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Autore: kenjina    06/07/2012    5 recensioni
Non fu il dolore fisico che gli procurò quello strazio assordante, né la carezzevole consapevolezza che sarebbe morto in pochi minuti. Morire significava liberarsi dal peso opprimente di un fardello che non era riuscito a sopportare e che ora lo stava schiacciando, per lasciarlo finalmente libero dalle angosce e dai tormenti. Aveva sempre immaginato la sua morte e sapeva che sarebbe stato in battaglia. Sarebbe caduto da soldato, davanti le mura della sua amata città, per difendere con onore il suo popolo dalle armate nemiche che giungevano come un'ombra da Est. La sua morte sarebbe servita per salvare le terre che lo avevano visto crescere, per dare una possibilità alle future generazioni di vivere una vita lontana dalle tenebre e dalle paure.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Sono finalmente in vacanza.

SONO FINALMENTE IN VACANZA.

Quindi, miei buoni lettori e mie care lettrici, avrò più tempo e più testa per portare a termine questa storia - prima che parta sei mesi in Svezia a metà agosto. XD

Non ho ancora fatto bene i calcoli, ma non credo che supererò i 15 capitoli, vista anche la lunghezza di ogni capitolo.

(A proposito, questo è decisamente lungo. Pardon!)

Vorrei, però, ringraziarvi di cuore per il supporto che mi state dando. Significa tanto per me.

Soprattutto grazie a Johnny Nicotine, perché mai nella mia vita di scribacchina qualcuno ha avuto la voglia e l'ispirazione di disegnare uno dei miei personaggi. È stato qualcosa di così inaspettato e piacevole che mi ha commossa!

Quindi... GRAZIE, di cuore a tutti.

Buona lettura e buon fine settimana,

Marta.

 

Betulla


11.

16 Marzo 3019 T. E. - prima dell'alba.

 

Boromir era stato via per quasi l'intera notte, accanto al fratello febbricitante. Solo quando aveva avuto la certezza che Faramir sarebbe sopravvissuto, tornato dall'ombra grazie al richiamo e alle parole del suo Re, poté concedersi un po' di meritato riposo, mentale e fisico. Tornò all'accampamento che era quasi l'alba, con Aragorn e i gemelli di Elrond, silenziosi e tristi, nonostante la caduta del Signore dei Nazgûl. Ah, quante nobili vite erano state spezzate quel giorno per raggiungere solo una punta di sollievo!

Ripensò al racconto di Pipino e della follia di suo padre, che non aveva visto più la speranza in quel caos di fuoco e sangue; gli era giunta voce di aver perduto anche il suo primogenito e si era dato alle fiamme, rischiando di trascinare nella sua pazzia anche Faramir. Non riusciva a capacitarsi di quanto fosse accaduto, che suo padre, Denethor, non calpestasse più quella stessa terra che invece lui attraversava sulle sue gambe, né il fatto che non potesse rendergli l'onore meritato piangendo su un corpo ormai ridotto in cenere. Il braccio di Mordor era assai più lungo di quanto nessuno di loro immaginava, dato che era riuscito ad ingannare la mente di un Uomo accorto e sveglio come suo padre e a portare l'oscurità anche tra i cuori dei cittadini di Minas Tirith.

E ora lui era il nuovo Sovrintendente, in attesa della fine della guerra, in attesa di una decisione di Aragorn, che aveva preferito accamparsi fuori le mura della Città Bianca piuttosto che portare altro sgomento ad un popolo già sconcertato.

Raggiunsero le tende sui Campi ancora fumanti e maleodoranti, per riposare finalmente le loro stanche membra. Ma Boromir non aveva ancora intenzione di stendersi; almeno, non prima di aver cercato qualcuno. La vide seduta su una sporgenza rocciosa, le gambe strette contro il petto e lo sguardo cieco di chi non osservava realmente ciò che la circondava. Anche al buio vide la candida fascia che le avvolgeva la spalla lussata dalla caduta da cavallo. Fece per avvicinarla, ma la mano risoluta di qualcuno lo fermò prima che potesse muoversi. Boromir si voltò ed incontrò gli occhi chiari di un Ramingo avvolto nel consueto mantello grigio.

«Fossi in te non lo farei.» lo ammonì, lanciando un'occhiata preoccupata alla donna. «Quando morì suo padre non parlò per settimane intere e mangiò ancora meno.»

Bastò solo un rapido sguardo alla mano che lo fermava per un braccio, affinché Elegost il Dúnedain, lo lasciasse andare. «E immagino che sia giusto lasciarla cadere nello sconforto in completa solitudine?»

Il Ramingo strinse le labbra, portando istintivamente una mano all'elsa della spada, pendente sul fianco sinistro. «Dico che ho tentato di rincuorarla, mentre Aragorn era via quest'oggi, ma niente è servito a smuoverla da quella roccia.»

«Allora lascia che perda il mio tempo e la mia voce con una persona che preferisce tacere per il dolore, e che ha a sua volta perso il suo tempo e la sua voce per me, quando più ne necessitavo.» replicò Boromir, non riuscendo a nascondere una lieve punta di orgoglio.

