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Autore: Mary P_Stark    04/07/2012    4 recensioni
Tutto si sarebbe aspetta, Elizabeth, tranne che di rischiare la vita durante un semplice campeggio nei bei boschi dell'Oregon. Ma tutto può succedere, a una creatura mannara, quando di mezzo ci sono rancore e odio. Scampata alle bocche dei fucili puntati contro di lei per ucciderla, Elizabeth troverà inaspettatamente aiuto e conforto in un dottore fuori dal comune, che non solo la salverà da coloro che intendono farle del male, ma le mostrerà che, di certi esseri umani ci si può fidare. E lei ridarà speranza a un uomo che pensava di non poter più aprire il proprio cuore a nessuno.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.


 
Caffè.

O era impazzito del tutto, oppure l’aroma delizioso che gli stava solleticando le narici era davvero la sua bevanda preferita.

Aprendo sonnacchioso gli occhi, Derek si passò svogliatamente una mano sul viso, stropicciandosi la pelle abbronzata prima di sbadigliare e annusare nuovamente l’aria.

Voleva sincerarsi di non aver soltanto sognato quel profumo meraviglioso.

No, c’era davvero.

Il punto era un altro; lui non lo stava preparando di certo.

Era bell’e sdraiato sul suo letto, mezzo sfatto per la notte quasi insonne che aveva passato a rigirarsi tra le lenzuola, perciò lui non c’entrava nulla con quel delizioso aroma. Quindi?

Infilatosi un paio di jeans consunti sopra i boxer che teneva per dormire, poggiò i piedi nudi sull’assito di legno e si avviò ciondolante verso la porta, desideroso di scoprire cosa stesse succedendo.

Sorpresa delle sorprese, quando aprì il battente con cautela scorse un’immagine che, almeno fino al giorno prima, gli avrebbe dato la certezza di stare ancora dormendo della grossa e di stare sognando alla grande.

Leggiadra come un’emanazione magica, Elizabeth stava balzellando allegramente di fronte al cucinotto mentre, con gesti abili ed efficienti, preparava pancetta e uova strapazzate.

Il caffè all'americana sembrava appena fatto ed emanava un aroma splendido ed il forno, più che funzionante, stava cocendo quella che pareva essere una torta di mele, almeno a giudicare dal profumo.

Canticchiando a bassa voce, illuminata dalla luce del mattino che penetrava dalle imposte aperte, appariva quasi eterea, con la massa di capelli biondi arricciati intorno al collo e il viso candido, dalle gote rosee e fresche.

Le lunghe e snelle gambe messe in evidenza dalla sua camicia – che le arrivava a metà coscia – erano toniche, completamente glabre e, apparentemente, del tutto guarite.

La fasciatura era stata tolta. A giudicare da quel poco che Derek poté scorgere dalla sua posizione privilegiata, sembrava essere rimasto solo un piccolo taglietto roseo a X a ricordo dello spiacevole incidente che li aveva fatti incontrare.

Volgendosi a mezzo per mettere sui piatti le uova ormai pronte, Elizabeth sobbalzò leggermente prima di arrossire fino alla radice dei capelli e mormorare: «Oh, buongiorno. Ti ho svegliato? Ho fatto troppo baccano? Scusa, ho la tendenza a canticchiare, quando cucino e…»

Bloccando il suo sproloquio imbizzarrito con un cenno della mano e un sorriso, lui avanzò nella stanza prima di rammentare di essere a torso nudo e con solo i jeans a coprirne le carni.

Scoppiando a ridere di se stesso, si passò una mano sulla nuca ed esalò: «Ecco cosa succede a passare troppo tempo da soli. Ci si dimentica delle buone maniere. Comunque, buongiorno anche a te.»

Lei sorrise scuotendo il capo e, terminato di servire le uova, prese la pancetta e il caffè, che lasciò scivolare dentro due capienti tazze di ceramica azzurro cielo, replicando: «Sei in casa tua, e io non mi offendo.»

«Diciamo che hai potuto constatare che sono un orso di nome e di fatto» ridacchiò lui, sedendosi e passando una mano sulla peluria scura che ricopriva il suo torace, prima di afferrare la tazza del caffè per ingollare il liquido scuro tutto in un sorso. Delizioso.

Con un risolino, Elizabeth si piegò su un ginocchio per controllare la cottura della torta che aveva infornato circa una mezz’oretta prima e, dopo essersi sincerata della sua buona riuscita, la estrasse con un paio di guanti da forno.

Soddisfatta, la presentò dinanzi a Derek, chiosando: «Gli uomini glabri mi fanno un po’ senso, lo ammetto. L’uomo è fatto per essere villoso.»

Derek scoppiò a ridere, rammentando le mille e mille discussioni che, invece, aveva fatto con sua moglie riguardo al suo petto ricoperto da sottile peluria scura.

Di certo, Melanie non avrebbe mai chiesto a Hugh Jackman di togliere la sua, di peluria, ma a lui poteva domandarlo, anzi, pretenderlo. E così aveva fatto, scatenando una delle tante liti intercorse tra loro.

Sentire da Elizabeth che a lei non interessava nulla e, anzi, lo preferiva, gli diede una soddisfazione così grande da sentirsi un idiota, al solo pensarlo. Era davvero diventato così sensibile all’opinione degli altri, stando per tanto tempo da solo, o c’entrava solo il fatto che fosse lei a pensarlo?

Sorseggiando il buon caffè bollente, lei ammiccò al suo indirizzo, chiedendogli: «Ne deduco che qualcun altro non era del mio stesso avviso. O sbaglio?»

