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Autore: HeavenIsInYourEyes    14/07/2012    9 recensioni
Così la strinse piano, trattenendola un po’ di più a sé, sussurrandole a fior di labbra un debole –Resti qui?- che era un po’ come dirle "Ho bisogno di te".
-Quanto vuoi.- la sentì bisbigliare dopo quella che gli parve un’eternità.
E si fece bastare quel "Quanto vuoi", che era un periodo di tempo ragionevolmente lungo visto che spettava a lui decidere quando mandarla via.
Già.
Peccato che in un momento di completo blackout mentale, si disse che nemmeno tutto il tempo del mondo gli sarebbe bastato.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, T.O.P.
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

Lindsay Moore

 

She's an endless war, like a hero for the lost cause

Like a hurricane, in the heart of the devastation

She's a natural disaster

She's the last of the American girls”

-The last of the American girls, Green day-

 

 

Le note dei Guns n’ Roses risuonarono nella Cadillac Eldorado nera del 70’, sovrastando i rumori della caotica Seoul e i sospiri pesanti del guidatore. La ragazza sul sedile del passeggero guardava la città scorrere veloce davanti a sé, lasciando un braccio a penzoloni cosicché l’aria potesse carezzarle dolcemente la mano bianca.

-Potresti abbassare il volume?- l’uomo le lanciò un’occhiata di sbieco; la diretta interessata guardò il cielo da sotto gli occhiali da sole e si allungò, abbassando di una tacca –Ti ringrazio per la tua disponibilità e gentilezza.- borbottò ironico, tamburellando le dita sul volante.

-Se vuoi rimetto le cuffie.- gli rivolse un sorrisetto prima di adagiarsi meglio sul sedile, le converse scure ora appoggiate sul cruscotto, agitando l’Mp3 nero.

-No, ma sarei felice se togliessi i piedi da lì- le diede una sberla sulle scarpe –L’ho pulita l’altro giorno- la ragazza sbuffò e si rannicchiò sul sedile. L’uomo lanciò un’occhiata allucinata alle suole appoggiate sulla tappezzeria ma non fiatò, limitandosi a massaggiare una tempia –Allora, com’è andato il viaggio?-

Una smorfia le imbruttì i lineamenti delicati del viso ovale -Terribile. Un bambino continuava a darmi i calci sul sedile- un sorrisetto spuntò mentre si indicava le braccia gracili su cui svettavano alcuni tatuaggi –Quando le ha viste, gli ho detto che sono una galeotta evasa dal carcere accusata di omicidio e ha smesso.- ridacchiò al pensiero di suoi enormi occhi saturi di paura e le unghie che si conficcavano sui braccioli del sedile.

-Lindsay— sbuffò il padre.

Aprì le braccia –Che c’è? Gli ho detto che se avesse parlato lo avrei cercato e ucciso- tolse gli occhiali, portandosi indietro i capelli e utilizzandolo come cerchietto –Papà, sto scherzando.-

-Simpatica- si stropicciò il volto –Hai chiamato Emily? Sa che sei arrivata?- Lindsay alzò le spalle –Diamine, Lin, sai che quella donna si preoccupa se non ti fai sentire.-

Però non si è preoccupata quando ha pensato bene di prepararmi bagagli e burattini e mettermi sul primo volo disponibile per la Corea, pensò stizzita mentre giocherellava con il cellulare –Dopo la chiamo.- replicò sventolando una mano, tornando ad alzare il volume mentre Welcome to the Jungle le infondeva un briciolo di buonumore. Mosse un poco le spalle, facendo ciondolare la testa a ritmo di musica.

-Pensavo ti fosse passata la cotta per Axl Rose.- sentenziò suo padre svoltando a destra.

-La cotta per lui, non per la sua musica.- continuò a canticchiare; il padre smorzò il suo entusiasmo alzando il finestrino quando si fermarono ad un semaforo.

-Questo rumore mi sta dando sui nervi.- il suo vocione la fece smettere di danzare.