Elegost fece un passo indietro, colpito da quel tono autorevole e dalla medesima preoccupazione che gli leggeva negli occhi. «Tu sei Boromir.» Non era una domanda, ma quasi un'osservazione di resa, come se quel giovane Ramingo capisse il significato di quel nome e si tirasse indietro davanti all'evidenza dei fatti. Era lui, dunque, il motivo per cui Brethil aveva lasciato la Grigia Compagnia e il suo capo più autorevole.

Il Capitano della Torre Bianca annuì. «Sei un suo amico?»

«Il mio nome è Elegost, signore, e conosco Brethil da quando eravamo bambini. Ma forse ha più bisogno di Aragorn, o di te, che di me.»

L'espressione dura di Boromir parve addolcirsi. «In momenti come questi ognuno deve dare il suo contributo. Anche se tenterà di allontanarvi, in futuro capirà quanto fondamentale sia stata la presenza di tutti. Ora va' e riposa. Domani sarà ancora più pesante di oggi.»

Elegost osservò il nuovo Sovrintendente di Gondor recarsi verso l'amica e chinò il capo, mentre tornava dal resto dei Raminghi, silenzioso e pensieroso.

Boromir lasciò pochi passi di distanza dal punto in cui Brethil sedeva, immobile come una statua. Alle sue spalle si ergeva Minas Tirith, rovinata dalle pietre lanciate dalle catapulte, fumante in alcuni punti, ma ancora in piedi nonostante il brutto colpo subìto quel giorno. E la donna gli parve come la sua bella città: era ferita profondamente nell'animo, sanguinava copiosamente e perdeva ogni energia, ma non cedeva alla disfatta, ritta e fiera su quella roccia. Rimase in piedi accanto a lei, a mirare il vuoto, per minuti interi, senza che l'uno o l'altra facesse o dicesse qualcosa per spezzare quel brutto momento di silenzio. Cosa avrebbe potuto dire senza cadere nella banalità?

Poi, quando anche l'Uomo stava per desistere e tornare alla sua tenda, la voce spezzata di lei lo fermò.

«Rimani, ti prego.» gli sussurrò, senza voltarsi.

E lui rimase. Le si sedette accanto, ai piedi di quella sporgenza naturale, e guardò il cielo plumbeo. La vaga sensazione di una lieve brezza dal mare parve rinfrescargli il viso accaldato, ma fu solo un istante che svanì poco dopo.

«Ho saputo di tuo padre, mi dispiace.»

Boromir scosse il capo, incredulo. Piangeva in silenzio per la perdita di un suo caro amico e si dispiaceva anche per la morte di suo padre. Eppure il fatto che parlasse, a discapito di quanto detto dal Ramingo poco prima, lo sollevò un poco. «Una morte poco onorevole, la sua, ma ahimè, Minas Tirith ha perso una grande guida e io un padre che ho amato sempre.»

La sentì sospirare profondamente, per poi chiedergli: «Tuo fratello?»

«È vivo.» rispose in un sorriso. «Aragorn ha davvero le mani di un re guaritore.»

«Finalmente una buona notizia.»

Trascorsero altri infiniti minuti di silenzio, ma lo sforzo con cui Brethil tentava di trattenere le lacrime svanì poco a poco. «Ho visto lui, non te... nel sogno c'era lui.»

Il cuore di Boromir si fece pesante nell'udire quella voce spezzata dai singhiozzi. Non sopportava la vista di qualcuno piangere e ancor meno se questo qualcuno fosse Brethil. Lei, che gli aveva dato la forza di continuare a vivere, non meritava tutto quel dolore; meritava solo di sorridere dopo una vita di sacrifici, di fughe, di perdite. «Non potevi salvarlo.»

Lei annuì, quasi con rabbia. «Sì, avrei potuto, ma non l'ho capito. Non ce l'ho fatta.»

«Non puoi avere la pretesa di salvare tutti.»

Fu solo in quel momento che lei si voltò a guardarlo, gli occhi grigi colmi di lacrime. «Se non posso salvare le persone che amo, che cos'altro mi rimane?»

«Saresti morta oggi per salvare chi ami.» replicò lui, duramente. Si alzò, fermandosi davanti  a lei, e le asciugò le guance dalle lacrime. Indugiò con le dita sulle cicatrici e la sentì rabbrividire, forse perché nessuno aveva mai osato sfiorargliele. «È tutta la vita che tenti di proteggere chi ti circonda, Brethil. Queste sono un esempio. Anche io ho perso mio padre, oggi. La follia gli ha fatto compiere qualcosa che difficilmente gli perdonerò. Capisco quello che stai provando, perché anche se non conoscevo Halbarad, lo consideravi come un padre. Ma non pensi che non ci sia bisogno di aggiungere al dolore altro dolore? Smetti di addossarti tutte le colpe del mondo, smetti di compatirti. Ho visto fin troppa tristezza nel tuo viso nel breve periodo che ti ho veduta.»

Lei scosse il capo, stringendo le mani callose dell'Uomo e allontanandole dal suo viso. «È evidente che la mia vita non debba essere spensierata, Boromir. Nessuna vittoria, un domani, potrà essere gioiosa ora che lui non c'è più. Ma ti ringrazio, amico mio, ti ringrazio davvero. Sono felice di averti accanto.»