«Da cosa l’hai capito?» sghignazzò lui prima di tagliare col coltello la torta di mele, dall’aspetto decisamente invitante, e portarsene un pezzo alla bocca. «Mmh. Buona! Sono secoli che non mangio una torta fatta in casa, e la tua è speciale.»

«A me piace mangiare le cose fatte in casa e, visto che gli ingredienti c’erano tutti…» scrollò le spalle lei, quasi svilendo il proprio lavoro, servendogli poi dell’altro caffè.

Da quanto non assaporava una colazione preparata da qualcuno che non fosse lui? Da un sacco di tempo. Mel non si era mai cimentata ai fornelli, prediligendo lasciare questo piacere alla loro domestica.

Le volte – tante – che lui si era dovuto alzare la notte per andare in ospedale, si era preparato da solo cereali e caffè, condividendo quei momenti solo con il suono soffuso della radio accesa su una stazione locale.

Davvero deprimente.

Invece, quella mattina, si era svegliato con l’aroma caldo del caffè, il profumo di una torta preparata da mani amorevoli e una bella donna nella cucina intenta a sistemare la colazione in tavola. Tutti buoni, buonissimi motivi per dichiarare quell’inizio di giornata davvero ottimo.

Dopo aver chiacchierato amabilmente per tutta la durata della colazione, Derek si prese l’incarico di pulire le stoviglie ed Elizabeth, non avendo altro da fare, sistemò le lenzuola del suo pagliericcio e sprimacciò il cuscino. Dopo qualche istante, riprese a canticchiare sommessamente come, in precedenza, aveva fatto nel preparare la colazione.

Dopo un paio di minuti, però, smise di colpo e Derek, con un risolino, si volse a mezzo e le mormorò gentilmente: «Mi piace sentirti cantare. Prosegui pure. E’ una novità, in questa baita, e di sicuro non potrà far male. Certo, se ci provassi io, le travi del tetto mi crollerebbero in testa per ripicca ma, con te, non credo proprio potrà succedere.»

Senza voltarsi, lei ridacchiò sommessamente e annuì, riprendendo a cantare con la sua voce piena, morbida e da contralto.

Rilassandosi gradatamente a quel suono dolce, Derek si chiese per un istante cosa avrebbe voluto dire, per lui, risvegliarsi tutte le mattine con lei accanto, condividendo quei piacevoli momenti di intimità familiare.

E lì si fermò, spalancando gli occhi e fissando basito la schiena della ragazza che aveva salvato e che, in quel momento, stava spazzando tranquilla per la baita, ignara dei suoi pensieri e dei suoi desideri lasciati andare a briglia sciolta.

Che cavolo vai a pensare, Derek! Neppure la conosci!, pensò tra sé, imprecando mentalmente contro quei pensieri davvero sconvenienti e, per lui, così inusuali. Non si era lasciato alle spalle la vita coniugale perché l’aveva trovata asfissiante?

Eppure, con lei non stava avvenendo niente di tutto ciò. Elizabeth era tutt’altro che soffocante, o anche soltanto noiosa. Si era adattata immediatamente alle condizioni spartane del suo rifugio isolato, non si faceva alcun problema nell’aiutarlo nelle faccende domestiche, non le spiaceva indossare solo una delle sue camicie di flanella e, anzi, gli era grata per tutto ciò che aveva potuto fare per lui.

No, Elizabeth non assomigliava per niente a Melanie.

La donna che stava letteralmente inondando di magia quelle quattro mura spoglie e prive di orpelli era dolce, gentile, premurosa, spigliata e simpatica.

Derek sapeva quel che c’era da sapere, su di lei. Non era vero che non la conosceva.

Paradossalmente, invece, non aveva mai capito Melanie. Si era lasciato coinvolgere dalla sua vita apparentemente affascinante, era rimasto colpito dalla sua bellezza ma non alla sua mente e, così facendo, aveva ingannato se stesso e lei.

Questo, era stato superficiale. Riconoscere le differenze tra Melanie ed Elizabeth, denotava forse in lui un cambiamento.

Tornando a voltarsi verso la donna, sorrise nel ripensare a quanto fosse stata cortese nel preparargli la colazione, prodigandosi addirittura per fargli trovare una torta fresca di cottura. Davvero molto di più di quanto, in tutta la sua vita adulta, una qualsiasi altra donna della sua cerchia familiare avesse mai fatto per lui.

Era una mannara. Okay, e dov’era il problema? Non conosceva solo il suo amico e sceriffo di Lincoln City, Pete Van Owen, ma anche altri e, di nessuno di loro, poteva dire cose meno che carine.

Ci si poteva dunque innamorare a prima vista?

Forse.

Quando però la vide irrigidirsi e stringere con forza la scopa che teneva tra le mani, tutti quei pensieri si azzerarono e, lasciati da parte spugna e acquaio, corse da lei, sfiorandole le spalle con le mani. Turbato, quindi, esalò: «Elizabeth, ti senti male?»

Lei scosse il capo, poggiò contro il muro la scopa e sibilò: «Non so come, ma sono qui.»

«Cosa?!» sibilò Derek, stringendo maggiormente la presa sulle sue spalle prima di farla volgere verso di lui e chiederle: «Intendi i cacciatori?»

Elizabeth annuì, mormorando: «Forse hanno seguito le tue tracce, o i cani hanno fiutato il mio odore qui dentro, non so. Fatto sta che sono a meno di mezzo miglio da qui, e sono armati fino ai denti.»

