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Autore: smilefromhell    20/07/2012    4 recensioni
Jacqueline, una ragazza che aveva soltanto bisogno di essere salvata dai suoi ricordi, una ragazza che aveva bisogno di dimenticare tutto. Una ragazza che trovò una persona che riuscì a fare questo e altro.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO SECONDO.

“I walk a lonely road
the only one that I have ever known,
don't know where it goes
but its home to me and I walk alone”

La canzone con cui mi svegliavo ogni mattina. Boulevard Of Broken Dreams dei Green Day.
Era la mia canzone preferita ma stranamente cominciai ad odiarla dal momento in cui la impostai come ‘tono sveglia’.
Risi.
Sapevo che impostare la mia canzone preferita come sveglia mi avrebbe portato alla disperata ricerca di qualcos’altro con cui fissarmi.
Cercai la forza di alzarmi dal letto ma non la trovai. Le palpebre erano pesanti come fossero sommerse da chili di trucco, si chiudevano appena provavo ad aprirle.
Alzarmi alle sei del mattino con la consapevolezza che mi sarebbero aspettate sei ore di scuola non mi aiutava per niente.
Raccolsi un po’ della buona volontà che avevo e mi misi a sedere sul letto.
Ripensai a quand’ero bambina e a quanto mi terrorizzava il fatto di avere le caviglie esposte al ‘sotto letto’.
Scacciai tutti questi brutti pensieri dalla mia testa. Lui non poteva più farmi del male, loro gli avevano dato ciò che si merita.
Ebbi un brivido lungo la schiena e scossi la testa.
Decisi di andarmi a fare una doccia fredda; quella mattinata era più pesante del solito e avevo bisogno di lavarmi via di dosso la fiacchezza e tutti quei pensieri cattivi.
Finii doccia e preparativi vari in circa quaranta minuti, dopodiché scesi le scale per fare colazione insieme a mia mamma com’era solito fare.
“Hai davvero intenzione di andare a scuola conciata così?” mi rimproverò.
Alzai gli occhi al cielo.
“I maschi non ci mettono niente a farsi strani pensieri su di te” continuò imperterrita.
Per mia madre, il massimo di pancia che potevo scoprire era un centimetro.
Già due centimetri per lei volevano dire ‘sono qui, venite a violentarmi’.
Le lanciai un’occhiataccia, poi ingoiai l’ultimo boccone del mio toast e mi tirai giù di forza la maglietta.
Volevo tagliare la corda prima di sentirmi l’ennesima ramanzina di mamma-cane-da-guardia, così mi alzai di scatto, afferrai il mio zaino ai piedi del tavolo e corsi verso la porta salutando mamma con un gesto di mano svogliato.
Fuori c’era un’aria migliore di quella che c’era in casa.
Non si vedeva nemmeno una nuvola, come se il sole le avesse cacciate via per mostrare a tutti la sua bellezza.
Sorrisi compiaciuta e mi avviai a passo veloce verso scuola.
Ci arrivai davanti appena svoltato l’ultimo angolo e, come ogni mattina, mi sentii a disagio.
Non perché tutti mi guardavano, affatto, piuttosto per il fatto che nessuno lo fa.
Era inevitabile, non riuscivo a non farci caso.
Una persona normale avrebbe imparato con il passare del tempo, ma io, io no.
Sospirai malinconicamente e con la tristezza dipinta in volto mi avviai verso la classe di trigonometria.
Passai l’intera mattinata disegnando oggetti indefiniti fra gli spazi bianchi nei libri delle noiose materie che avevo quel mattino, quando finalmente la campanella suonò per avvisarci che era ora della pausa pranzo.
Presi freneticamente la mia roba posata con totale ordine sul banco, uscii dalla classe e imboccai il corridoio che portava al giardino della scuola.
Scrutai i tavoli da pic-nic.
Tutti pieni, perfetto.
Odiavo il fatto che le persone mi costringessero inconsciamente ad andarmi a sedere sull’asfalto al sole dove nessuno andava mai a consumare il pranzo, ma la paura di venire rifiutata al tentativo di sedermi vicino a qualcuno superava di gran lunga la vergogna di essere l’unica idiota a mangiare per terra.
Presi coraggio e mi sedetti, appoggiando la schiena al muro.
Scrutavo tutte le altre persone che mangiavano, ridevano, chiacchieravano, si facevano gli scherzi e qualcuno si baciava pure.
Successivamente, il mio sguardo fu attirato da un ragazzo che mi fissava.
Mi fissava come se non ci fosse nient’altro intorno a me, mi fissava insistentemente, mi fissava proprio come si fissano le persone strane.
Distolsi il mio sguardo dal suo per evitare che si accorgesse del mio arrossamento improvviso, e mi misi a guardare i mozziconi di sigaretta per terra.
Cominciai pure a contarli nell’attesa che lui la smettesse di guardarmi.
Sparito.
Quando circa dieci secondi dopo alzai lo sguardo, il ragazzo si era come volatilizzato nel nulla.
Sarà colpa della mia maglietta corta, ipotizzai.
Forse aveva ragione mamma.
Sorrisi.
Faceva veramente caldo nonostante fosse aprile, e io volevo togliermi da lì il prima possibile.
Mi alzai e mi diressi verso il bagno per riempire la bottiglietta d’acqua ormai vuota.
