne. Ne sapeva qualcosa.

“Sei geloso, è normale.” provò a dirgli la Cuddy.

Lui si voltò verso di lei. “E’ normale?!” chiese irritato.

“Si, tu eri geloso di Stacy. Sei geloso delle persone che ami.”

Wilson osservava l’amico con un mezzo sorriso, la spalla appoggiata alla porta. Se avesse provato a fuggire, gliel’avrebbe impedito. Doveva affrontare il discorso, o si sarebbe portato avanti questa storia per giorni, forse settimane, senza concludere niente.

“Io non amo nessuno. A parte Steve.” Cuddy lo guardò perplesso. “Il mio topo!” precisò lui.

“Smettila di fare il bambino House, sei un uomo e sono anni che sei solo.” Lisa gli parlava decisa, le braccia incrociate, come faceva quando sapeva di avere ragione. “Cameron ti adora. E’ bella, dolce e anche forte. Ha un tipo di forza che tu non conosci, ma sai che ce l’ha. Sei attratto da lei dal giorno che l’hai assunta, e l’unico motivo per cui non te la sei ancora portata a letto è che non si tratta di semplice attrazione sessuale.” House fissava il suo capo, senza avere il coraggio di fermarla. Era impressionante come fosse tutto così semplice e lineare visto dall’esterno. “Hai paura che ti coinvolga troppo.”

“Quand’è che siamo diventati così intimi noi?” le chiese ironico, incrociando a sua volta le braccia.

“Quando sei venuto a casa mia, distrutto, dopo che Stacy ti aveva lasciato. O quando siamo stati a letto insieme…” rispose lei, con quel tono di sfida che lui conosceva bene.

“Ma l’hai addestrata tu a mettermi in difficoltà?!” House si rivolse a Wilson; di solito era lui a sbattergli in faccia la verità quando mentiva a se stesso.

“No, House. E’ talmente palese che se ne accorgono tutti. Va’ da Allison, stai un po’ con lei. Viviti qualche momento di gioia, rinuncia al tuo masochismo per una volta. Magari ci prendi gusto.”

House aveva almeno un centinaio di battute sarcastiche con sui distruggere l’atmosfera imbarazzante che pesava su di lui in quel momento. Ma alla fine aveva davanti gli unici due amici degni di quell’appellativo, gli unici che aveva accettato e che lo accettavano. Forse avevano ragione, forse era ora che smettesse di distruggersi. Stacy l’aveva lasciato per…

“Stacy ti ha lasciato per colpa tua, House.” era la prima volta che qualcuno diceva ad alta voce questa terribile verità che lo tormentava da anni, e fu contento che fu il suo migliore amico a farlo. “Ti sei fatto del male e ne hai fatto a lei. Non ha senso continuare così, sono passati tanti anni…Cerca di perdonartelo e concediti un po’ di felicità.”

“E concedila anche a quella povera ragazza.” continuò la Cuddy. “Cameron ti vuole bene, e sa di essere ricambiata. Che senso ha tenerla così lontana da te?”

“Sapete che insieme le vostre peggiori caratteristiche non si sommano? Si moltiplicano! Saranno tempi duri per me ora che incomincerete a fare coppia fissa!” House gli avrebbe abbracciati, se fosse stato in grado di avere un gesto d’affetto per qualcuno che non fosse il suo topo.“Ritenetevi responsabili di qualunque stronzata che farò.”

“Va bene.” risposero entrambi. Lisa sorrideva, ma House notò quell’ombra dei suoi occhi.

“Cuddy.” la chiamò quando erano entrambi sulla porta, pronti a lasciarlo un po’ solo coi suoi tormentati pensieri.

Lei si voltò.

“Mi dispiace per tuo papà.” le disse, senza riuscire però a reggere il suo sguardo.Gli faceva paura leggere una sofferenza così grande in una persona così vicina a lui.

“Grazie.” si limitò a dire lei.

Poi entrambi si allontanarono, camminando vicini, con quella complicità che li avrebbe uniti a lungo, forse per sempre.

 

31 gennaio, h 23.15

Parcheggio del Princeton Plaisboro Teaching Hospital

 

Avevano risolto il caso.