Boromir le si sedette accanto e le cinse le spalle con un braccio, un leggero bacio tra i corti capelli scuri, stando attento a non stringerla troppo per evitare di causarle dolore. «Perché non riposi qualche ora, prima che sorga il sole?»

Non ottenne subito una risposta, perché Brethil era indecisa su cosa rispondere. Non avrebbe chiuso occhio neanche volendo, questo lo sapeva bene; eppure, per una volta nella vita, sentì di non voler rimanere sola con i suoi pensieri. «Starai con me?»

«Se è ciò che desideri.» annuì. «Ma ti avrei fatto la stessa domanda, Brethil, poiché anche io vorrei averti vicina questa notte.»

Brethil ringraziò l'assenza della luce lunare e delle stelle, e la fida oscurità le nascose il rossore sulle guance. Posò il capo sulla spalla di lui e chiuse gli occhi umidi per le lacrime. Si sentiva così stanca e sfiancata da non riuscire ad alzare un dito; ma non per le energie perdute durante la battaglia. Era spossata dentro, da quel dolore che la stava lacerando lentamente e da troppo tempo, ormai. A volte avrebbe voluto chiudere gli occhi e addormentarsi per anni, nella vana speranza di potersi risvegliare, un giorno, e ritrovare ciò che aveva perduto.

Quella volta Brethil non ebbe l'incubo che l'aveva tormentata nei sonni precedenti, poiché ormai non vi era rimasto più niente da proteggere di quell'uomo senza volto e coperto del suo sangue. Eppure non riuscì comunque a chiudere occhio, neppure tra le braccia rassicuranti di Boromir, neppure con il suo respiro pesante sul viso. Non c'era più un soldato che si frapponeva tra lei e l'Orco, che veniva colpito al suo posto lasciandola raggelata sul mare di cadaveri e sangue che la circondava. Quel soldato era ormai molto lontano da quella terra, mentre lei era ancora lì, a calcare quel suolo intriso del sangue di migliaia, ad attendere il giorno in cui l'alba avrebbe nuovamente rischiarato la giornata e avrebbe regalato la speranza della nascita di una nuova Era, senza guerre logoranti e lotte per la supremazia. Ma come poteva esservi speranza, se il destino di tutta la Terra di Mezzo era nelle mani di due giovani Hobbit, lasciati a vagare per la terra desolata di Mordor e guidati dall'essere più meschino e avido che potesse esserci? Un essere che era libero solo ed esclusivamente a causa sua. Come avrebbe potuto vivere con il peso di quel fardello, se la situazione fosse precipitata nel baratro che vedeva crescerle accanto, sempre più nero e profondo? Non il perdono di Aragorn o quello di Boromir, né di tutte le genti che popolavano Arda sarebbero bastate per risollevarla dai sensi di colpa. Come avrebbe potuto, d'altronde?

«Brethil.»

La donna sollevò lo sguardo sul Sovrintendente di Gondor, ridestandosi dai suoi pensieri.

«Cerca di dormire.» le sussurrò, stringendola più forte. «Riesco a sentire il rumore dei tuoi pensieri anche se non parli.»

«Scusami.» mormorò lei, sentendosi in colpa. «Ti ho svegliato?»

Boromir accennò un sorriso. «No, non ho neppure chiuso gli occhi. Ti ho osservata un paio di volte, ma tu non hai dato cenni di notarmi.»

Niente poté impedirle di arrossire, quella volta, e lui si accorse del suo imbarazzo, poiché la vide chinare gli occhi, mentre una lacrima scivolava senza controllo sul suo viso martoriato.

«Brethil...» ripeté l'uomo, sospirando.

Ma lei si divincolò dalle sue braccia, asciugandosi gli occhi e alzandosi repentinamente. Strinse i pugni per la rabbia e l'inadeguatezza e, dopo aver sussurrato qualche scusa, scappò dall'accampamento, diretta lontano da tutti. Boromir si sentiva troppo stanco e troppo impotente per correrle dietro, così rimase a guardarla finché non scomparve nell'oscurità.

 

La Dùnadan si ritrovò senza quasi accorgersene laddove una lancia con uno stendardo che ben conosceva svolazzava sotto il lieve venticello che si era alzato da ovest. S'inginocchiò davanti al monticello di terra sotto il quale riposava Halbarad e vi posò sopra le mani, nella vana speranza di poter percepire la sua presenza, un'ultima volta. Ma la fredda terra non le diede ciò che cercava. Alzò lo sguardo al cielo plumbeo e chiuse gli occhi, stringendo il terreno tra le dita.

Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe potuto salvarlo.

Era questo che continuava a ripetersi come un mantra, anche se era ben consapevole del fatto che, riconoscendo le sue ennesime colpe, Halbarad non sarebbe tornato dal mondo dei morti.

«Lui non se n'è andato, thêl. Non ti lascerebbe mai sola.» fece la voce di Elladan alle sue spalle.

Sentì la presenza dell'Elfo chinarsi accanto a lei e cercò la sua mano, stringendogliela per ritrovare un po' di quel calore che aveva perso. «Non riesco più a vederlo.»