Non avrei mai voluto girare l’angolo, perché appena lo feci vidi quel ragazzo che prendeva qualcosa dall’armadietto.
Mi spaventai e mi girai di spalle.
Il fatto che qualcuno improvvisamente si fosse messo a fissarmi mi spaventava, dopotutto non ero abituata a relazionarmi con le persone e non avevo la minima idea di come ci si dovesse comportare, così pensai che la decisione giusta fosse scappare.
Che genio che sei Jay, più scappi più attiri l’attenzione.
Mi maledissi mentalmente e sperai di non rivederlo più.
Feci tre respiri profondi, cercai un po’ di coraggio e svoltai di nuovo l’angolo dopo esser stata nascosta cinque minuti in uno spazietto fra gli armadietti e la colonna che reggeva il soffitto.
Sbattei violentemente contro qualcuno.
“Mi stai evitando, non è così?”
Era lui.
Arrossii di nuovo e guardai per terra, notando le sue orribili supra viola.
“Non ti sto evitando” dissi senza sforzarmi di alzare la voce per farmi sentire.
“A me sembra che tu stia evitando sia me che il mio sguardo”
La voce di quel ragazzo era così bella, rassicurante, profonda e marcata.
Non seppi più come mentire all’evidenza.
“Forse hai ragione” risposi.
Decisi di guardarlo in faccia o mi sarei resa ridicola ancor di più, e non ne avevo la minima intenzione.
Pelle liscia e luminosa, labbra carnose, capelli castani, sparati e sbarazzini, e due occhi color caramello che rendevano il suo sguardo maledettamente magnetico.
Mi sorrise e io arrossii per l’ennesima volta.
Avevo la seria intenzione di scappare di nuovo ma non ne ebbi la forza.
Quel sorriso aveva la capacità di catturare il mio sguardo e non lasciarlo più andare.
Era perfetto, non seppi che altro aggettivo dargli.
“Ora però sei tu a fissare me” aggiunse poi lui ridendo.
Mi accorsi che era palesemente così.
Mi coprii automaticamente la faccia con una mano per la troppa vergogna che provavo.
Non ebbi il tempo di dire nulla che suonò la campanella.
I corridoi si riempirono di ragazzi che correvano da tutte le parti cercando disperatamente l’aula giusta.
Poi guardai lui, che mi sorrise e si dileguò nella folla.
Sbuffai scocciata.
Questo tipo di cosa succede nei telefilm delle quattro del pomeriggio, non nella vita reale.
Feci spallucce e mi rassegnai perché sapevo che quella sarebbe stata la nostra prima ed ultima conversazione.
Me ne andai in classe strisciando lentamente i piedi per terra.
Passai un’altra ora a disegnare.
Ero completamente sovrappensiero, non era mio solito fregarmene della lezione ma i pensieri che mi affollavano la testa sovrastavano le parole della professoressa.
Quella maledetta campanella mi fece sobbalzare un’altra volta, risvegliandomi bruscamente dal mio splendido sogno ad occhi aperti.
Stavo diventando pigra e disattenta e l’idea non mi piaceva affatto.
Chiusi il mio blocco da disegno senza rendermi conto che il soggetto disegnato era proprio la causa della mia totale assenza in classe.
In quel momento avrei semplicemente voluto andare a casa per rilassarmi mentre mi gustavo il tanto atteso ultimo episodio di Grey’s Anatomy.
Nel cortile davanti all’entrata c’erano un sacco di persone.
Chi aspetta l’autobus, chi parla, chi comincia a studiare.
Cominciai a cercare quel ragazzo in mezzo alla massa di gente.
Lo sguardo si spostava velocemente, il mio cuore era speranzoso di rivederlo con gli occhi posati su di me, il mio cervello si chiedeva perché stessi facendo tutto ciò.
Ebbi un improvviso cedimento di gambe quando lo vidi.
Era lì, anche lui con lo sguardo che cercava qualcosa.
Ad un tratto i nostri occhi si incontrarono.
Lui sorrise, ma io distolsi lo sguardo talmente mi vergognavo di aver permesso ai miei occhi di fargli notare che anche io lo stavo cercando.
Mi diressi quasi correndo verso la strada che mi avrebbe ricondotta a casa mia, quando sentii dei passi di fianco a me.
“Mi prendo l’impegno di accompagnarti fino a casa tua, andiamo pure nella stessa direzione”
Lo guardai e acconsentii con un cenno di capo.
Notai i libri che aveva in mano e vidi con piacere che erano di storia dell’arte.
C’era pure scritto il suo nome, così non sarei stata costretta a rompere il silenzio che tanto mi metteva a mio agio chiedendogli come si chiamasse. Justin Bieber, mai sentito, evidentemente era nuovo.
Eravamo arrivati.
Non avevamo spiccicato una sola parola per tutta la durata del tragitto e cominciai a pentirmi di non avergli chiesto il nome a voce.
Nello stesso momento in cui stavo per aprire il cancello, Maurice e mia madre uscirono di casa dirigendosi verso di me.
Justin si voltò e sorrise a mia madre, poi guardò Maurice.
“Ah, ciao papà”






Mi sto rendendo conto che sto perdendo la fantasia, sono disperata. (?) çç
Comunque, grazie alla mia amica Serena che mi ha suggerito un po’ di idee.
Spero che piaccia comunque, però.
Ciao. C:
  
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