-Rumore…- soffiò scuotendo la nuca -Una volta piacevano anche a te.- gettò un’occhiata al biglietto dell’aereo e, stranamente, quando vi lesse New York non provò alcuna sorta di mancanza o desiderio di scappare da quella macchina. Del resto, quel viaggio di dispiacere a Seoul significava stare lontana per qualche tempo dalla madre, quella donna isterica e squilibrata che sembrava vedere del marcio in ogni sua azione. Lo stropicciò e lo infilò nella tasca anteriore della borsa a tracolla e appoggiò la guancia sul finestrino mentre tutti quegli enormi palazzi si srotolavano davanti ai suoi occhi. Sorrise; in un certo senso era come non essersene mai andata da casa.

 

Lindsay Moore era una comune ragazza americana, con un nome e cognome banali, incapace di far chiarezza su cosa volesse fare della propria giovane vita e abile nel dare via ad una serie di problemi senza chiudere quelli che ancora la tormentavano. E ora si ritrovava immersa in un altro mondo, a chilometri di distanza da amici e parenti serpenti solo perché aveva combinato qualche marachella di troppo. Il fumo e gli alcolici non erano esattamente nella lista delle cose preferite di sua madre e aveva scoperto a proprie spese che molte altre cose non rientravano nelle sue grazie. Così eccola lì, armata di acido e zero voglia di rendersi simpatica, in direzione della casa di Mark Moore a cui ora stava squillando il cellulare, una fastidiosa suoneria da vecchio sordo capace di farle salire i nervi.


Vide suo padre sporgersi e spegnere la radio, le fece segno di tacere imponendo il palmo aperto davanti a sé e, guidando con una sola mano, cominciò a parlare la telefono in coreano. Lin si morsicchiò l’interno delle guance mentre provava a seguire il filo del discorso, rinunciandoci quando capì che no, non stava parlando di balene e pescherecci. Si appoggiò al sedile, infilandosi le cuffie bianche nelle orecchie. Il coreano non lo masticava granché bene, ma sinceramente non lo aveva mai creduto un problema. Aveva vissuto a Seoul fino a cinque anni e mentre sua madre continuava a parlarle in inglese, Mark aveva avuto la geniale idea di darle lezioni di coreano. Poi dalla capitale coreana si era trasferita nuovamente a New York per seguire il padre, assunto nella filiale americana della prestigiosa azienda di informatica per cui lavorava. Infine era cresciuta, i suoi si erano separati e Mark aveva pensato bene di abbandonarla in quell’enorme metropoli caotica per andarsene dall’altra parte del mondo. E no, le brevi e fugaci vacanze di tre mesi che aveva sempre trascorso con lui non erano sufficienti a incularle quell’ostica lingua in testa.

Il tremendo viaggio in macchina si concluse con qualche scambiò di parola in lingua locale, giusto per testare le sue doti oratorie e prenderla in giro, facendola sbuffare la maggior parte delle volte. Scese avvertendo le gambe formicolare e togliendo dal viso una ciocca di capelli sfuggita alla lunga treccia corvina, si ritrovò a guardare con una smorfia la villetta che le si era parata davanti agli occhi, così diversa dal grattacielo che era sempre stata costretta a scalare per arrivare al proprio appartamento. Scosse la nuca, recuperò la valigia e si fiondò in casa seguendo il padre che gettò le chiavi sul comodino all’ingresso.

Il rumore della tele accesa li portò in cucina dove una bambina, seduta al tavolo, ridacchiava alla vista di un cartone animato. Si volse stringendo il cucchiaio fra le labbra -Ciao papà!- il suo enorme sorriso si spense quando si scontrò con la figura sciatta di Lindsay –Oh, ciao.- alzò una manina e la sventolò piano.

Lin schioccò la lingua e alzò una mano ingioiellata –Ehi- e solo quando ricevette uno scappellotto sulla nuca da Mark, si premurò di essere un po’ più ciarliera –Ciao Minji, come stai? Oh, ma come sei cresciuta! Mi ricordo che eri piccola così e—

-Adesso basta, metti i brividi.- borbottò il padre con un mezzo sorriso mentre si piegava a prenderle la valigia e cominciava ad allontanarsi verso le camere da letto al piano di sopra.