 

Cameron aveva trovato gli anticorpi che bloccavano la riproduzione del parassita nella placenta sana, gli avevano somministrati alla Pivet e sembrava stesse funzionando. Ovviamente non avrebbero avuto risultati certi se non tra qualche ora, ma era già scomparsa la labirintite e House era sicuro che tra poco la donna avrebbe ricominciato a respirare da sola.

Non aveva ancora capito precisamente come agiva il parassita, ma c’era il campione prelevato con l’esame istologico, e avrebbe avuto i prossimi giorni per fare tutti gli esami che voleva. Sapeva che non sarebbe stato solo in quell’inutile ricerca della verità: Foreman era curioso quanto lui, e avrebbero svolto in silenziosa compagnia tutti i test, arrivando poi alla soluzione di quell’enigma e accorgendosi, ancora inesorabilmente insieme, che non aveva più la minima importanza.

 

Era riuscito a scucire ai poliziotti qualche informazione sull’arresto della Pivet. Pareva che fosse coinvolta in un brutto affare di commercio di bambini. C’erano coppie sterili che offrivano molto denaro per avere un bambino, senza dover subire il lungo iter delle adozioni, e c’erano persone pronte ad approfittarsi della situazione. La Pivet gestiva un culto che venerava la femminilità, la maternità, e con tecniche di suggestione simili a quelle usate dal figlio, convinceva molte delle donne di strada che rimanevano incinte, a cedere il oro bambino. In cambio dava uno piccola somma di denaro, e qualche preghiera. Il grosso dei soldi lo intascava lei.

 

Forse si sarebbe meritata di morire.

 

Raggiunse Cameron all’aperto, nel parcheggio.

La dottoressa era appoggiata alla sua macchina, le braccia incrociate per proteggersi dal freddo, che a quell’ora della sera era ancora più pungente. La luna piena, il cielo scoperto e il gelo, rendevano il cielo di uno strano colore rossastro.

Allison guardava il divertente spettacolo davanti a lei: la macchina di Chase procedeva a tentoni, tra improvvise accelerazioni e brusche frenate, continuando a girare in tondo nel parcheggio semivuoto.

House si appoggiò a sua volta, vicino a lei, più vicino di quanto entrambi si aspettassero.

“Cuddy ha chiamato i servizi sociali, stanno venendo a prenderlo.”

“Lo so.” rispose lei, continuando a guardare dritto davanti a sé. “Non ho il coraggio di dirglielo.”

 

Rimasero qualche secondo in silenzio, a riflettere.

 

Di tanto in tanto arrivavano a loro le risate di Elliot e Chase. Quest’ultimo aveva deciso di far fare al ragazzino qualcosa che lo distogliesse per un po’ dal mondo che si stava sgretolando attorno a lui. Sapeva che avrebbe voluto provare a guidare, e gli permise di farlo, conscio di quanto sarebbe servito a lui, da ragazzino, un amico che lo distraesse in quei momenti in cui la realtà gli sembrava troppo grande e minacciosa per lui.

Lo vide come una sorta di riscatto.

 

“Prima glielo diremo, più tempo avrà Elliot per salutare sua mamma. Non la rivedrà per molto tempo.” a queste parole di House, Cameron si voltò finalmente a guardarlo.

Il diagnosta si accorse che aveva le lacrime agli occhi.

L’istinto fu quello di andarsene senza dirle una parola, ma decise di bloccare quell’impulso codardo. Decise di farlo per il bene di entrambi.

“Perché piangi?” le chiese. Non c’era nessuna nota sarcastica nella sua voce, solo reale preoccupazione.

Lei si passò le dita sotto agli occhi, cercando di asciugarsi l’ennesime lacrime della giornata, senza rovinarsi il trucco. “E’ solo un bambino. Poi Chase…non la prenderà bene. Adesso è…guarda com’è felice. Si è affezionato a quel ragazzino.”

Cercò di sorridergli. Aveva le gote arrossate dal freddo e gli occhi le brillavano per le lacrime. “So che il mio commuovermi ti sembra patetico, ma non ci posso fare niente.”

Lui scosse la testa, tornando a guardare verso l’auto. Elliot era riuscita a parcheggiarla, sfiorando di poco un albero. Dopo pochi secondi entrambi scesero, ma si bloccarono appena videro lui e Cameron.

House fu certo che avevano capito cosa stava per accadere.

