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Autore: Glenda    02/07/2012    1 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III

 

 

 

...Pensare [...]

cosa può essere un uomo in un paese

sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante

e dopo

dentro una polvere di archivi

nulla nessuno in nessun luogo mai.

 

(V. Sereni)

 

 

Tra la gente della redazione quello che preferivo era Rino Daniel, il poeta timido. Con Filippo, erano amici da sempre: infanzia insieme, scuole insieme...si erano separati solo all’università. Eppure, non riusciva ad immaginare due persone più diverse. Se Filippo alzava la voce, io mi soffermavo sul controcanto delicato del suo sorriso mite.

Avevo cercato fin dal principio di guadagnarmi la sua simpatia, quasi fosse stato la sola persona di cui potersi fidare in quell'ambiente straniero.

Ma entrare in confidenza con lui non mi fu facile.

In principio mi aveva messo spesso nella condizione di non sapere come comportarmi e mi aveva indirettamente costretto a farmi forte di una loquacità che non credevo di possedere, solo per sottrarmi - e sottrarlo - a quei silenzi prolungati che ci mettevano entrambi a disagio.

Poi, però, quasi all'improvviso, era diventato vivacissimo, e aveva cominciato a rivelare uno spirito salace, degno di un buon toscano quale era, ma sempre condito di innocenza, mai fuor di luogo e di misura, e privo degli intenti di malignità così ben radicati in gran parte dei sui concittadini.

Gli piaceva vantarsi del suo nome curioso, che, per un semplice scivolamento di accento, richiamava quello del famoso provenzale Arnaud, e, per giocare fino in fondo sull'affinità onomastica, si era ingegnato nel comporre una buffissima sestina lirica, in perfetta osservanza delle regole del genere, scegliendo come parole-rima i nomi di sei degli "illustri redattori". Scriveva in metrica con la facilità con cui si compila la lista della spesa: aveva studiato a lungo la letteratura italiana delle origini, il greco e il latino, e tuttavia si intendeva abbastanza anche di lettere moderne, benché prediligesse sempre ciò che aveva sapore d'antico o, comunque, di fiabesco e lontano. Era molto colto, ma, a differenza del suo compagno, sembrava vergognarsi di darlo a vedere, e, a volte, toccava anche a lui la fatidica domanda di Filippo che sollecitava una presa di posizione. Con me esprimeva i suoi pareri più disinvoltamente, ma sempre con quella titubanza, quell'aria da "può darsi che io sbagli", che mi faceva sentire meno ignorante.

Le sue parole erano reticenza ed entusiasmo, così sulla carta come nella vita. Un giorno mi disse, citando Calvino, che la pagina doveva sapere di vita, la voglia di vita che faceva correre le strade...quelle corse pazze, insensate, in cui si lanciava quando usciva dai locali della redazione, all'improvviso...tutto teso ad inseguire qualcosa di straordinario o a fuggirlo.

E scriveva cose bellissime.

Fra me e lui c'era un rapporto che tuttora non riuscirei a definire. Basti pensare che non seppi mai neppure se viveva da solo o in famiglia, se aveva fratelli, se era fidanzato. Non mi disse mai nulla, né, tutto sommato, io gli dissi di me tanto di più. Ma c'era una sintonia tra noi che andava molto al di là della comune confidenza, un'intesa straordinaria che mi permetteva di capire benissimo tutto ciò che in lui poteva sembrare strano, e sentire che mi apparteneva, anche se cercavo di nasconderlo.

Se bisognava rispondere ad una telefonata, entrare in contatto con sconosciuti, ci guardavamo negli occhi - e a volte non era necessario - e sapevamo che ciascuno stava pensando a come esprimersi, a quali parole pronunciare, a quali gesti compiere per risultare adeguato alla situazione: estenuante sforzo di adattamento.

Solo che in lui tutto ciò era un po' più evidente che in me.

Riusciva meno a controllarsi o era più sincero? Sono stato sempre incerto...A volte mi sembrava voglioso di essere diverso...che si sentisse soffocato da questo suo modo stonato di rapportarsi al mondo, che cercasse la sicurezza. Più spesso, invece, metteva nei suoi atti una spontaneità, un'energia, una gioia anche nelle stranezze, che sembrava impossibile pensare fosse solo un sistema per far buon viso a cattiva sorte.

Credo che, piuttosto che un amico, Rino fosse per me una sorta di alter ego, lo specchio che mi faceva capire come davvero ero e che non dovevo vergognarmi dell'essere così. Lo amai sempre e fortemente, sebbene preso, a volte, dal terrore di somigliargli troppo. Ero allo stesso tempo respinto e coinvolto da lui, e spesso temevo (avidamente proteso verso Filippo e il suo luminoso coraggio) di essergli talmente uguale da non potermi riservare ancora una chance di diventare del tutto diverso.

Ma il mio era un sentimento che non poteva essere spiegato, come niente altro si poteva spiegare di lui, dopotutto. Sarebbe come voler mettere in ordine il caos, e dal caos non nasce più niente, se lo si mette in ordine.