Lindsay rivolse uno sguardo divertito alla sua larga schiena e, rimasta sola, si avvicinò al frigorifero della cucina, appoggiandovisi contro. Aprì la tracolla e tirò fuori la bottiglietta d’acqua recuperata all’aeroporto, lasciando che lo sguardo vagasse per tutta la cucina bianco candida, sui i fiori che riempivano la piccola sala fino a posarsi sulla bambina che, silenziosa, guardava un po’ lei e un po’ la televisione. Solo dopo qualche minuto scandito dagli improperi del padre dedicati alla valigia, la sorellastra si decise a rivolgerle la parola -Come mai sei qui? L’anno scorso non sei venuta.- c’era una punta di fastidio nella sua vocina, ma Lindsay non se ne preoccupò. Del resto, non erano mai state unite.

-Punizione.- si limitò a dirle.

-Mia mamma quando mi mette in punizione, mi dice di andare in camera.-

-La mia mi manda in Corea, invece.- si grattò la nuca mentre sentiva la sua risatina, dicendosi che no, sua madre non avrebbe potuto trovarle punizione peggiore. Si era davvero impegnata quella volta, doveva dargliene atto.

-Tua mamma è strana!-

-E’ una strega- mugugnò –Chyoko non c’è?- bevve un sorso d’acqua, corrugando la fronte quando vide Minji storcere il naso.

-Non si beve a canna. Si usa sempre un bicchiere.-

Lindsay si lasciò sfuggire una risata breve; rimproverata da una mocciosa di dieci anni con i codini e un inguardabile vestitino a fiorellini –E tu non lo sai che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda?- gettò la bottiglietta nel cestino, vedendola gonfiare le guance prima di tornare a guardare la ciotola di cereali.

-E’ a lavoro. Tornerà per pranzo.- infilò nella boccuccia una cucchiaiata di anellini di miele, tenendo gli occhi incollati al piccolo televisore sul bancone di marmo della cucina. Lindsay annuì, si dondolò sulla punta dei piedi e quando comprese come la sua voglia di chiacchierare pari a zero fosse condivisa anche dalla bambina, si dileguò.

Le imprecazioni del padre la guidarono fino alla propria camera scarsamente illuminata ma in ordine. Chyoko doveva essersi presa la briga di tenergliela pulita, pensò provando una strana sensazione di disagio che, per un istante, aveva fatto dissipare ogni sorta di rancore nei confronti di quella donna –Vuoi una mano?- posò la tracolla sulla soglia, portando le mani dietro la schiena.

-Non riesco ad aprirla!- diede una botta sulla parte anteriore, abbandonandola sul letto dalla trapunta a fiori –Valigia tua, problema tuo- borbottò alla fine, accarezzandosi la barba scura. Il silenzio imbarazzante che aveva tenuto loro compagnia per tutto il viaggio in macchina pensò bene di tornare a far loro visita. Lin strinse il laccio della tracolla, dondolandosi sulle punte mentre pensava a qualcosa da dirgli. Nh, forse dirgli che poteva andarsene da qualche altra parte non era proprio il modo più gentile per poter cominciare una conversazione. Fu lui ad attirare la sua attenzione con la sua voce grave –Senti, hai esperienza come barista?-

Lindsay sbatté le palpebre un paio di volte. Dubitava che essere l’addetta agli alcolici ai festini degli amici valesse come esperienza –Qualche cocktail lo so fare. Vuoi che ti prepari un Mojito?- fece per andarsene giù in cucina, ma la risata rauca del padre la fece bloccare.

-Non tengo alcolici in casa- a quella notizia, il cuore di Lindsay cominciò a piangere. Addio giornate in panciolle nel giardino a prendere il sole con una bella birra fredda ad allietarla –No, no, ti ho trovato un lavoro.-

Sgranò gli occhi nocciola -Che bell’accoglienza!- mormorò sarcastica, appoggiandosi allo stipite della porta mentre studiava la propria camera da letto. Era di un odioso rosa confetto scelto all’età di sette anni, quando credeva che un bellissimo principe azzurro sarebbe venuto a prenderla a cavallo di un destriero bianco e l’avrebbe portata verso il tramonto. Poi il bel principe azzurro si era trasformato in un tatuatore che veniva a prenderla a cavallo di una moto rombante e il tramonto, beh, erano le luci di Las Vegas.