«Non possono essere venuti coi pick-up. Li avremmo sentiti» sbuffò Derek, guardandosi intorno con espressione accigliata prima di avvolgerle protettivo le spalle e attirarla a sé.

Sorpresa, Elizabeth si ritrovò a poggiare le mani sul suo torace caldo e muscoloso, a respirare il suo buon profumo muschiato e, levando il capo a fissarlo, esalò: «Derek, ma cosa…?»

Strizzandole un occhio, lui sentenziò: «Non permetterò che ti facciano del male, okay?»

«Ma non devi per forza…»

Lui la zittì poggiandole un dito sulle labbra carnose, replicando: «Non ti ho salvato la vita perché quelli ti ammazzino sotto il mio naso, va bene? Ora, …cos’altro sai di loro?»

Annuendo a più riprese, lei si concentrò meglio per captare suoni, odori, fruscii non appartenenti al bosco che li circondava e, con voce piana, sussurrò: «Hanno sicuramente lasciato moto e pick-up ad almeno un miglio da qui, forse di più. Si sono mossi sopravvento, così che non sentissi il rumore dei motori al minimo regime. Sono in una quindicina, con almeno dodici cani. No, tredici»

«Sopravvento, eh? Da dove spira l’aria, stamattina?» le chiese allora lui, lesto.

«Sud-est.»

«Allora, sono sul sentiero della vecchia quercia. Bene. La mia jeep è proprio dietro la baita e porta all’altra mulattiera che parte da qui… e dentro c’è la radio con cui chiamare lo sceriffo» sogghignò soddisfatto Derek, allontanandosi con lei dalla porta d’entrata un attimo prima che una voce stentorea si levasse rabbiosa dal folto del bosco.

Sobbalzando, Elizabeth si strinse a Derek che, portatala a terra con lei, strisciò fin dietro al muretto di pietra che delimitava il cucinotto, e lì fece segno alla ragazza di non fiatare.

«Dottore! Sappiamo che l’ha portata qui! I cani ci hanno guidati fino alla sua baita, perciò non faccia scherzi. Ci dia la cagna che tiene lì dentro e noi ce ne andremo senza far danno!»

«Questa voce la riconoscerei ovunque. E’ quel pallone gonfiato di Roy Stevenson» sibilò irritato Derek. Le poche volte che aveva avuto a che fare con lui era sempre stato di fronte a una birra, con Roy ubriaco marcio e lo sceriffo impegnato a trascinarlo fuori dal bar in cui si era preso una sbronza.

Non erano davvero ricordi che gli facesse piacere rammentare, perché non gli davano un’idea molto edificante dell’uomo che, in quel momento, li stava minacciando.

Controllando la porta d’entrata per sincerarsi che fosse ben chiusa, imprecò tra i denti quando si rese conto di non averla sprangata a dovere.

Si era limitato a chiuderla semplicemente a chiave.  Ergo, sarebbero potuti entrare da un momento all’altro, buttando giù il battente a spallate e sparando a tutto spiano, per quel che ne sapeva.

«Roy! E’ illegale sparare ai mannari, non lo sai?!» urlò a quel punto Derek, facendo segno a Elizabeth di dirigersi gatton gattoni verso la porta che dava sulla rimessa, dove si trovava la sua jeep.

Silenzio.

Forse, il cacciatore non si era aspettato di essere riconosciuto o, più semplicemente, non si era affatto aspettato una risposta da parte sua.

Qualche attimo dopo, una gragnuola di proiettili investì la casa, portando Elizabeth a tenersi ancor più bassa mentre Derek, imprecando a più riprese, apriva la porta con un calcio prima di spingere la ragazza nella rimessa.

«Quelli sono del tutto pazzi!» ringhiò Derek, spingendo contro la porta un cassettone porta attrezzi. Se non altro, se avessero voluto seguirli da lì, avrebbero dovuto faticare un po’ per aprirla.

«Ma va?!» esclamò lei salendo sulla jeep in fretta e furia mentre, oltre la porta, si udivano altri colpi di fucile e le urla dei cacciatori.

«Butteranno giù la porta d’entrata nel giro di poco. Dobbiamo muoverci!» sibilò Derek, salendo al posto di guida prima di mettere in moto.

Senza darsi la pena di aprire il portone della rimessa, Derek lo abbatté con la jeep e, in un fragore di legno spezzato, si infilarono nello stretto sentiero sterrato dietro casa mentre, alle loro spalle, grida livide e infuriate imperversavano come uno sciame di locuste impazzite.

«Direi che se ne sono accorti» mugugnò Elizabeth, guardandosi alle spalle e tenendosi aggrappata allo schienale del sedile.

«Peggio per loro» ringhiò Derek, accendendo la radio e sintonizzandola sulla frequenza della polizia. «Parla il dottor Willstar. Chiedo aiuto immediato! Dei cacciatori mi stanno inseguendo sul Sentiero dell’Alce Nero. Sono armati e pericolosi. Con me c’è un puma mannaro che ha già rischiato di morire per causa loro. Tra i cacciatori c’è Roy Stevenson!»

Una scarica di elettricità statica fu la prima cosa che avvertirono in risposta e, subito dopo, la voce gracchiante di Pete Van Owen che, piuttosto alterato, sbraitò: «Che cavolo hai detto, D? Un mannaro? Ferito?!»

«L’ho curata e ora sta bene, ma ci hanno trovati e ora pensano di fare spezzatino di entrambi! Vieni a tirarci fuori dai guai, Pete!» urlò Derek prima di sentir fischiare accanto a loro un colpo di fucile. «Cazzo!»