Anche il suo aspetto esteriore mi arriva alla memoria confuso: frugo e frugo nei ricordi e nei cassetti per impedire che la sua figura svanisca nel nulla come i fantasmi di certe sue fiabe, ma a soccorrermi non c'è neppure una fotografia. Naturale: non volle mai farsene scattare una, non so se per disaffezione alla propria immagine, o per una generale indifferenza a tutto ciò che è capace di fissare solo l'involucro esterno del mondo, quel mondo che tuttavia non si stancava di osservare fino nella sua fisicità più bassa, con uno sguardo appassionato e mai severo.

Eppure, memoria visiva a parte, continuo a ripetere a mente i suoi versi, ricordo alla perfezione tutte le cose che diceva, e, - un flash dal passato - quel suo paio di occhiali spessissimi, che un giorno, parlando, si era tolto per cercar di pulirli con un fazzoletto di carta, uno di quelli profumati che esalava odore di mentolo tutto intorno, mentre lo strofinava con energia sulle lenti appannate.

Era mattina, non ero andato in facoltà, e stavamo seduti al tavolo di una delle sale della sede. Rino mi aveva fatto leggere una poesia, l'aveva scritta quella stessa notte, mentre - aveva detto - le macchine ogni tanto sfrecciavano sotto la sua finestra e non lo lasciavano dormire, nervoso com'era.

- E' una poesia triste... - mormorò.

Eravamo soli, la finestra era aperta sul cortiletto interno, da fuori veniva un profumo di erba tagliata, ed era un po' piovuto, anche se c'era tanta luce. Tirava vento, e uno spiffero mi ghiacciava la schiena, perché ero vestito leggero, invitato dal principio di bella stagione. Ero malinconico.

- Perché la vita è triste - dichiarai, posando sul tavolo quel foglio quadrettato di blocco notes e lo sguardo sulla sua mano paffuta che strofinava e strofinava quel paio di lenti.

- No - mi rispose - la mia vita è triste. Come sia quella di altri, non so - e abbozzò la risatina di noncuranza di cui faceva sempre largo uso se si scivolava in discorsi che gli parevano troppo impegnativi o mettevano in gioco opinioni generali su qualsivoglia cosa.

Non si voleva prendere sul serio - questo lo ripeteva sempre - perché “non ci si doveva prendere sul serio", mai. Gli piaceva tanto quel "mai" in fondo frase, era ammonitivo, assoluto, lo usava tutte le volte che si sforzava di dire qualcosa di cui era profondamente certo. Io, invece, mi prendevo "sul serio" anche troppo: non conoscevo l'ironia, e se a volte fingevo di sminuire le mie convinzioni e di riderci su, dentro di me, in faccia a me stesso, ero quasi sempre serissimo.

- Mi spiego - riprese Rino - forse la vita di uno come Filippo non è triste. O almeno non posso stabilirlo io. La mia vita invece si, è triste, lo garantisco. -

Mi sorprese quel naturale parlare di sé: non esternava mai i suoi sentimenti, e, se proprio si voleva conoscerli, bisognava sforzarci di leggerli tra le righe, magari dei suoi scritti. Ma subito cambiò tono, si rimise gli occhiali, riprese il suo foglio, se lo mise in tasca, e senza lasciarmi un istante di tempo per interiorizzare quell'atmosfera di intimità, saltò in piedi quasi scavalcando il tavolino, piazzò il suo naso ad un centimetro dal mio e mi fece una boccaccia:

- Buuu! - esclamò - Si ride? -.

Io non reagii, sperando di recuperare la sottile empatia di un istante prima, e cercai di riagganciare il discorso.

- Forse - dissi - Filippo non ci pensa mai. Ha tanto da fare, vede tanta gente, e la tristezza non ha tempo neppure di bussare alla sua porta - ma anche questa era una espressione che veniva da una testa troppo infarcita di letteratura, un’idea sentita e risentita che proponevo invano come pensiero mio, e d'un tratto mi sentii completamente inadeguato alla situazione.

- E' naturale - rispose, rilassatissimo, lui - ne sono sicuro anch'io. Solo che io sono ROSPO. -

- Che ?!? - sbottai, colto di sorpresa da quella parola corposa e concreta che proprio non mi ero aspettato.

- Ho detto: Sono rospo. - ripeté. E poi sottovoce - ... mi piace stare solo - .

Ecco cosa voleva dire "Rospo"..., già, era ovvio...Ma perché, dietro quei tentativi di sembrare buffo, tanta malinconia?... Non gliel'ho mai chiesto. Lo sapevo, forse, ma non si poteva dire: non se ne parlava in osservanza ad un tacito patto che imponeva alla discrezione di stare al di sopra del desiderio di confidenza. E, nonostante questo, ciò che fu sempre meraviglioso in lui - ricordo indistruttibile, purissimo - fu il suo saper essere, di volta in volta, ora la frase azzeccata, ora la risata sguaiata, ora la parola giusta al momento giusto, che mi rimettevano in equilibrio quando mi sbilanciavo non importa su che cornicione - anche se oggi che lo cerco col pensiero, e vorrei riaverlo vicino, non riesco a fissarlo in nessuna delle facce che mi vengono incontro da quegli anni.