Suo padre ignorò il tono scorbutico mentre apriva le tende per far entrare luce –Non sei qui in vacanza. E non voglio vederti a casa sul divano con una coca fra le mani.-

-Cos’hai contro la birra?- lo vide voltarsi con espressione arcigna. Conoscendolo, non ci avrebbe messo due secondi a ricomprarle un biglietto per l’America –E dove dovrei lavorare?-

-C’è un locale molto rinomato a venti  minuti da qui. Il Tribeca, lo hai mai sentito?- Lin scosse la nuca; la sua conoscenza di Seoul era molto limitata –Beh, il proprietario cercava una nuova barista e gli ho dato il tuo nominativo- le parve scocciato mentre dava quella spiccia spiegazione ma forse era solo stanco per essersi svegliato alle cinque del mattino –Per favore, Lin, non farmi fare brutte figure. Siamo amici da anni e vorrei evitare—

-Tranquillo, non prenderò a pugni nessuno- suo padre annuì, sbuffando alla vista delle sue braccia tatuate a sprazzi, come se non si fosse ancora abituato a tutte quelle immagini e quelle scritte, come se tutto ciò la rendesse più teppista di quanto non fosse –Quando dovrò iniziare?- abbassò le maniche della felpa di Minnie, impedendogli di continuare con la sua corrosiva osservazione.

-Stasera.- la superò con un sorriso divertito alla vista della sua faccia sormontata da stupore.

-Stasera?! Starai scherzando, spero!- lo seguì in corridoio, parandosi davanti a lui prima che potesse scendere le scale che portavano alla cucina, il salotto e lo studio –Sono stanca, non ho dormito in aereo! E come farò a servire i clienti? Il mio coreano è piuttosto fiacco e—

-Hai ancora 13 ore prima di iniziare a lavorare.  Chiyo ti ha comprato alcuni dizionari e quaderni per ambientarti con la lingua, sono sicuro che te la caverai. Hai anche il tempo per fare un pisolino, pensa un po’!- storse il naso a quelle parole, venendo nuovamente superata. Decise di non controbattere, anche perché non avrebbe ottenuto nulla da quel mulo di suo padre -Ti ha anche preparato dei vestiti puliti. Lavati e quando hai finito scendi per la colazione- Lin trattenne un’imprecazione fra i denti –E chiama Emily!- lo vide gettare la cravatta sul divano prima di sentire la risata di Minji e di Mark riempire l’aria.

-Che strazio.- bisbigliò a sé stessa, giocherellando con la punta della lunga treccia mentre si barricava in camera, serrando le labbra alla vista dell’enorme vocabolario che le ricordava il libro di fisica delle superiori tanto era grande e scritto con caratteri incomprensibili. Lo aprì controvoglia, scorgendo un post-it rosa con poche e semplici scritte in coreano:

 

Spero tu abbia viaggiato bene. Ci vediamo a pranzo.

Chyoko.”


 

Un sorriso spontaneo fiorì sulle labbra carnose. Forse quella punizione non sarebbe stata poi così tanto orribile.

 

 

A Vip’s corner:

Le presentazioni non mi escono granché bene, quindi non mi ci cimenterò nemmeno D: Sappiate solo che adoro i Big Bang e questa storiella mi frullava nella testa da un bel po’ di tempo… Così è nata la prima fanfiction della mia vita (siate clementi, please *.*).

So che come primo capitolo/prologo fa un bel po’ pena, ma mi serviva per introdurre il mio OC che spero non vi starà troppo sulle balle xD Adoro caratterizzare i personaggi e soprattutto scavare nella mente di tutti loro per capire cosa ne pensano. Spero uscirà qualcosa di decente e che voi possiate accompagnarmi in questa avventura magari dicendomi cosa ne pensate :) Critiche positive e negative sono sempre ben accette se servono a migliorarmi :)

Che dire? Ah, sì, i Big Bang (Top ♥, Tutti ♥ ) compariranno nel prossimo capitolo, non disperate ;) Se volete vedere come continua, non c’è che da aspettare e pazientare poco poco poco *.*

Alla prossima!,

HeavenIsInYourEyes.

 

 

   
 
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