«Che succede?!» urlò ancor più forte lo sceriffo.

«Ci sparano addosso, ecco che succede!  Sbrigati! Sentiero dell’Alce Nero!» Detto ciò, mise giù la radio e si concentrò interamente sulla guida mentre Elizabeth, aggrappata al sedile, scrutava dietro di loro con espressione ansiosa, informandolo sui movimenti dei loro inseguitori.

«Si stanno avvicinando!» esclamò Elizabeth, affondando le dita nel tessuto morbido del sedile.

«Come diavolo fanno, con tutte queste buche?!» sputò tra i denti Derek, faticando non poco a tenere la jeep in strada a causa della carreggiata sconnessa.

Dopo aver divelto qualche cespuglio ai lati della mulattiera, il dottore fu costretto a inchiodare il fuoristrada quando, all’improvviso, una moto da cross gli tagliò la strada, spuntando di colpo da dietro la fitta boscaglia.

Quella manovra d’emergenza lo fece finire diritto contro un abete ed Elizabeth, scaraventata in avanti, urtò con violenza contro il cruscotto prima di imprecare di rabbia e urlare: «Dobbiamo uscire alla svelta di qui!»

Senza farselo ripetere, Derek obbedì al suo ordine mentre la ragazza, scalciando via la portiera – rimasta bloccata a causa dell’incidente – uscì a sua volta prima di prenderlo per mano e lasciare la mulattiera.

In fretta, gli disse: «Muterò in puma e tu monterai sulla mia schiena, va bene? A piedi ci prenderebbero subito ma, saltandomi in groppa, guadagneremo terreno e avremo qualche possibilità in più.»

«Che cosa?!» esclamò lui, bloccandosi un attimo dopo quando la moto che li aveva fatti uscire di strada tornò loro contro, ben decisa a investirli.

Elizabeth non poté desiderare niente di meglio. Si parò dinanzi a Derek e, con un calcio piazzato, disarcionò il conducente e mandò il suo mezzo a sbattere contro una pianta.

La motocicletta si ribaltò un paio di volte, prima di finire in mezzo ai cespugli, il serbatoio squarciato e le forcelle deformate dall’impatto col suolo.

Basito, Derek osservò la scena senza badare troppo ai lamenti del centauro caduto a terra e, mentre Elizabeth si metteva in ginocchio a poca distanza da lui, la sentì dire: «Non spaventarti, se puoi.»

Un istante dopo aver proferito quelle parole, Elizabeth iniziò la sua mutazione. La camicia si strappò quasi subito, mentre calda pelliccia color miele prese il posto della candida pelle di pesca della ragazza.

Lunghi artigli perforarono il terreno smosso e una lunga coda dalla punta nera scodinzolò dietro quello che, agli occhi di Derek, apparve come un enorme felino dagli occhi azzurri come il cielo settembrino.

Era molto più grande in un normale puma, più del doppio, a ben vedere e, quando zampettò accanto a lui per sfiorarlo col muso, lui non poté far altro che ridacchiare impressionato. Era davvero da quel cambiamento repentino quanto magico.

Accarezzare quel bel musetto, dove micidiali canini spuntavano minacciosi, gli venne comunque spontaneo. Non ne aveva paura…, lui sapeva per istinto che non le avrebbe mai fatto del male.

Quando Elizabeth lo spintonò a una gamba, Derek capì di doversi sbrigare, di non poter indulgere oltre nell’osservarla ammirato e, senza tanti complimenti, salì in groppa al puma come se fosse stato un cavallo.

Dopo qualche istante di assestamento, l’animale iniziò la sua corsa attraverso il bosco mentre, alle loro spalle, altre moto e almeno un paio di pick-up li inseguivano, tenendosi sulla carreggiata sterrata.

Aggrappato al possente collo della mannara, Derek si appiattì sopra di lei per non prendere in pieno viso i rami dei cespugli che il puma, con agilità di movimenti, scansò nella sua veloce corsa attraverso la foresta.

Pur sapendo quanto fosse assurdo pensare a certe cose, specialmente in quei momenti di pericolo, non poté che trovare bellissimo condividere con lei quell’esperienza unica.

Elizabeth non aveva avuto remora alcuna a trasformarsi dinanzi a lui, a mostrargli il suo lato più nascosto.

Gli aveva concesso la sua piena fiducia e ora, nonostante il pericolo, stava provando sensazioni uniche e speciali. In un momento diverso, avrebbe potuto levare in alto le braccia per lanciare un urlo liberatorio.

«Sei bellissima, così» gli disse lui, cercando di sovrastare con la sua voce il rumore dei pick-up alle loro spalle.

Lei lanciò una specie di miagolio basso, di gola, prima di balzare con grazia di movimenti oltre un piccolo rio nascosto tra le fronde.

In quel momento, ricominciarono i colpi di fucile. Evidentemente, nonostante il loro zigzagare per il fitto della boscaglia, erano riusciti ad avvicinarsi a sufficienza per averli sotto tiro.

Acquattandosi ancora di più sopra di lei, Derek le gridò: «Si stanno avvicinando!»

Elizabeth annuì col muso e scartò verso sinistra per tornare momentaneamente sulla carreggiata, forse diretta sull’altro lato del bosco. Quel gesto, però, la mie sulla traiettoria di tiro di un proiettile, che la ferì alla zampa anteriore sinistra, facendole perdere l’appoggio e, con esso, l’equilibrio.

Cadde rovinosamente in avanti, e Derek con lei. Insieme, capitombolarono per qualche metro, finendo tra bassi cespugli spinosi.