"I guai non finiscono mai", diceva sempre: era il suo motto, la sintesi in cinque parole della vita triste. Il mio era invece "nihil sub sole novi ", trovavo si adattasse perfettamente alla mia esistenza, e siccome era piaciuto molto anche a lui, l'aveva combinato col suo, dichiarando - Niente di nuovo, hai ragione: sempre e solo guai ! - e rideva come di una battuta della cosa che lo faceva soffrire.

 

La vita triste mi accompagnò a lungo, in quell'anno che cominciava nuovo, lontano da casa. In principio, appena ero arrivato a Firenze, avevo provato momenti di sconforto perché non riuscivo ancora ad orientarmi: era come ricostruire sul niente un costume di vita andato distrutto, crearmi un nuovo reticolo di abitudini e ritagliare un nuovo ambiente in cui potersi muovere con disinvoltura. Di fatto, non ero adattabile, la mia paura delle novità era sempre sufficiente a reprimere il mio desiderio di esperienze differenti, e forse solo in quell'occasione, prima d'allora, avevo saputo vincerla per andare incontro ad un domani non programmato.

Ma io non ero fatto per vivere da solo, non bastavo a me stesso, e, al di là di quel generalizzato senso di "sprotezione", c'era da aggiungere che sentivo la città troppo stretta per me, che venivo dal mare, e insieme troppo vasta in rapporto ad un paese piccolo come lo era il mio.

Ebbi comunque poco tempo per soffrire di nostalgia, perché i “guai” erano più forti e numerosi ed ebbero subito la meglio. Più che "la vita triste", lì per lì era "la vita difficile"....mentre fu d'inverno che conobbi la desolazione. Forse un po' della colpa fu di Filippo, di Camilla, di Rino, del mondo che avevo intorno e ogni mattina si imponeva come termine di paragone a me che, la sera, dovevo sempre riconoscere di non aver fatto un solo passo avanti per entrarvi e diventare grande. E quella era la prima cosa che sapevo di dover fare assolutamente: crescere. Impresa dura, impresa grossa; forse non c'è neppure troppo motivo di sentirsi in colpa quando, nonostante tutto, ci si accorge di non averla mai compiuta fino in fondo: ma più duro è vedere che gli altri sono già tutti al di là della linea di demarcazione, e che anche se (sempre se...) ti tendono una mano, potrai al massimo sfiorarne le dita, senza che questo basti per essere uno di loro.

All'amore come completamento della vita non avevo mai pensato, e nemmeno mai ne avevo sentito il bisogno: fu Camilla a farmi sentire diverso perché non l'avevo mai provato. Invidiavo visceralmente la sua gioia e con ugual forza il suo dolore. Mi sentivo inferiore a lei.

Eppure non trovavo l'occasione per uguagliarla e non capivo - sgomento sempre maggiore - per quale ragione, se per sfortuna o per natura, non riuscivo anche io a provare brividi e eccitazione come accadeva a lei quando, in autobus o sui banchi dell'università, sedevo accanto ad una ragazza che mi sembrava bella.

Ma la maggiore fonte sofferenza fu, in quei mesi, prima e sopra tutto lo scontro col mondo di Filippo: un rapporto difficile fin dall'inizio, ogni giorno più duro e più irrinunciabile. Anche io ero indispensabile a lui, e lo dimostrava in modo molto più palese di me. Dopo neanche un mese che ci conoscevamo cominciò a venirmi a suonare sotto casa tutti i giovedì prima di andare alla riunione, e ci incamminavamo assieme, così fui obbligato ad arrivare in redazione sempre in largo anticipo.

Mentre aspettavamo gli altri, facevamo lunghe chiacchierate, e litigavamo almeno una volta su due. A Filippo piaceva alzare la voce anche quando non era necessario, ed io, che ero sensibile anche ad una lieve alterazione dello sguardo, non riuscivo proprio ad abituarmici.

Spesso discutevamo per sciocchezze, ma c'erano dei tasti particolari che lui toccava con molta frequenza che mi ferivano in profondità. Uno dei tanti era la mia estraneità al mondo contemporaneo, gli piaceva criticare la mia mancanza di nette convinzioni politiche, e - questo lo sosteneva lui - il fatto che, ammesso ne avessi avute, mi sarebbe mancata la spina dorsale per difenderle. Di qui passava rapidamente a rinfacciarmi di vergognarmi delle mie idee, e quest'ultima accusa era purtroppo veritiera, ma non tanto perché non ci credessi abbastanza, quanto perché le ritenevo talmente piccole e infondate da non avere voglia di sputtanarmi in faccia al mondo per esprimerle.

Le poche alle quali tenevo davvero, poi, mi piaceva che volutamente restassero segrete: pensavo ci dovesse sempre essere, anche quando mi lasciavo coinvolgere e catturare, un luogo sicuro in cui nessuno ficcasse il naso e che rimanesse solo mio... un posto inaccessibile in cui non dipendevo da nessuno ma dove finivo col sentirmi sempre più solo.

Me ne accorgevo quando mi ci rifugiavo scappando da Filippo e dalla sua aura travolgente e stavo male.