Lui sorrise, ricambiando gentilmente la stretta. «No, ancora non puoi. Ma lo senti, nel tuo cuore. E se ti concentrerai riuscirai anche a scorgerlo, un giorno.» Fece una pausa e lei chinò il capo sul cumulo di terra. Poi riprese a parlare, con la sua voce calma e rilassante. «Credo che lui sapesse a cosa stesse andando incontro. Quando udì il tuo racconto del sogno lui portava già il Vessillo del Re, dono di mia sorella Arwen al suo amato. Ma non ne fece parola con nessuno, specialmente con te. Perché aveva capito, in cuor suo, che tu avessi il bisogno di tornare qui, a Gondor, per stare accanto al tuo amico.»

Brethil sorrise, senza allegria. «Lui capiva sempre tutto...»

«Era un Uomo intelligente e sveglio, di gran lunga più arguto di molti altri. E ti conosceva meglio di chiunque.»

«Mi manca già terribilmente, Elladan. Rimpiango quell'anno di silenzi, quell'anno che avrei potuto spendere insieme a lui, a tutti voi.»

«Lo so, thêl. Ci sono molti avvenimenti nella vita di ognuno di noi che vorremmo eliminare, errori imperdonabili e altri trascurabili. Ma non puoi crogiolarti nei sensi di colpa, o nei se e nei ma. Ciò che è stato non è possibile cancellarlo o modificarlo. C'è bisogno del tuo temperamento, in questi giorni funesti. Non lasciare che il dolore annebbi la tua mente, né oggi, né in futuro.»

Brethil prese un respiro profondo e annuì. Tornarono insieme all'accampamento, ma non trovò l'Uomo dove l'aveva lasciato, vicino alla roccia solitaria su cui si era abbandonata quella sera. Così si avvicinò alla tenda dove riposava Boromir. Non vi era nessuno che la spiava, così vi entrò e lo trovò profondamente addormentato. Sospirò stancamente e si stese accanto a lui, provando a dormire.

Quella volta ci riuscì.

 

La decisione venne presa in una mattinata densa di riunioni e tattiche di guerra. Molti, se non la maggior parte, erano fermamente convinti che la loro fosse una mossa avventata e stupida, presa da un disperato futuro Re che non sapeva come arginare la situazione. Ed effettivamente così era: recarsi con settemila lance davanti al Cancello Nero di Mordor era una mossa suicida, da cui probabilmente nessuno di loro avrebbe fatto ritorno.

Eppure Boromir, che ben si fidava del suo amico, non vide soluzione migliore per occupare l'Occhio verso lidi ben lontani dal cammino periglioso di Frodo e Sam. Non sapevano dove i due Hobbit fossero, né se camminassero ancora per quelle terre desolate ed oscure; ma potevano solo sperare che il loro sacrificio potesse servire a qualcosa per le generazioni future. D'altronde, per Boromir quello era il minimo che potesse fare. Se non avesse attaccato Frodo, quel funesto giorno ad Amon Hen, la Compagnia sarebbe probabilmente ancora unita e la fiamma della speranza forse più viva.

L'uomo osservò con attenzione i presenti e non vide segni di incertezze o ripensamenti nei loro volti provati dalla guerra e dalle preoccupazioni. Aragorn era stato chiaro e sicuro, durante l'esposizione del suo piano, e soprattutto convincente. Tutti erano pronti a servire il proprio Re senza batter ciglio, poiché in lui credevano ciecamente. Incrociò lo sguardo di Brethil, seduta accanto ai gemelli di Imladris, e notò la luce di determinazione e la sete di vendetta che le brillava negli occhi. Un nodo gli chiuse la gola e uno strano senso di ansia gli serrò lo stomaco. Ripensò a quella mattina, quando si era svegliato da quelle poche ore di sonno e la prima cosa che aveva visto era stata lei, accoccolata contro di lui. Era stato sorprendente e piacevole rendersi conto che fosse voluta tornare da lui, quella notte, nonostante la sua piccola fuga; così come gli era sembrato normale potersi svegliare e incontrare subito quel viso sfregiato a pochi centimetri dal suo.

L'ansia si fece più acuta quando, sciolto il Consiglio, Brethil si avvicinò al Ramingo e s'inginocchiò, porgendogli Celeboglinn. Sapeva cosa significasse quel gesto, sapeva che avrebbe voluto combattere con lui, con loro, mettendo a repentaglio la sua vita solo per vendicare la morte di quell'uomo che tanto aveva amato. Ma avrebbe potuto permetterle che buttasse al vento la sua travagliata esistenza? Lui era il Sovrintendente di Gondor, nonché amico fidato di Aragorn, e aveva il diritto e il dovere di seguirlo ovunque lui comandasse. Ma lei? Lei era solo una donna che aveva imparato ad ammirare sopra ogni cosa, devota alla sua gente e alle persone che amava. Ed era troppo giovane per gettarsi tra le braccia della morte.

Allungò una mano verso il braccio di Aragorn, approfittando del fatto che lei tenesse la testa china, e scosse il capo. L'altro sospirò, voltandosi verso l'amica.

«Se tu lo vorrai, mio signore, combatterò ancora una volta per te. Fino alla morte.» disse la donna.

Aragorn si sentì orgoglioso della creatura che aveva di fronte e non poté frenare un sorriso spontaneo, in tutta quell'ombra e quella disperazione. Le mise una mano sulla spalla sana, intimandole di alzarsi, e così fece lei. «Brethil, amica mia, vorrei tanto che le nostre spade s'incontrassero ancora una volta sul campo di battaglia. Ma non sei in condizioni di combattere e non posso rischiare di perdere anche te.»