Imprecando tra i denti, il dottore fu lesto a rimettersi in piedi, così da raggiungere il felino e scoprirne le condizioni.

Elizabeth ringhiò furiosa tentando inutilmente di rialzarsi mentre, tutt’intorno a loro, poco alla volta, i cacciatori si chiudevano a tenaglia attorno a loro, le armi spianate e sorrisi tronfi a colorarne i volti.

Quando anche l’ultima jeep si fu fermata, i cacciatori si mossero guardinghi attorno a loro e Roy Stevenson, evidentemente a capo di quella spedizione punitiva, fece esplodere una risata maligna, ringhiando tronfio: «Si è dato davvero troppa pena per una bestia simile, dottore, e ora è nei guai fino al collo.»

«Sei tu a essere nei guai, Roy. Ti denuncerò non solo per quello che hai fatto alla ragazza, ma anche per aver distrutto la mia jeep!» replicò Derek, fissandolo con asprezza.

Roy non fece altro che ridere ancor più forte mentre diversi fucili venivano puntati contro entrambi, chiarendo a Derek la gravità della situazione. Nessuno di loro pareva ricordarsi che, a causa di quel guazzabuglio infernale, quegli idioti stavano rischiando la pena di morte.

Ben conscia del rischio, Elizabeth non attese un solo attimo e, a sorpresa, trasse a terra Derek con una zampata e, nonostante le sue proteste, si pose sopra di lui per fargli da scudo.

Impreparato, il dottore si ritrovò a dover ammirare suo malgrado il collo peloso del puma che era divenuto Elizabeth e, picchiando i pugni a terra per la stizza, le sibilò contro: «Togliti da lì! Non voglio che tu mi difenda col tuo corpo!»

Un coro di risate divertite e sarcastiche si levò tra i cacciatori e uno di loro, ironicamente, esclamò: «Devi esserti davvero dato da fare, con lei, se quella cagna ti protegge a quel modo!»

«Hai avuto fegato, dottore, a farti toccare da una come quella! Ma non ti ha fatto schifo?» ghignò un altro, mimando il gesto di un conato di vomito.

Derek si limitò a digrignare i denti e, furioso, volse il capo quel tanto che gli bastò per scrutarli dal basso ed esclamò: «Siete voi a fare schifo, non lei!»

«Con idee del genere, meriti di fare la sua stessa fine!» sghignazzò Roy, sputandogli in faccia senza troppi complimenti. Poi, rivolto ai suoi compagni, sentenziò: «Murategli la bocca per sempre, ragazzi!»

«Fossi in te, ci andrei piano a uscirtene con simili affermazioni, ragazzone» insorse una nuova voce roca all’improvviso, azzittendoli tutti.

Il gruppo di cacciatori si volse nella direzione da cui era provenuta la voce sconosciuta e, una dopo l’altra, una quindicina di guardie forestali spuntarono fuori dai cespugli con le armi in pugno.

La cavalleria di Pete era arrivata, alla fine e, a giudicare dai loro volti, nessuno aveva una gran voglia di scherzare.

Sempre guardinga, Elizabeth rimase testardamente ferma, ben decisa a proteggere Derek col suo corpo da eventuali colpi vaganti.

Il comandante della forestale, dopo averla osservata per qualche istante, la rassicurò dicendole con un sorriso: «Sei al sicuro, ora. E anche lui. A loro ci pensiamo noi, ragazza.»
Elizabeth annuì col muso, ma non si mosse. C’erano ancora troppe armi, per i suoi gusti, in quel bosco.

Come comprendendo le sue paure, il comandante intimò di lasciar andare i fucili e, pur di malavoglia, i cacciatori obbedirono.

Terrorizzati, quindi, scrutarono Roy in cerca di una parola di conforto e l’uomo, non sapendo che altro fare, ridacchiò impacciato all’indirizzo della forestale ed esalò: «Ehi, andiamo, amico, qui ci stavamo solo divertendo un po’. Non volevamo davvero farle del male.»

Senza minimamente dar segno di voler ridere, il comandante delle guardie indicò con il proprio fucile la ferita di Elizabeth e replicò: «Sta sanguinando, idiota. Come pensi possa crederti, Roy? Inoltre, il fatto stesso che sanguini, depone a tuo sfavore. Significa che hai armi caricate ad argento… particolare che, in Oregon, ti spedisce dritto dritto in galera, senza passare dal Via.»

Roy non annuì né smentì, ma il comandante non ebbe bisogno delle sue conferme. Guardandosi intorno con espressione accigliata, l’uomo lanciò un’occhiata ai suoi sottoposti e, nel giro di pochi attimi, diversi cacciatori furono fatti stendere a terra e le loro armi confiscate.

Presa quindi la radio che teneva appesa al cinturone, il fucile sempre puntato su Roy, il comandante delle forestali chiamò lo sceriffo Peter Van Owen ed esclamò: «Ehi, Pete! Sono Will. Qui è tutto a posto. Porta un po’ dei tuoi con un sacco di manette. Riempirai il cellulare, te lo dico già da adesso e…» dopo aver guardato per un instante il puma, aggiunse: «… vedi anche di portare una barella per felini. Ce ne sarà bisogno.»

Dopo aver detto ciò, Will si avvicinò con fare rassicurante a Elizabeth e, dopo averle fatto annusare la mano, la accarezzò sul capo, mormorandole: «Puoi rilassarti, adesso. Nessuno vi farà del male finché ci saremo qui noi.»

In qualche modo, Elizabeth trovò la forza di spostarsi per non gravare ulteriormente addosso a Derek ma, non appena si fu scostata da lui, le forze le vennero meno.