Filippo non mi feriva con cattiveria, ma nemmeno - come mi spiegavano, ogni volta che si avvedevano della situazione, i suoi colleghi - per il mio bene, perché avrebbe voluto rendermi più deciso e sicuro di me, ma semplicemente perché era il suo modo di fare, perché solo così credeva di poter esistere, e perché - come diceva sempre lui - lotta di idee era soprattutto rabbia.

I primi tempi io stavo zitto e mi sfogavo con Camilla, poi cominciai a accusarlo di ottusità, testardaggine, incapacità di mettersi in discussione, tutti difetti che per lui costituivano probabilmente dei pregi!

Si comportava con me come con un bambino da istruire, mi trattava come una persona che vale poco...tuttavia, se c'era bisogno di qualcosa, o cercava una garanzia di fiducia, veniva sempre da me, e prediligeva la mia compagnia in modo particolare all'interno dello staff, anche per lo svolgimento di ordinarie faccende di routine. Me ne accorsi col tempo, dopo lunghi mesi di assidua frequentazione.

- Io - finì col confidarmi una volta - Ho bisogno di avere intorno persone come te. Riesci a calmare la mia irruenza e a farmi portare a termine un discorso serio senza degenerare. E' incredibile: con te non sono capace di arrabbiarmi - ...Eppure, sincero o no tale parere, le sue "arrabbiature" furono, almeno in principio, l'aspetto caratteristico della nostra difficile convivenza, ed io ero sempre più convinto che non lo avrei sopportato a lungo.

Spesso uscivo dalle riunioni col ferreo proposito di lasciare una volta per tutte quel mondo ostile e non tornarci mai più. Poi, quando passavo sotto la finestra di Filippo per andare alla fermata dell'autobus e capitava che lui si affacciasse a salutarmi, le mie drastiche risoluzioni avevano già perso di forza. - Ti passo a chiamare domani? - - Boh, non so, avrei un po' da studiare... - Ma la sera successiva, appena suonava il campanello, ero bell'e pronto, e scendevo giù con l'aria - Camilla dixit - che sembrava quella di un condannato a morte.

- Dido - mi chiedeva lei - Se ti fa tanta rabbia perché lo frequenti? - - Boh...Mah...perché devo farcela... - E lei rideva e diceva - Sei uguale a me...! -

Ma non era vero, e lo sapevamo entrambi benissimo. L'amore "è cieco": questo mio spirito autodistruttivo era, invece, anche troppo razionale.

La realtà era che su tanti aspetti del mio carattere Filippo coglieva nel segno, e io non avevo il coraggio di riconoscerlo. Ritirarmi sarebbe stato come doverlo ammettere.

Mai come in quel periodo il mio stato d'animo fu precario e oscillante: certe mattine mi alzavo pieno di entusiasmo, ma quasi sempre, la sera, ero triste. Pensavo a tutte le cose che avrei dovuto fare nel corso della giornata e non avevo fatto, ai colloqui coi professori che rimandavo sempre a domani per evitare quel contatto ravvicinato col prossimo che mi metteva in difficoltà, all'amore che oggi non era arrivato e non sarebbe arrivato il giorno dopo, e al mio "tempo sperperato" di ora in ora.

Molto dipendeva dall'università: talvolta una lezione che mi aveva particolarmente appassionato mi procurava stati di euforia che duravano anche per due o tre giorni. L'entusiasmo letterario mi regalava attimi di illusione di essere parte di quel "partito degli intellettuali sopra i partiti" di cui si parlava tanto nelle riviste di primo Novecento. Ma il sogno si esauriva presto, ed io tornavo a tormentarmi col pensiero che se non facevo in fretta qualcosa della mia vita, sarei rimasto un fallito per sempre.

Il periodo più drammatico fu febbraio: il tempo era pessimo, c'era umidità, aria pesante; ricordo ancora alcune giornate grevi in cui venivano posti limiti al traffico a causa dell'inquinamento e gli autobus filavano velocissimi su strade sgombre, ma lungo i marciapiedi stagnava un aria irrespirabile.

Spesso, più che psicologicamente, non stavo bene fisicamente: una strana emicrania mi martellava la tempia sinistra e non mi lasciava studiare con concentrazione. Ero assillato dall'idea di non riuscire ad essere pronto in tempo per l'esame: dovevo sostenere un colloquio preliminare di latino ad aprile, e quelle dannate nozioni di metrica non volevano ancora entrarmi in testa; non avevo mai letto un esametro in vita mia e avrei avuto bisogno di una mano, tuttavia non osavo chiedere aiuto a Rino per paura di violare la sua "rospaggine".

Il pensiero di non farcela mi inquietava: dovevo come dimostrare di essere all'altezza almeno del ruolo che mi ero scelto... la mia sola vera scelta, sentita, motivata. Ero sempre stato abituato ad essere uno tra i tanti, uno qualsiasi, ma non riuscivo ad accettare di esserlo anche nell'ambito della mia grande passione...."tuttavia" mi dicevo nei momenti di maggior sconforto "se pur dovessi mantenere la media del trenta e laurearmi col massimo dei voti, che cosa me ne verrebbe, quando non sarò mai intero come uomo?". Era questo chiodo fisso di una mia presunta, eterna incompletezza che mi faceva sentire schiacciato di fronte a Filippo, e mi toglieva capacità di sfoderare rabbia ed energia contro quel giovane straordinario che sembrava sapere tutto della vita.