Gli occhi della donna sgranarono per la sorpresa. «Aragorn, posso combattere, non sarà il dolore a fermarmi. Ho impugnato una spada con ferite ben più gravi di una lussazione alla spalla.» continuò Brethil, sorda al rifiuto del futuro Re di Gondor. «Non negarmi questo onore, ti prego... non lasciarmi in una città sconosciuta a tormentarmi nei pensieri e nelle preoccupazioni, sapendo che probabilmente non rivedrò più nessuno di voi.»

«È follia, Brethil.»

L'espressione di lei s'indurì visibilmente. «Non è forse anche follia cavalcare verso la morte dell'Est?»

«Sì, lo è, ma è l'unica via da seguire in questo momento. Minas Tirith non reggerebbe ad un altro attacco massiccio come quello ricevuto solo pochi giorni fa. Il Nemico si muove velocemente e deve mantenere viva l'attenzione sulla guerra.»

Brethil cercò lo sguardo di Boromir, sperando di trovare in lui un valido alleato che appoggiasse le sue volontà, ma lui voltò il capo pur di non doverla guardare negli occhi e confermare le parole del suo amico. «Dunque, avete già preso una decisione al mio posto.» disse atona, le labbra strette per l'affronto, così come le mani, chiuse a pugno sulla lunga elsa della spada elfica.

Aragorn le accarezzò il viso. «Vivi, Brethil. Vivi per me, per Boromir, per Halbarad e per tutto ciò di più caro che hai su questa terra. Sei giovane, e forte, e...»

«Ciò che di più caro ho al mondo sta andando contro la morte. E sono una Dùnadan che ha giurato di servirti, Aragorn. È la mia vita da sempre, ed è una mia scelta.»

«Non posso permettertelo.» ribatté l'altro, con l'intenzione di chiudere il discorso. «Non hai la lucidità e le capacità fisiche per combattere.»

«In due giorni posso recuperare i problemi alla spalla, Aragorn.» continuò Brethil, con le lacrime agli occhi. S'inginocchiò, stringendo la terra tra le mani. «Ti prego, non mi rimane nient'altro se non combattere. Non togliermi anche questo.»

Trascorse qualche secondo prima che il Ramingo tornasse a parlare. «Partiremo tra tre giorni, all'alba. Fatti trovare pronta.» Il sorriso di Brethil lo fece sentire in colpa per quella piccola bugia, ma si ritrovò a ricambiare il gesto, abbracciandola e baciandola sulla fronte. «Va', ora, e riposa la mente e il corpo.»

La donna si allontanò e Aragorn scambiò una profonda occhiata con Boromir, rimasto in silenzio a pochi passi da loro. «Ti detesterà per quello che stai per farle, Aragorn.»

«Lo so bene, amico mio, ma non ho scelta.» Il Ramingo si lasciò cadere su uno sgabello di legno, stanco. Tutte le responsabilità che lo attendevano come Re erano niente al confronto con il temperamento ottuso di Brethil. «Ma non è la ferita alla spalla che mi preoccupa, poiché quella guarirebbe per tempo se glielo permettessi. È ciò che si sta sedimentando nel suo cuore a lasciarmi inquieto. Non posso permetterle di vedere la morte di uno di noi. Non di nuovo, non così presto.»

Boromir guardò verso Est, le nuvole nere dense di fumi e cenere gli serrarono le parole in gola. Il dolore che stava provando per la perdita del padre era qualcosa di così intenso che non avrebbe saputo descriverlo e capiva Aragorn quando temeva per Brethil. Anche lei aveva perso qualcuno che amava come un genitore e, peggio ancora, le era morto tra le braccia. Una persona non avrebbe dovuto vivere tutto quel dolore, non una come lei, che aveva già sofferto abbastanza. Non sapeva se sarebbe riuscito a tornare a Minas Tirith dopo quell'ultima, disperata missione, né se con lui avrebbero cavalcato Aragorn, o Legolas e Gimli, o chiunque dei suoi soldati. Ma la sola idea di lasciarla da sola nel suo dolore gli fece capire di non voler morire, non ancora. Sarebbe caduto con gloria, accanto al suo Re, di questo non aveva dubbi né paure; ma non si sarebbe mai perdonato di abbandonarla nel peggiore dei modi: prendendosi gioco di lei e lasciandola indietro senza un addio.

«Faremo ritorno insieme, come mi hai promesso, e lei capirà il tuo gesto.» lo rassicurò, stringendogli la spalla con una mano. «Una volta che attraverseremo il cancello di Minas Tirith lei sarà lì ad attenderci e ad accoglierci, come Re e Sovrintendente.»

Aragorn sorrise, perdendosi un attimo in quel pensiero allettante che però pareva solo un vago sogno. «Ora capisco perché i tuoi soldati ripongano così tanta fiducia nei tuoi confronti, Boromir. Sai sempre usare le parole migliori nei momenti peggiori.»

L'Uomo di Gondor si lasciò sfuggire una roca risata. «Approfitta del momento, perché solitamente le orazioni  migliori le pronuncio in battaglia.»

«Spero di non udirti più parlare, allora. Con tutto il rispetto, amico mio.»