Con un rantolo strozzato, crollò a terra sotto gli occhi sgomenti del dottore che, inginocchiandosi accanto a lei, gridò: «Elizabeth! Beth! Che ti hanno fatto?!»

Irritandosi ulteriormente, già subodorando il perché di quella reazione, Will si avvicinò a Roy per strappargli la cartucciera dalla spalla e, fissando con rabbia sempre crescente i proiettili al suo interno, ringhiò: «L’ogiva conteneva nitrato d’argento!»

Roy si limitò a sogghignare ma, dopo aver incrociato lo sguardo di Will, impallidì leggermente e reclinò il capo, terrorizzato all’idea di incontrare nuovamente quei ferali occhi di pece.

Nel sentire le parole del comandante della forestale, Derek sgranò gli occhi per un istante prima di fissare a sua volta Roy e, con rabbia a stento controllata, gli ringhiò contro: «Se lei muore, tu la seguirai. Te lo giuro su quanto ho di più caro!»

Roy allora esplose in una risata sardonica, replicandogli con ironia: «E’ un animale, bastardo. Perché darsi tanta pena per una cosa come lei? E poi, come pensi di fare? Evaderai la legge per farmela pagare, forse?»

Fu Will a rispondere per Derek.

Ponendosi contro il petto di Roy, quasi naso contro naso, Will gli ringhiò contro a denti snudati: «Siamo in Oregon, idiota e, se non te lo ricordi, per l’omicidio di un mannaro ci si becca un’iniezione letale.»

Roy indietreggiò repentinamente, investito dal caldo potere del licantropo che stava sfrigolando come una brace sotto la pelle di Willard Greystock e, impallidendo ulteriormente, esalò terrorizzato: «Siete bestie… bestie…»

«Qui, l’unica bestia che vedo sei tu» sentenziò disgustato Will, fissandolo dall’alto al basso con uno sguardo inferocito. «Ringrazia che io ho molto più a cuore di te il rispetto della legge…umano

Continuando ad accarezzare il capo e il collo di Elizabeth, che stava respirando sempre più a fatica, Derek aggiunse sdegnato: «Sta pur tranquillo, Roy, che ti farò causa fino a far pagare anche ai tuoi nipoti la tua idiozia, se le succede qualcosa.»

Il rumore sempre più forte di diverse camionette si diffuse nell’aria attorno a loro e Will, sogghignando, poggiò il calcio del fucile a terra e mormorò all’indirizzo di Roy: «Dammi l’occasione per spaccarti la faccia, dai… almeno ti risparmierai la galera, se ti ammazzo io per primo.»

Roy si limitò a deglutire a fatica, ben comprendendo quanto fossero veritiere quelle parole. Non stava minacciando a vanvera. Lo avrebbe ucciso davvero, se solo gliene avesse dato la possibilità.

Sempre più divertito, Will aggiunse: «Allora, come ti sembra la parte di chi viene braccato? Ti piace? Non rispondi?»

Derek sogghignò tra sé per un momento, di fronte alla lezione che il comandante della forestale stava dando a quel pazzo di Roy. Se le cose fossero state diverse, si sarebbe unito più che volentieri a quella specie di punizione psicologica, ma in quel momento il suo cuore e la sua attenzione erano tutti per Elizabeth.

Carezzandola incessantemente, le sussurrò con dolcezza: «Vedrai che andrà tutto bene. Tranquilla.»

Elizabeth sospirò e chiuse gli occhi. Non aveva neppure più la forza di guardare il viso preoccupato di Derek. Non avrebbe voluto spaventarlo tanto ma, per lo meno, sapeva che lui sarebbe sopravvissuto. L’importante era quello.
 
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Brusii. Voci sconosciute.

No, non tutte.

Una le era più familiare. Cara, in un certo qual modo.

Elizabeth riaprì gli occhi con calma, senza fretta, lasciando che la luce impersonale e fredda della stanza dove si trovava le investisse le sensibili iridi color cielo.

Le pupille si ridussero a due minuscoli puntolini neri in un mare azzurro mentre le palpebre, aggrottandosi, andarono a proteggere immediatamente gli occhi da quell’aggressione violenta.

Alla sua destra, la voce familiare si fece più forte ed Elizabeth, volgendo lo sguardo in quella direzione, sorrise spontaneamente quando scorse un profilo che ben conosceva. Solo, appariva leggermente diverso.

La barba di Derek era sparita, sostituita da gote fresche di dopobarba, un mento volitivo al pari della mandibola forte e lineamenti molto più che affascinanti.

I lunghi capelli erano stati pettinati all’indietro e legati in una coda di cavallo e, al posto della camicia a quadri da boscaiolo, era apparsa una più elegante botton-down di seta bianca su pantaloni neri.

Il tutto, era a malapena visibile sotto l’asettico camice da medico che indossava con naturalezza. Ai piedi, portava dei mocassini.

Ora, Derek aveva l’aspetto del dottore serio e professionale quale era sicuramente stato prima di rifugiarsi nella foresta.

Per qualche strano motivo, Elizabeth trovò la cosa divertente. A lei piaceva il Derek della foresta, non aveva bisogno di conoscere anche il Derek dottore.

Anche se meritava ben più di uno sguardo, a voler essere sincere.

Sorridendogli, Elizabeth alla fine riuscì a gracchiare: «Ehi, a quanto pare qualcuno è tornato alle sue antiche origini.»