 

Una sera di fine febbraio litigammo violentemente, e la questione era sempre la stessa: io ero quello fuori dalla realtà, l'incapace, l'illuso (se voleva esser complimentoso, “l'idealista”) e lui invece quello che tutto sapeva tutto faceva e che aveva sempre le idee chiare come il sole. C'era per forza bisogno di tutti quei requisiti per essere uomo...

- E allora - ricordo che gli gridai, quasi in fuga verso la porta - smetti di frequentarmi, così elimini il problema senza bisogno di urlare tanto! - C'era anche Rino, e mi rivolse un'incoraggiante occhiata di solidarietà, quando gli scivolai vicino guadagnando finalmente il corridoio.

Ero davvero a pezzi, non avevo neanche il desiderio di difendermi, era tardi e volevo solo dormire. Me ne andai senza dare a Filippo la possibilità di finire di esporre i suoi "eloquenti pensieri", e, come sempre, mi addormentai rimuginando parole udite e pensando a cosa avrei dovuto dire e non ero stato nemmeno capace di lasciare intuire, e a come avrei potuto rifarmi, davanti a lui, di quella rinuncia alla lotta che era come una tacita ammissione della mia permalosità. In vero, permaloso non mi ero mai ritenuto, ma mi sentivo scoperto, sempre sotto accusa, sotto inchiesta, e forse, alla fine, ero diventato davvero incapace di tollerare qualsiasi rimprovero da parte degli altri.

Me lo faceva capire anche il cuore, che spesso, la notte, cominciava a battere più forte, e mi faceva balzare in piedi col respiro strozzato. Allora dovevo inspirare profondamente e cercare di sgombrare la testa dalle preoccupazioni: preoccupazioni prima di tutto per la mia salute, per quella maledetta tachicardia di cui non conoscevo le ragioni, e che non mi dava tregua.

La paura di stare male era un'altra delle mie fobie. Forse sarebbe stato diverso, se fossi stato a casa...

 

La giornata successiva fu la peggiore. Mi svegliai stanchissimo, con forti dolori alle ossa: pensai che fosse colpa dell'umidità e mi dissi che sarebbe piovuto. Il cielo, infatti, era plumbeo, e la mia stanza sembrava piccola e oppressiva, in quella poca luce.

Provai un senso di claustrofobia simile a quello della notte, e spalancai la finestra, ma da fuori filtrò un gelo così intenso che dovetti chiuderla in fretta e furia e stringermi intorno alle spalle la coperta di lana per fermare i brividi di freddo, ma inutilmente.

Dovevo passare l'intera giornata all'università, e quel giorno non avrei proprio voluto pranzare da solo, soprattutto se la pioggia mi avesse impedito di andare a sedere all'aperto. Trovavo che i corridoi dell'università fossero atrocemente tristi, quando non ci batteva il sole che, filtrando dai vetri, non di rado diventava troppo caldo anche d'inverno, ma che infondeva quella rilassatezza, quel senso di quiete meridiana che mi faceva vedere tutta la realtà così distante...

Quel giorno no: la realtà sarebbe stata lì senza schiodarsi, col suo viso corrucciato che ti rimprovera il tempo perso, e su cui si toccano con mano paure, stizza, noia, che, guardate da una certa angolazione sembrerebbero tanto vane, che basterebbe voltare la schiena per cominciare ex novo. Però la vita, non è vero che sorride se la guardi sorridendo: ti sorride un mattino, quando salti su un autobus al volo, leggero, e fuori c'è un bel sole scacciapensieri...ma poi basta un istante perché i pensieri tornino, e non dipende da noi che ci piombino addosso o si allontanino. Si può provare a far finta che non ci siano, e forse è l'unico sistema, anche se è una strategia vecchia e stantia, e ora sono più che mai convinto che funzioni solo quando ci sono cose più grandi per cui valga la pena ignorare tutto il resto.

...

Stetti, dunque, l'intero pomeriggio solo, e non penso, o non ricordo, di aver fatto niente di costruttivo o di interessante.

Rimuginavo ancora sulle parole di Filippo, ma alla rabbia si stava lentamente sostituendo un senso di spossatezza, come nel sonno, nel cui sopraggiungere la realtà si attenua senza sparire, in un annebbiamento inquietante.

Ed avevo sonno, infatti.

Mi sentivo tutto intorpidito, e contavo i minuti che mi separavano dal ritorno a casa, dalla tavola apparecchiata, e dalla compagnia di Camilla, se l'avessi trovata ad aspettarmi.

....

Verso le cinque la lezione finì.

Rientrando mi imbattei in una manifestazione in piazza S.Marco e mi trovai a camminare contro corrente cercando di aprirmi la strada tra la folla. Piovigginava appena, l'umidità penetrava da tutte le parti ed io non stavo bene.

I ragazzi gridavano in coro slogan che non capivo, ogni tanto prendevano a saltare tutti insieme, sollevando cartelli e striscioni. Una ragazza con la faccia stranamente dipinta quasi mi travolse.