Boromir scosse il capo, sorridendo, e insieme si avviarono verso le loro importanti faccende. Aragorn doveva preparare l'esercito che li avrebbe accompagnati verso il Cancello Nero, impartire le ultime direttive a quelli che rimanevano e contare quante lance avessero a disposizione, mentre Boromir, come nuovo Sovrintendente di Gondor, doveva pensare a meglio governare la sua città prima della partenza.

Sarebbero stati due giorni intensi, quelli.

E sperò vivamente che Brethil rimanesse all'oscuro delle loro vere intenzioni, o la guerra contro Mordor sarebbe sembrata un semplice diluvio prima della vera tempesta.

 

 

17 Marzo 3019 T. E.

 

Era sera inoltrata quando Brethil concluse il suo allenamento in solitaria. La spalla le doleva ancora, ma Aragorn le aveva insegnato come curarsi con le proprie mani e, sebbene non riuscisse a muoverla senza qualche difficoltà, era conscia che durante il viaggio verso Mordor si sarebbe rimessa completamente, pronta ad affrontare la loro ultima, gloriosa battaglia. Tornò alla sua stanza e notò lo Hobbit seduto accanto ad un pensieroso Gandalf, che fumava lentamente e in silenzio. Si avvicinò ai due senza una parola, perché anche lei aveva i suoi pensieri da lasciar vagare nella mente. Il dolore per la perdita di Halbarad diventava ogni ora più insopportabile e non vedeva l'ora di avere la concentrazione completamente rivolta verso la guerra, per non ritrovarsi costretta a divorarsi dai sensi di colpa e dalla sofferenza.

Strinse la mano tremante di Pipino, che si voltò a guardarla come se la vedesse per la prima volta. Era visibilmente spaventato e non poteva biasimarlo. Uno Hobbit non conosceva il reale significato di una guerra, né avrebbe mai affrontato un discorso così angoscioso nelle taverne allegre e spensierate della Contea. Eppure eccolo lì, terrorizzato e stanco, incredulo ed incapace di reagire di fronte a tutto quel male.

«Dovresti andare a dormire, amica mia.» fece Gandalf, con voce baritonale. «Tra poco più di un giorno partirai in guerra e sei ancora molto debole.»

Pipino abbassò il capo, sospirando pesantemente. Sapeva della piccola bugia che le era stata detta e che l'esercito avrebbe preso il via l'alba seguente, tra poche ore; sperava solo di non lasciarsi scappare alcuna parola che avrebbe potuto far vacillare la menzogna. "Bada bene a come utilizzi la tua lunga lingua, Peregrino Tuc. Brethil non deve sapere delle reali intenzioni di Aragorn", lo aveva avvertito lo Stregone. "Trascorrerà la gran parte del suo tempo in solitudine e non avrà modo di scoprirlo, se non da uno di noi."

«Non troverò riposo tra le lenzuola, Gandalf.» fece Brethil, ridestando lo Hobbit dai suoi pensieri. «Oramai mi sono abituata a dormire poco e male.»

«La spalla?»

«Guarirà.»

Passarono lunghi minuti di silenzio, interrotti solo dai lievi sbuffi di fumo dello Stregone. Pipino strinse la mano della donna, chiudendo gli occhi. «Mia signora, tu non hai paura?»

Gli occhi grigi di Brethil si posarono sul piccolo amico e annuì. «Sono terrorizzata, messer Peregrino. Come te. Come tutti.»

«Ma non sembra che tu lo sia...» fece Pipino, incerto su cosa dire successivamente. «Insomma, sei silenziosa e ferma. Mentre io non riesco a smettere di tremare come una foglia. Non ho memoria di aver provato un tale terrore in tutta la mia vita, se non con uno di quei Cavalieri Neri alle calcagna. Mi mozza il fiato.»

Brethil gli passò un braccio dietro la schiena e se lo avvicinò contro il petto, dandogli un leggero bacio tra i capelli riccioluti. «La vita che ho trascorso mi ha insegnato a non mostrare molto di ciò che provo. Ma ho paura, una terrificante paura di perdere tutto ciò che di più caro ho. È normale che ti senta così, amico mio, e ti capisco. Persino il Nemico ha paura, perché la fiamma della speranza arde ancora e non sa cosa quale pericolo cammina sul suo territorio. Non è forse un po' rassicurante, questo?»

Lo Hobbit annuì, rinfrancato dalle sue parole di conforto e da quel caldo abbraccio, e la strinse con forza, reprimendo a stento qualche lacrima. La Dùnadan e Gandalf si scambiarono un'occhiata significativa, ma lui scosse il capo. Pipino avrebbe dovuto affrontare quell'ennesima prova di coraggio e avrebbe mantenuto alto l'onore degli Hobbit, come aveva fatto suo cugino Merry e come stavano facendo Frodo e Sam. Non sarebbe rimasto indietro, sebbene la via per il Cancello Nero fosse l'ultima che avrebbe voluto percorrere.