Nel sentirla parlare, Derek si avvicinò a grandi passi al letto e, dopo averle sorriso generosamente, con gli occhi e con la bocca, ridacchiò nel guardarsi comicamente e le spiegò: «Ho chiesto di poter occuparmi del tuo caso e sono stati così gentili da permettermelo ma, visto com’ero conciato, ho pensato di darmi una ripulita.»

«Non eri… conciato. Eri Derek» ci tenne a dire lei prima di notare la sacca della flebo collegata al suo braccio. Storse il naso, infastidita e, indicandola con la mano libera dai tubicini, mormorò: «Per quanto dovrò tenerla?»

«Ancora per un paio di giorni. E’ fisiologica. Non eri ancora abbastanza in forze per poter mangiare cibi solidi, specialmente dopo quello che hai passato» la informò Derek, sedendosi su una delle sedie accanto al letto prima di continuare, aggiungendo: «Abbiamo dovuto procedere con un intervento d’urgenza, perché l’argento stava espandendosi in tutto il corpo. La lavanda gastrica è stata la cosa più simpatica che ti abbiamo fatto, per liberarti dall’avvelenamento, perciò ti risparmio il resto.»

Guardandosi le mani e le braccia, che sembravano esattamente come le ricordava, Elizabeth gli domandò pensierosa: «Come avete fatto a fermare il veleno? Che io sappia, nessun mannaro è mai sopravvissuto al nitrato d’argento inoculato in vena.»

Derek rabbrividì dentro di sé nel ripensare a quelle ore drammatiche, alla corsa al Samaritan Hospital di Lincoln City, alle proteste del primario di chirurgia e alle sue strenue richieste di assistenza.

Alla fine aveva appeso al muro il dottore, minacciandolo di gonfiarlo di pugni se non avesse fatto il tutto e per tutto per salvare Elizabeth. Era comunque stato l’intervento dello sceriffo a sbloccare la situazione, e l’operazione aveva potuto svolgersi senza ulteriori ritardi.

La circolazione extracorporea era stata l’unica soluzione possibile per poterle ripulire il sangue senza ucciderla, visto che la lavanda gastrica non aveva sortito gli effetti sperati. Pur ripulendo lo stomaco – dove il nitrato era comunque già arrivato – l’avvelenamento non si era fermato.

Ripulire il sangue era stata l’extrema ratio. Per tutta la durata dell’intervento, Derek aveva seguito con il cuore in mano ogni minimo movimento di dottori, infermieri e anestesisti.

I tre minuti di massaggio cardiaco serviti per far riattivare la circolazione, dopo aver fatto ripartire le pompe per la trasfusione in vena del sangue ripulito dall’argento, erano stati, per lui, i più duri e terrificanti di tutta la vita.

Su quel lettino d’ospedale aveva assistito alla quasi totale perdita della sua sanità mentale e, solo grazie a un miracolo, l’oggetto ultimo dei suoi desideri era rimasto in vita.

Dubitava seriamente che si sarebbe mai ripreso, se lei fosse morta.

Aggrappata alla vita, lei era riemersa dal limbo in cui era caduta. Per le successive due settimane, era rimasta in coma farmacologico mentre il suo corpo di mannara si riprendeva dallo shock dell’operazione subita e del principio di avvelenamento da argento.

Vederla sveglia e sorridente era un sollievo che non riusciva a mettere a parole e, quando lei dichiarò di avere il desiderio di mangiare cibo solido ben prima delle quarant’otto ore previste, lui non poté che sorridere lieto.

Elizabeth si era salvata. Solo quello contava.
 
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La riabilitazione si svolse nel migliore dei modi. Nel momento stesso in cui Elizabeth poté finalmente mettere mano, o meglio, bocca a cibo solido e, soprattutto, composto di proteine animali, il suo corpo letteralmente fiorì sotto gli occhi stupefatti di tutta l’équipe medica.

Mai, prima di allora, si erano occupati di un mannaro in condizioni così disperate e, grazie a quel tentativo dell’ultima ora, ora potevano gioire dei risultati, invece che piangerne la dipartita.

Elizabeth fu prodiga di complimenti per tutti loro e, alla fine della degenza, abbracciò coloro che le fu possibile incontrare tra lo staff medico che l’aveva salvata.

Lasciò ovviamente per ultimo Derek che, con il suo nuovo pick-up - pagato dalla famiglia Stevenson - la attendeva fuori dalla clinica.

Il sole alto in cielo faceva risplendere i capelli di Beth, facendoli rifulgere come oro e, nel salire sull’auto con un agile movimento di gambe, Derek le disse: «Sembra che tu ti sia ripresa perfettamente. Sei raggiante.»

Lei annuì, sorridendo all’uomo che aveva al fianco e che, da quando si era risvegliata dal coma, non l’aveva mai abbandonata un momento.

Si era preoccupato di comunicare ai suoi genitori le sue condizioni, aggiornandoli quotidianamente e pregandoli di non scomodarsi a venire fino a Lincoln City.

Appena possibile, le aveva procurato un cellulare nuovo – il suo, si era perso nella caduta dalla cascata – offrendole così la possibilità di fare lunghe e rassicuranti videochiamate ai famigliari.

Non contento, aveva poi avvisato Frank al camping su ciò che era avvenuto, garantendogli di tenerlo informato sulla salute della sua pupilla.

Da ultimo, aveva portato avanti la denuncia contro i cacciatori che li avevano quasi spediti al Creatore, ingaggiando uno degli avvocati più stimati della zona.