Chissà per cosa protestavano...! E dove prendevano tutta quella energia, con un tempo tanto balordo? Provai invidia per loro, ma anche fretta di fuggire, e di nuovo quel terribile senso di soffocamento. L'odore della pioggia si mescolava ad un puzzo di macchine e smog...non capii da che parte venisse...stava facendo buio ed avevo la vista confusa.

Finalmente fui fuori dal corteo e respirai. Ora stava piovendo: non me ne ero accorto, veniva giù a dirotto. Mi appoggiai al palo della fermata dell'autobus con tutto il peso del corpo.

Mi girava la testa.

 

- Milly, sto male! -

Ero arrivato a casa per miracolo: avevo dovuto scendere due fermate prima perché in quella costipazione la mia pressione era scesa sotto zero. Mi misi subito a letto, senza neppure cenare, tremando di freddo.

Camilla mi portò il termometro: desiderai intensamente avere la febbre, una febbre altissima in cui si sarebbe sfogato tutto il malessere degli ultimi mesi, e in cui avrei dimenticato i miei pensieri. Giustificazione degli acciacchi fisici e mentali...

E infatti mi ero preso un’influenza fenomenale: passai l'intera settimana con la temperatura sopra i trentotto.

Mi imbottii letteralmente di medicine; per diversi giorni non feci che tremare e sudare, mentre la febbre scendeva e saliva. I medicinali mi toglievano un po' di lucidità, ero assonnato, e il tempo passava senza che quasi me ne accorgessi. Quando non dormivo, fissavo il lampadario e la luce troppo intensa disseminava davanti ai miei occhi pallini agitati multicolori che, quando strizzavo le palpebre per il fastidio, non volevano più andarsene, continuando il loro lavorio vivace tra la vista e me...Scintille variopinte accese nell'oscurità diffusa...: fosfeni (avevo sentito dire che si chiamavano così...peccato, strano nome tecnico per un fenomeno tanto fantasioso!) che turbinavano silenziosi, ed erano il miei soli compagni nella innaturale dimensione in cui trascinavo quelle giornate stanche e stranianti...in cui dimenticavo anche il dolore, a volte...

Avevo bisogno di questo - mi dicevo - avevo bisogno del bruciore degli occhi, della febbre sempre più alta, del martellare alle tempie, del caldo e del freddo, delle guance infiammate che scoppiano per un male che non vuole uscire...

Ma il male fisico cancella, purifica, ed io dovevo toccare il fondo: dovevo toccare il fondo per risalire...

Ecco che veniva sera e una luce fioca saliva dalla strada...Rumori di macchine arrivavano fino alla finestra...

...suoni di clacson e riflessi di fanali...e le facciate tutte accese del palazzo di fronte...

...la casa di Filippo...

Avevo tanto, tanto sonno...

 

Dovevo star sognando quando mi svegliò il suono del campanello e udii voci provenire dal corridoio. Mi accorsi di aver sudato molto, non avevo più i brividi, e la febbre doveva essersi abbassata.

Aguzzai le orecchie per distinguere meglio le voci che si stavano avvicinando alla mia stanza...stentavo a crederci, ma una mi sembrava proprio quella di Filippo: proseguimento dell'inquieto sogno (o dell'incubo)?

- Aspetta - risuonarono forti e chiare le parole di Camilla - Vedo se sta dormendo -

- Sono sveglio, sono sveglio - la prevenni, mentre la sua mano faceva cigolare la maniglia della porta - Entra pure -

Filippo fece capolino dietro l'uscio, saggiando prima con lo sguardo l'ambiente in cui stava mettendo piede; poi, adocchiatomi, mi fece un largo sorriso e si accomodò su una sedia accanto a me, disinvolto.

- Allora? - domandò, con dolcezza - Che ci combini? -

- Io? Nulla! - mi affrettai a rispondere, avvertendo come un'invasione forzata della mia intimità anche quella premura gentile - un po' di febbre -

- Una bella "marmotta", altro che! - puntualizzò scherzosa Camilla, che era rimasta sulla soglia - Aveva un febbrone tale che chiacchierava da solo. Te lo immagini? -

E, rivolta a me con tono quasi materno

- Scherzi a parte, come va ora? -

Assicurai di stare molto meglio, ma lei volle a tutti i costi andare a prepararmi una tazza di latte e biscotti, così mi riempivo lo stomaco e potevo prendere le medicine, e mi lasciò solo con Filippo in una situazione di scomodissimo imbarazzo.

Mi sollevai quasi a sedere sul letto, appoggiando le spalle sulla parete, e, per la prima volta in quei giorni di indisposizione, guardai fuori. Era sera, verso le sei: pioveva ancora a dirotto. Forse quella pioggia era la stessa che mi aveva inzuppato sorprendendomi in mezzo alla strada, forse non aveva mai smesso - non avrebbe mai smesso - di piovere.

Era molto buio e doveva esser freddo, là, sul viale...Lungo i marciapiedi si accendevano le luci dei lampioni, e la gente rientrava a casa. Se mi fossi affacciato, probabilmente avrei visto una fuga di impermeabili e ombrelli sotto un alone acquoso...Ma i vetri erano appannati per il calore della mia stanza; avevano catturato qualche grammo di calore tutto per me, per stemperare quella freddezza che mi bloccava le parole.