«Quando ero alle prime armi qualcuno mi disse che il coraggio di un uomo sta nell'ammettere di avere paura. E se tu trovi questo coraggio, Peregrino Tuc, troverai anche la forza di combattere.» proseguì Brethil. Cacciò indietro le lacrime nel ripensare a quel giorno in cui Halbarad, in vista della sua prima battaglia, le aveva fatto forza con quelle poche e semplici parole. Quello era stato il primo di molti insegnamenti che l'Uomo le avrebbe regalato e che avrebbe tenuto nel cuore e nella mente fino al giorno della sua morte. Ma quello stesso Uomo ora non c'era più e Brethil non aveva la minima idea di come affrontare il resto della sua vita senza una guida come la sua. Aveva già sofferto la morte di suo padre quando necessitava di così tanti insegnamenti; perché i Vanir avevano deciso di accanirsi contro la sua famiglia? Era forse quello un modo per punirla debitamente delle sue azioni?

Pipino alzò lo sguardo sulla donna e si sforzò di sorridere, attirando la sua attenzione con un lieve colpo di tosse. «Lascia che ti dica, dama Brethil, quanto io sia stato fortunato ad incontrarti, nonostante tutta questa oscurità. Ora capisco perché Aragorn e Boromir provano così tanto amore per te. Riesci a trovare le parole giuste per tutti, tranne che per te.» Si sporse per baciarle una guancia sfregiata e lei sorrise tra le lacrime, osservandolo mentre si metteva in piedi e s'inchinava solennemente. «Ti auguro tutto il bene di questa bella terra, Brethil la Dùnadan.»

Sembrava quasi un addio, quel saluto, ma Brethil non vi badò. Seguì con lo sguardo Pipino, che si ritirò nella stanza che condivideva con lo Stregone. Questo non lo seguì, preferendo rimanere ancora qualche minuto in silenzio, lo sguardo rivolto verso le nuvole scure e tempestose di Mordor, nella speranza di poter allungare lo sguardo oltre quelle nere montagne e scorgere i due piccoli esseri che aveva spedito nella follia qualche mese addietro.

«Mi ritiro anche io, Gandalf. A domani, e buona notte.»

Lo Stregone annuì e le sorrise. «A domani, Brethil.»

La donna s'incamminò verso il suo alloggio, muovendo un poco la spalla indolenzita e trattenendo a stento una smorfia di dolore. Arrivata davanti alla porta della stanza, allungò una mano verso la maniglia, ma fermò ogni suo gesto appena si accorse di qualcuno alla sua sinistra. Si voltò e vide un Boromir segnato dalla stanchezza e dalla preoccupazione.

Le sorrise, avvicinandosi lentamente. «Perdona l'ora tarda, amica mia, ma troppi pensieri ingombrano la mia mente per permettermi di chiudere occhio.»

«Non preoccuparti, neanche io riuscirò a dormire stanotte, né quelle a venire.» gli rispose, ritirando la mano e stringendosi nelle spalle. «Volevi parlarmi?»

L'uomo si passò una mano sul collo e sospirò. Sì, aveva bisogno di parlarle, di udire il suono della sua voce, di averla accanto solo per qualche istante eterno, affinché potesse portare con sé la sua immagine fino al momento della morte. Ma come fare per non darle l'impressione che quello non sarebbe stato un arrivederci al mattino seguente?

«Vieni, camminiamo un po'.» le disse, porgendole un braccio che lei accettò riluttante, arrossendo un poco.

Brethil aveva capito, ormai, che le buone maniere di corte obbligassero chiunque a seguire determinate regole, ma era notte fonda e non vi era nessuno che potesse badare ai loro modi, se non le solite guardie della Cittadella; eppure Boromir questo parve scordarlo. Il calore della sua vicinanza la mise in imbarazzo e chinò lo sguardo verso i suoi piedi, trovandoli di gran lunga più interessanti della città devastata che le si apriva intorno.

Camminarono in silenzio per parecchi minuti

«Come stai, amica mia?»

«La spalla è ancora dolorante, ma sopravvivrò.»

«Sì, lo farai.» mormorò lui e catturando l'attenzione della donna. Boromir sorrise. «Ma confido nelle tue doti di guaritrice e non mi riferivo alla spalla.»

«Oh.» Brethil prese un respiro profondo appena si rese conto che la gola si stava chiudendo per l'angoscia. Erano quei momenti in cui il dolore si faceva così forte da non permetterle nemmeno di respirare adeguatamente. Si schiarì la voce, temendo di averla persa. «Elladan dice che supererò tutto, prima o poi. Ma non credo di riuscirci, non da sola.»

Boromir si fermò, portando le mani callose sul viso di lei. Persino nella penombra si accorse che fosse arrossita. Ma perché mai avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo con lui? Non erano forse amici? Scacciò quelle strane domande, concentrandosi su ciò che avrebbe voluto dirle prima di salutarla per sempre. Era andato da lei con un proposito, uno sciocco proposito, ma dopo tutto quello che Brethil aveva fatto per lui, dopo tutte belle ed incoraggianti parole spese per riportarlo indietro lontano dall'Ombra, per lui era il minimo che potesse fare. «Brethil, amica mia, non sarai mai sola. Hai così tante persone pronte ad amarti che questo dovrebbe essere l'ultimo dei tuoi pensieri.»

«Sì, forse hai ragione, ma...» Lui non sarebbe più tornato. «... ma la guerra porta sempre via pezzi della tua vita, quando non decide di sottrartela direttamente.»