Da quel poco che Beth aveva saputo, Roy Stevenson stava già scontando una pena all’ergastolo mentre, tra i suoi compagni, diversi avevano deciso di patteggiare, ricevendo così pene più lievi, ma tutte non inferiori ai trent’anni.

Un vero sollievo, per lei e la sua famiglia.

Dopo essersi immesso sulla Highway in direzione sud, Derek terminò di spiegarle ciò che era avvenuto durante la sua assenza giustificata. Fu con un mezzo sorriso che le comunicò che l’università era stata più che lieta di sapere delle sue ottime condizioni di salute.

«Ti aspettano a braccia aperte» concluse di dire Derek, sorridendole generosamente.

«E io non vedo l’ora di ripartire con il mio lavoro» ammise Elizabeth, lasciando che lo sguardo vagasse dal suo volto sbarbato alla strada diritta che stavano percorrendo, oltre i confini di Lincoln City.

Abbassato il finestrino, lasciò che l’aria salmastra dell’oceano le investisse i sensi e, assaporando i mille e più profumi che la avvolsero, si sentì in parte rasserenata.

Quel giorno, nella foresta, aveva seriamente temuto di non poter più godere di queste piccole cose invece, anche grazie a Derek, si sentiva più viva che mai.

Poteva respirare, sorridere, correre, abbracciare. Sì, era contenta di tutto ciò che non aveva perso a causa di quei maledetti cacciatori, però…

Le mancava qualcosa, sentiva un peso nell’animo a cui non riusciva a dare una connotazione precisa, ma sapeva che aveva a che fare con Derek.

Lui, però, sembrava così tranquillo, così sereno.

Non sembrava avere nessun problema evidente, non di certo quel sordo dolore all’altezza del cuore che percepiva lei ogni qualvolta posava gli occhi su di lui, o incrociava il suo sguardo perlaceo.

Ma, forse, tutto quello sconvolgimento emotivo aveva unicamente a che fare con la sua lunga degenza ospedaliera.

Forse.

Quando, dopo meno di un’ora d’auto, raggiunsero infine il piccolo aeroporto locale, dove un Cessna 152 adibito a servizio di air taxi l’avrebbe condotta al più importante scalo aereo di Portland, il dolore al petto si fece più forte.

Elizabeth prese fiato più volte nel tentativo di farlo scomparire, ma esso rimase al suo posto e, come un tarlo fastidioso, continuò a rosicchiare, rosicchiare infaticabile. Nulla sembrava arrestarlo.

Apparentemente ignaro della battaglia interiore di Elizabeth, Derek parcheggiò nel piccolo posteggio adiacente gli hangar che si aprivano sulla piccola pista di decollo. Lì, dopo aver preso dalle mani della donna la sua sacca, la accompagnò negli uffici per ritirare il biglietto che aveva prenotato per lei, il passo sicuro e lesto.

Elizabeth riuscì a malapena a rispondere alle quiete domande della segretaria e, pagato che ebbe la tratta fino a Portland, si avviò assieme a Derek verso il piccolo aereo che l’avrebbe ricondotta a casa.

Recuperata infine la sua sacca dalle mani di Derek, Elizabeth la poggiò a terra e, dopo un attimo di esitazione, abbracciò strettamente l’uomo che l’aveva salvata e sussurrò contro la sua spalla: «Ti devo molto più della vita, Derek. Grazie di tutto.»

«Grazie a te per esserti fidata» ridacchiò lui nel carezzarle il capo e la schiena, assaporando il suo calore, il suo profumo di gelsomino e sì, la sua essenza di donna. Gli sarebbe mancata, lo sapeva già.

Scostandosi di malavoglia, Elizabeth afferrò con decisione la sua sacca e, con uno scherzoso saluto militare, esclamò: «Prendo concedo! Ma spero di rivederti.»

«Anch’io. A presto, Elizabeth» mormorò lui, cercando di mantenere il più possibile sotto controllo il tono di voce. Non voleva farle capire quanto, quella separazione, lo stesse facendo soffrire.

Lei ammiccò e, volgendosi a mezzo, gli disse da sopra una spalla: «I miei amici più cari mi chiamano Beth.»

Detto ciò, corse in direzione della pista dove il pilota la stava attendendo e, dopo aver gettato la sacca all’interno dell’abitacolo, salì con grazia di movimenti e chiuse il portello al suo fianco. Sistematasi quindi in un posto vicino al finestrino, lanciò un ultimo sguardo a Derek per poi salutarlo con la mano.

Derek rispose al saluto, sorridendole pur non avendone voglia e, in un sussurro, la salutò per l’ultima volta. «Arrivederci, Beth.»

Lei accentuò il suo sorriso, indicandosi un orecchio con un dito e Derek, scoppiando a ridere, seppe che lei l’aveva udito nonostante la distanza.

Aspettò quindi che il regime dei giri del motore del Cessna raggiungesse il suo culmine prima di aggiungere: «Credo di amarti.»

A quel modo, lei non avrebbe potuto sentirlo e, almeno per una volta, lui avrebbe potuto confessare a voce alta ciò che provava per Elizabeth.

Mentre l’aereo prendeva velocità sulla pista, la donna appoggiò entrambe le mani sul finestrino, lo sguardo sconvolto puntato su Derek che, nel vederla involarsi verso nord, sospirò e tornò mestamente all’auto.

Era ben deciso a non rimanere come un allocco a guardarla scomparire all’orizzonte.

Ben deciso a non crogiolarsi nel dolore di averla persa senza aver avuto il coraggio di dirle tutto in faccia.

Ben deciso a non rimuginare sulla confessione che aveva consegnato al vento come un vero codardo.




 
  
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