- Non sapevo che fossi malato - disse Filippo - Altrimenti sarei venuto prima. Mi ha informato Rino stamani. Ti ha telefonato perché non ti aveva più visto sull'autobus, ed era in pensiero, ma tu dormivi e Camilla gli ha detto che avevi l'influenza. A proposito, mi ha chiesto di domandarti se hai bisogno che vada al tuo posto all'università a seguire i corsi per prenderti gli appunti... - - Davvero? Molto gentile...Ma non importa proprio, figurati... -

All'improvviso mi parve strano essere lì, a letto, con Filippo seduto vicino, neanche fosse stato uno di quei miei compagni delle elementari che mi prendevano sempre in giro, ma che erano venuti in frotta a trovarmi in ospedale quando mi avevano operato di appendicite: mi sembrò di non conoscerlo, mi sembrò un'altra persona, troppo vicina per il genere di rapporto che ero abituato ad avere con lui.

- Alla riunione non verrai, perciò. Giusto? - riprese

- No - risposi - Ma in realtà non so comunque se sarei venuto, a prescindere dalla febbre... -

Mi lasciai sfuggire quelle parole con la complicità di quel clima innaturale e dell'impressione che mi dava la malattia di essere in una posizione di privilegio e poter dire qualunque cosa mi saltasse in testa e poi magari negare tutto senza litigare.

Filippo rimase un attimo interdetto, poi, un po' smarrito, mi domandò il perché.

- Non so... - sussurrai io - mi sento...come dire...fuori posto, ecco: fuori posto in mezzo a voi -

- Scusa se insisto - fece allora lui, secco - ma questo discorso non fila per niente -

Il suo tono era di nuovo inquisitorio: non c'era niente da fare, sapeva far vibrare ben di rado la corda della delicatezza

- Che significa - incalzò - "sentirsi fuori posto"? -

- Significa - ribattei, cogliendo l'occasione - rimanere spiazzato quando usi questi toni forti con me, perché...perché stonano troppo coi miei, e io non li sostengo, Filippo! -

- "Toni forti"? - fece eco lui, perplesso - Questo è la prima volta che qualcuno me lo dice... -

- C'è sempre una prima volta - sdrammatizzai - Anche se non credo che nessuno te l'abbia mai fatto notare -.

- Che vuol dire "toni forti"? - ripeté lui senza badare al mio sotterraneo tentativo di metter la questione a tacere - Ora me lo devi spiegare, Mattia! -

Ecco, ci era riuscito: mi aveva messo in difficoltà, perché sapevo benissimo che la visione che avevo io di lui dipendeva esclusivamente dalla mia attitudine a selezionare l'umanità in categorie di stampo tutto letterario, che Filippo non poteva certo condividere, ma di cui sentivo di aver bisogno, se non altro per spiegarmi come mai io, lui e la stessa Camilla ci muovessimo su frequenze tanto diverse. Ora avrei dovuto raccontargli che lui per me era la solarità e l'energia, la corda che vibrava con più forza ma che col suo suono dominante annullava noi altri, i toni deboli...invece...

- Nulla - mormorai - Fai finta di niente, Filippo. E' solo che in questo periodo tutto va a rovescio, e perciò mi sento sempre sotto inchiesta quando qualcuno alza la voce con me -

Non ero riuscito a chiarirgli per niente i miei sentimenti, ma almeno ero stato sincero.

- Non mi dire - rifletté lui, abbozzando un sorriso - che sei ancora offeso per la discussione dell'ultima volta! - Aveva colto nel segno e mi affrettai a scuotere la testa, negando senza pudore, tanto che quel movimento brusco mi appannò un istante la vista.

- E invece si - insistette - Ti si legge in faccia! Come ho fatto a non pensarci?...Certo che sei proprio uno sciocco, Mattia. Quando io alzo il tono, uso il "tono forte" per dirla come te, non lo faccio certo per incolparti di qualcosa. Non è colpa tua se non la pensi come me, se non ti arrabbi come me verso il mondo che non funziona, che non è mai come lo vorrei io... -.

Questo spontaneo tentativo di discolpa mi intenerì

- Non è mai neppure come lo vorrei io, Filippo... - dissi - Solo che tante volte temo che non sia il mondo, ma sia io a non funzionare! E credo sia questa consapevolezza a farmi sentire sempre inquisito...deve essere questa la differenza che passa tra me e te. -

Rimanemmo un poco in silenzio. Fuori la pioggia cadeva più forte: ne ascoltai il rumore contro il vetro, che si mescolava a quello del latte che bolliva sul fornello nella stanza accanto. Era un'atmosfera splendida, avrei voluto che fosse sempre così, tra Filippo e me.