Chase posò una mano sulle spalle del ragazzo, e camminarono insieme verso di loro.

 

“Non sei capace a parlare agli alberi per convincerli a spostarsi?” chiese House ad Elliot, appena furono di fronte a loro. “Ti servirebbe, perché se guidi così da schifo non andrai molto lontano.”

“No dottore, ma forse è il caso di imparare. Lei può insegnarmelo?”

House rise sommessamente.

Chase non staccava gli occhi da Cameron, dai suoi occhi lucidi.

“Stanno venendo a prenderlo?” le chiese.

Lei annuì. “Puoi andare a salutare tua mamma se vuoi.” disse poi, rivolta ad Elliot.

“Grazie.” disse lui, mentre una lacrima gli scendeva per la guancia.

“Accompagnalo tu, Cameron.” disse House alla dottoressa. Nessuno protestò e l’immunologa si impose di smuovere in fretta quella situazione: si alzò in piedi e tese la mano ad Elliot. “Andiamo?” gli chiese.

Elliot si voltò verso Chase. “Grazie per avermi fatto guidare, dottor Chase.” disse, tentando di sorridere tra le lacrime.

Chase aveva gli occhi rossi ma sia Cameron che House erano sicuri che non avrebbe mai pianto di fronte a loro. Ebbe però il coraggio di abbassarsi e abbracciare forte il bambino. “E’ stato un piacere Elliot, vedrai che la prossima volta il parcheggio andrà un po’ meglio.” Continuò a tenerlo stretto per qualche secondo, dando l’ultimo saluto a un piccolo amico/nemico, e forse anche a quel bambino ferito che stava accucciato dentro di lui. Poi si alzò e lo guardò allontanarsi finchè non scomparve, la sua piccola mano in quella della persona di cui più si fidava là dentro, della sua bellissima amica e collega, Allison Cameron.

 

Quando si ridestò dai suoi pensieri, si accorse che House era ancora appoggiato all’auto dell’immunologa, e lo fissava impassibile.

“Io vado. Ci vediamo domani, buonanotte.” disse rapidamente, poi si voltò e incominciò a camminare verso la sua macchina, miracolosamente integra.

“Chase.” il diagnosta lo chiamò, e poi lo raggiunse con la sua andatura zoppicante.

Sembrava quasi imbarazzato e questo mise Chase a disagio.

“Potrai andare a trovarlo.” gli disse alla fine.

Chase era scosso, ma riuscì a cogliere qualcosa che assomigliava a delle scuse, nascoste nella banale frase del suo capo.

“Già. Ma non credo che andrò.”

House annuì. Fece per tornare sui suoi passi.

“House.” questa volta fu il turno dell’intensivista. “Il prossimo Natale ti regalerò una tazza nuova.”

House alzò gli occhi al cielo. “Sei un bastardo.” disse rivolto alle stelle, ridendo.

“Dev’essere un gran complimento da parte tua.”

“Questa me la paghi.”

“Come pago ogni tuo sbalzo d’umore.”

“Sei l’unico che riesce a sopportare certe pressioni. Cameron si metterebbe a piangere e Foreman correrebbe a parlare con la Cuddy.”

“Anche questo è un complimento?” chiese lui, aggrottando la fronte.

“Sparisci.” allontanò Chase spingendolo col suo bastone, come aveva fatto qualche ora prima con quel poliziotto. Quel gesto era però, questa volta, libero da ogni forma di aggressività. Forse era un gesto amichevole. O almeno così lo intese Chase che, sorridendo, raggiunse la macchina e si allontanò.

 

Dopo pochi minuti Cameron uscì ancora dall’ospedale e si diresse verso la sua auto. House vi era appoggiato, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato.

Senza nessuna esitazione, gli lanciò le chiavi della sua macchina.

Lui le prese al volo, e la guardò stupito, colto alla sprovvista dalla spontaneità di quel gesto.

“Non mi vorrai far guidare fino a casa da sola, con le strade in questo stato?” disse al suo capo, fingendo indignazione. La luce nei suoi occhi esprimeva, allo stesso tempo, quanto desiderasse che lui accettasse quell’invito, che lui accettasse quello che entrambi volevano.

“Ma non spettarti che ti apra la porta, o cretinate simili.” disse lui, sedendosi al posto del conducente.