«Brethil.» L'uomo le asciugò le guance dalle lacrime e si chinò su di lei, poggiando la fronte contro la sua. «Ha sacrificato la sua vita per salvare la tua. Lo avresti fatto anche tu, come me, o Aragorn. Solo che tutto questo dovrà finire, prima o poi.»

La donna si allontanò un poco, confusa. «Quando? Con la mia morte, forse? O con quella di qualcun altro? Boromir, spiegami il motivo per cui sei venuto a parlarmi, perché ho il sentore che sia qui per una ragione precisa e voglio sperare che non sia come sospetto.»

Boromir quasi rise della perspicacia della donna. Ma avrebbe dovuto immaginarlo, poiché ella era incredibilmente sveglia ed intelligente. «Sono qui per chiederti con tutto l'amore che provo per te di abbandonare le armi, una volta che tutto questo sia finito.» Non le diede il tempo di stupirsi, perché la zittì riprendendo a parlare. «Brethil, sei giovane e hai visto fin troppi orrori. Risparmiateli e vivi gli anni più floridi della tua vita lontano dalle battaglie. Non potrei sopportare anche la tua perdita. Una volta che Aragorn diventerà Re i Raminghi non avranno più senso di esistere e potrai vivere una vita normale con qualcuno normale che...»

«Basta, non voglio ascoltare oltre.» fece Brethil, portandosi a qualche passo di distanza. «Che cosa ho fatto per meritarmi il vostro risentimento? Ho forse dato prova di debolezza in battaglia? Non ho forse onorato a sufficienza il mio ruolo? Perché vi ostinate tutti a considerarmi solo una donna cocciuta che desidera morire? Credi davvero che impugnare un'arma sia un piacere, per me? Credi che sia così ingenua che non preferirei stare tra la familiarità di un focolare, nella mia casa? Purtroppo non ho una casa, da molto tempo, e combattere è tutto ciò che ho, che ho sempre avuto e che riesco a fare. È la mia vita, Boromir, che ti piaccia o no.»

L'Uomo rimase piacevolmente impressionato da quel piccolo scatto d'ira. Ai suoi occhi Brethil era sempre stata calma e garbata, anche nelle situazioni peggiori, e mai avrebbe pensato di vederle quella scintilla di rabbia nello sguardo. Pur non alzando il tono di voce gli parve che avesse gridato. Era evidente che poche persone nella sua giovane vita le avessero intimato di smettere con quell'attività pericolosa e ingrata per una donna, perché rispettavano cosa faceva. Ma anche lui provava orgoglio e rispetto per la sua determinazione. Era unicamente preoccupato per la sorte della sua cara amica e al solo pensiero di lei privata delle persone che più amava lo accecava dalla rabbia e dallo sconforto. Perché sembrava non volerlo capire?

Era evidente che lui avesse oltrepassato il limite della sua pazienza. Ma non voleva che ricercasse la vendetta nella guerra, né che si sentisse sola. Avrebbe potuto sopportare l'eventuale morte di tutti i suoi amici, dopo quella loro folle mossa suicida? Certamente no.

«Brethil...»

«No, Boromir, quelle erano le mie ultime parole in proposito.»

L'Uomo strinse le labbra, maledicendo la testardaggine di lei. Non era quello il modo in cui sperava di salutarla; non voleva partire avendo il suo rancore, né voleva lasciarla senza un sorriso come ricordo da tenere nel cuore. Eppure avrebbe dovuto immaginare che una donna cocciuta come lei non avrebbe acconsentito facilmente ad una così gentile richiesta. «Molto bene, buona notte, allora.» Fece per andarsene, affranto dallo sguardo arrabbiato di lei. Ma sentì una presa forte al suo polso e fu costretto a voltarsi.

Brethil tenne lo sguardo ostinatamente basso. «Ti ringrazio per le tue paure, Boromir, davvero. Ma se lasciassi la strada che imboccai da piccola mi sentirei perduta e non mi rimarrebbe altro.»

«Avresti me.» L'uomo notò nuovamente il disagio crescere in quegli occhi grigi a causa di due semplici parole e, dopo una rapida carezza al volto, si allontanò, turbato, augurandole una veloce buona notte. Non era tempo per porsi scomode domande, né per analizzare a mente lucida cosa fosse quell'imbarazzo da parte dell'amica - né il disagio che lui stesso stava provando. Era troppo stanco e inquieto per la partenza del giorno dopo, per potersi permettere di aggiungere altre preoccupazioni alla sua mente spossata.

Perché era sicuro che qualsiasi pensiero del genere gli avrebbe portato unicamente preoccupazioni.

 

 

 

*

 

Questo capitolo mi ha fatta soffrire più del precedente - perché è normale per la scrittrice commuoversi nel rileggerlo, quando dovrebbe avere la lucidità di correggere eventuali errori, no? -.-

Dannata Brethil e dannati sentimentalismi!

Vi do appuntamento alla prossima settimana, anche se non vi lascio un giorno esatto. Il capitolo successivo è in fase di stesura, ma come sapete vorrei iniziare ad imbastire anche quello dopo, per non lasciarvi troppo tempo senza un aggiornamento. Confido nel mio tempo libero - l'ispirazione, per fortuna, è ancora qui. :)

A presto!

Marta.

 

 

   
 
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