- Mattia...? - mi domandò ad un tratto (forse voleva giocare a fare anche lo psicanalista, e le condizioni c'erano: io su un lettino, nel pieno delle mie crisi esistenziali, lui lì, con tutte le sue idee chiare come il giorno, seduto vicino alla mia scrivania) - Cos' è che pensi non vada, in te? -

Arricciai il naso, facendo il disinvolto

- Tutto - dichiarai - la mia vita è un disastro -

Poi tornai serio, e cercai di far vibrare la corda dell'intensità, il mio "tono debole" che però pretendeva sempre di saper scendere nel profondo

- Vedi Filippo... - spiegai - tu riversi nelle tue battaglie ideologiche fino all'ultimo grammo della tua energia. Lo vorrei fare anche io, ma penso che non valga la pena. Ci deve pur essere (mi dico) ci deve pur essere qualcos'altro, qualcosa che conti di più, che mi spieghi tutto, che io senta davvero che vale, che ne ho bisogno, che non posso farne a meno; qualcosa verso cui l'istinto mi spinga senza sforzo, che all'improvviso mi spalanchi davanti una luce abbagliante e forte, dallo splendore incontenibile, che sia speciale, speciale per me... -

Mi bloccai, conscio d'un tratto di essermi lasciato trasportare

- ...Per carità, non badarmi: leggo troppi libri. Troppe poesie, e a volte troppi slanci mistici...E pensare che nemmeno ci credo, in Dio!...Mi piacerebbe crederci, però: invidio molto chi ci crede. Renderebbe tutto più facile...Ma forse è una cosa, la fede, troppo grande per poterla cercare in questo "tono basso", in una vita così inutile... -

- Ma non esistono vite inutili! - mi interruppe Filippo - ...A parte - ironizzò - quelle di qualcuno dei nostri giornalisti, dei nostri politici o uomini di spettacolo...! -

Poi rise sommessamente, e si stropicciò col palmo della mano aperta i capelli che gli ingombravano la faccia, sfregandoseli sulla fronte: sembrava quasi un gesto di imbarazzo.

- Stavo scherzando - riprese - Il demone fustigatore non riesce a tacere neppure quando sono in intimità con gli amici. Ti volevo solo dire che hai ragione quando dici che non posso capirti...nemmeno Rino, a volte, lo capisco. Ma non devi sentirti "sotto accusa" solo perché io penso che invece valga sempre la pena lottare per delle idee, scontrarsi col mondo a tutti i costi, anche quando si sa che nulla andrà a finire come vorresti tu. Questo non vuol dire che io sia una persona felice e tu no, non significa nemmeno che la mia vita, a differenza della tua, non possa essere tutta uno sbaglio...Ma in ogni caso, giorno per giorno, che si parli di politica, di solidarietà, di arte o di che altro, io credo che il mondo offra delle occasioni. - Si voltò verso la finestra e sfocò lo sguardo all'infinito; poi, parlò come a sé stesso - Non sprecare le tue occasioni... -

 

Camilla arrivò con un vassoio e due tazze fumanti. Riuscimmo a convincere Filippo a farsi offrire latte con miele e biscotti. - Previene il raffreddore - disse lei - sempre che Dido non te l'abbia già attaccato - - Dido? - rise lui, che per la prima volta veniva a conoscenza del mio buffo soprannome (e che da allora non smise mai più di prendermi in giro) - E' per caso - s' informò, col suo spirito ironico - un modo per non sentirti la sola ad esser bollata da un nome ridicolo?...De Gaddi-Ciuffino!!! -

Scoppiai a ridere anche se mi facevano male le tonsille, e poco mancò che non rovesciassi il latte sulle coperte.

Poi Filippo ci salutò e imboccò la via delle scale

- Allora, cosa dico a Rino? -

- Niente - risposi - lo chiamo io -

Rimasi solo nella mia stanza, colmo delle emozioni di quel pomeriggio, e, prima di ripiombare nel sonno, pensai a lungo anche a questo: Rino mi aveva telefonato.

Strano, avrebbe dovuto sembrarmi una cosa del tutto normale, invece mi invase un profondo sentimento di riconoscenza, forse per tutto ciò che quel suo gesto aveva permesso, e che significava, adesso, per me.

Pensai che di certo, se un giorno fosse passato per caso davanti a casa mia, senza avere assolutamente nulla da fare, non avrebbe neppure osato suonare per sapere se c'ero, e, anzi, sarebbe andato dritto, passo veloce e sguardo basso, per non rischiare di incontrarmi per strada e sentirsi dire “Ehi! Che ci fai da queste parti?”...

Eppure, per pochi giorni che non mi aveva visto in autobus, si era affrettato a chiamarmi, col fare che gli era solito di chi si sente un po' protetto e un po' protettore, un po' distaccato e un po' solidale, verso colui che potrebbe anche essere il “vero amico“. Se io fossi poi un vero amico, per lui, non lo so...Tuttora non so neppure se io sia mai stato degno di questo: d'essere importante - intendo - per quella creatura evanescente e magica, che stenta ancora a fissarsi in un corpo fisico e in un volto, e che forse era un figlio dell'aria, un folletto venuto da un altro mondo, verso il quale aveva smarrito la strada del ritorno, ed era rimasto, per nostra buona sorte, qui tra noi.

Mi addormentai pensando un po' a lui e un po' a Filippo...ero di nuovo stanco, spossato, e il tempaccio mi metteva un gran sonno.

Ma la febbre non c'era più: era passata la malattia portandosi con sé anche un po' di brutti pensieri.

  
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