Si allontanarono dal Plaisboro.

I loro cuori, che battevano così veloci, mescolavano insieme tutte le intense sensazioni delle ultime giornate, consapevoli che l’emozione più grande gli avrebbe travolti tra poco, quando finalmente sarebbero stati l’uno tra le braccia dell’altra.

 

 

 

A meno che…

 

 

Si svegliò con la sua piccola mano appoggiata sullo stomaco.

I capelli erano abbandonati sul cuscino, le labbra semiaperte.

Appoggiò la sua mano su quella di lei, chiedendosi quante volte le aveva baciate quella notte.

Centinaia di volte.

Aveva incominciato a stringerla a sè prima che raggiungessero la porta d’ingresso, non aveva resistito.

Lei aveva risposto con una voracità che sembrava impensabile per un essere così delicato.

Le scostò una ciocca di capelli dal viso, sperando che si svegliasse.

Aveva bisogno di essere sicuro che non fosse solo un sogno, aveva bisogno di sentire quella voce che gli aveva provocato sensazioni così diverse da quando la conosceva: irritazione per le sue frasi ingenue, tenerezza per la tenacia con cui gli imponeva i casi che le sembravano interessanti, turbamento per le sue ammonizioni etiche, eccitazione per come aveva ripetuto il suo nome quella notte…

“House…”

Finalmente aveva aperto gli occhi, finlamente lo stava guardando.

Lei gli sorrise, lui le rispose allo stesso modo.

“Voglio dormire ancora un po’.” mormorò , tornando a chiudere gli occhi.

Lui la lasciò fare.

 

Cameron non voleva dormire, voleva solo godersi fino in fondo quel momento di pace.

Voleva tenere ancora per un po’ la mano sotto il tocco leggero della sua, sentirlo respirare accanto a lei.

Aveva ancora addosso il languore di quella lunga notte.

In quel momento desiderava più di ogni altra cosa che la gioia che aveva nel cuore non la abbandonasse mai.

Era stato tutto più bello di ogni sogno che avesse mai fatto, e lei sognava tanto. Sognava tanto di lui.

 

House si sentiva calmo, sereno.

Era una sensazione che non provava da anni.

Ma non era solo quello.

Aveva paura a dirlo, anche a se stesso.

Come se stesse seguendo il corso dei suoi pensieri, una semplice domanda uscì flebile dalle labbra di Cameron.

“Sei felice?”

 Lui sorrise, cercando di cogliere in ogni sua sfumatura quella stupenda emozione che forse non aveva mai conosciuto a un livello così puro.

Si.

Era felice.

 

 

 

 

 

 

 

FINE

 

 
Vally

 

 

 

 

 

Ce l’ho fatta, l’ho finita!

E’ stato difficile per me, mi piaceva scrivere questa storia.

Ma il finale è venuto da solo, la conclusione si è fatta da sé.

 

Sarà una cosa che scrivono tutti ma, data l’importanza, non posso non farlo anch’io.

GRAZIE GRAZIE GRAZIE a tutti quelli che hanno letto e recensito questa fanfic.

Vi ringrazio di cuore, il merito di quello che di bello c’è in questo racconto è anche vostro.

Il mio modo di ringraziarvi sarà quello di impegnarmi a leggere le vostre fanfic, come sto già facendo, e di commentarle in modo sincero.

Credo che alcuni di voi sappiano quanto è entusiasmante leggere una recensione positiva da parte di qualcuno che ammirate, da parte di qualcuno che scrive come piace a voi. A me è capitato con alcuni di voi, che…ringrazio davvero tanto, a costo di ripetermi.

Un abbraccio forte anche a tutti quelli che non scrivono, ma leggono con passione.

 

Una nota finale, prima di salutarvi.

Contrariamente a quanto si aspetteranno alcuni di voi, io non sono cotton candy!

Adoro però il personaggio di Cameron, che trovo sia quello delineato meglio nella serie, dopo House. E’ ricco di sfumature e di possibilità… Quindi mi è piaciuto scrivere di loro.

Mha…in realtà mi affascinano tutti i protagonisti e spero di averlo dimostrato dando spazio a ognuno di loro.

 

Ora vi saluto e, come al solito, attendo con ansia le vostre recensioni.

 

Vally

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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