Buona domenica a tutti, anche se sta
lentamente volgendo al termine.
Vi avevo anticipato che avrei
pubblicato venerdì, ma ho avuto qualche impegno di troppo che mi ha tenuta
lontana da Word.
Ma almeno questo capitolo è decisamente
più lungo e sostanzioso del precedente, spero di farmi perdonare così.
Lentamente risponderò anche alle vostre
recensioni, non temete! Entro oggi mi metto in pari. :)
Intanto grazie a tutti coloro che
continuano a seguirmi assiduamente! Siete una gioia immensa.
A presto!
Marta.
Betulla
13.
21 Marzo 3019 T. E.
Solo
tre soli erano sorti dalla loro partenza da Minas Tirith, ma per Peregrino Tuc
sembravano trascorse settimane. Le ore passavano lente ed era incredibilmente
stancante starsene seduto sul possente cavallo di Boromir, dietro un
Sovrintendente che non aveva voglia di parlare, se non sporadicamente. Pipino
stesso non aveva voglia di proferir verbo di fronte a quella tensione
opprimente, sebbene in quei giorni di marcia nessun nemico si fosse fatto vivo,
e capiva il morale degli Uomini che lo circondavano, soprattutto dopo aver
passato la desolazione della Valle di Morgul. Ma era anche sveglio abbastanza
da capire che nello sguardo severo di Boromir ci fosse qualche preoccupazione
in più, oltre la loro missione suicida.
Lo
Hobbit rabbrividì, nel pensarla così. Stava andando davvero incontro alla
morte? O il giorno dopo si sarebbe svegliato sul suo morbido letto, nello
confortevole smial
di Hobbiville, scoprendo finalmente che quello non era stato altro che un
terribile ed infinito incubo? Peregrino non aveva avuto mai troppi tormenti
durante le notti nella Contea, poiché non aveva mai avuto niente da temere.
Solo la zappa e i cani del Fattore Maggot avevano oscurato qualche notte
insonne, reduce da una corsa con le rape in mano, rubate insieme a suo cugino. Ora
gli pareva di viverlo, l'incubo, e sicuramente così era.
Pipino
si mosse sulla sella, insofferente ed indolenzito. Allora Boromir voltò il viso
di tre quarti, lanciando una rapida occhiata alle sue spalle.
«Sei
stanco, piccoletto?» gli chiese, nonostante tutto con un tono dolce e
apprensivo.
L'altro
non poté mentire, perché la sua irrequietezza era fin troppo evidente. «Un po',
Boromir. Non avevo mai cavalcato così a lungo. Persino il viaggio con Gandalf
per raggiungere Minas Tirith è stato meno stancante.»
Boromir
abbozzò un sorriso. «Lo credo bene, era Ombromanto il destriero che vi portava.»
«Sì,
e non c'era tutta questa tensione nell'aria.» annuì Pipino. «A momenti mi
soffoca e non vedere alcun movimento mi terrorizza ancor più che essere
attaccato da uno stuolo di Orchetti!»
«Desideri
la battaglia, dunque?» fece Gimli, che sedeva dietro Legolas, ormai
inseparabili compagni di viaggio. «Ne avrai più di quelle che potresti
immaginare, tra qualche giorno, giovane Hobbit. E sarò ben felice anche io di
far cantare nuovamente la mia ascia!»
Pipino
si rabbuiò. Lui non moriva dalla voglia di combattere, e non voleva neanche
combattere e morire. Ma non ebbe il coraggio di pronunciare i suoi pensieri a
voce alta. Era lì per un motivo: elevare il nome e la reputazione degli Hobbit
della Contea, e l'ultimo dei suoi desideri era quello di essere ricordato come
Peregrino Tuc il Codardo.
L'uomo
che lo portava in sella abbandonò le redini con una mano e gli strinse la sua,
piccola e tremante. «Non temere, amico mio. Ancora qualche ora e ci fermeremo
per riposare. Anche io, come te, sono molto stanco.»
«Oh,
ne dubito! Un Uomo grande e grosso come te non riuscirebbe a stancarsi neanche
se mangiasse dieci cinghiali di fila!» esclamò Pipino, ritrovando la forza di
ridacchiare. E per un attimo chiunque lo avesse udito lo imitò. Aragorn, che
conduceva l'avanguardia, sorrise e pensò che fosse anche quella la forza di
Pipino. Riusciva a far risplendere un poco di luce anche dove pullulava
l'oscurità.
Come
previsto da Boromir, trascorsero altre tre ore prima che Gandalf ordinasse di
fermarsi e accamparsi. Le vedette a cavallo erano tornate assicurando che
nessun pericolo fosse in vista e così quelle a piedi, che coprivano il fianco
est dell'esercito. L'immobilità di quelle lande era inquietante e, pur non
vedendoli, tutti i soldati sentivano numerosi occhi addosso; ma per quanto la
situazione fosse minacciosa e a tratti insostenibile, era esattamente quello il
loro scopo. Attirare l'attenzione altrove. Eppure nessun nemico, Orco o Uomo
che fosse, aveva ancora osato muovere un passo verso quell'esiguo esercito che le
forze di Mordor avrebbero potuto spazzare via con facilità. Che fosse il
terrore di udire gli araldi gridare "Re
Elessar è giunto! Che tutti abbandonino questo territorio o si sottomettano!"?
Aragorn stesso ne dubitava.
Quando
finalmente i piedi pelosi di Pipino toccarono terra, sospirò di sollievo e si
sgranchì le membra bloccate, sbadigliando per il sonno e la fame. «Il mio
stomaco mi abbandonerà, un giorno di questi. Da troppo tempo lo sto
trascurando.» mormorò affranto, accarezzandosi la pancia con affetto.
«E
dovrai continuare a farlo, piccoletto.» disse Boromir, scompigliandogli i
capelli. «Abbiamo portato con noi il necessario per riprendere le forze e
proseguire nel nostro cammino.»
Come
a voler ribattere seccato, un gorgoglio di disappunto provenne dallo stomaco
dello Hobbit, che arrossì per l'imbarazzo, provocando l'ilarità di molti.
Quella piccola creatura era una novità per i soldati di Gondor e Rohan, e
Pipino si ritrovò ad essere la loro nuova attrazione. Éomer lo fece sedere tra
sé e Imrahil, e nelle vicinanze di Gandalf, e per qualche tempo lo Hobbit
ritrovò la voglia di raccontare storie ed alleggerire gli animi pesanti di timori.
Elegost, che mangiava a capo chino come il resto della Grigia Compagnia, sollevò
per un attimo lo sguardo su Aragorn, e lo vide allontanarsi con il suo migliore
amico e Sovrintendente, così come aveva fatto anche le sere precedenti.
I
due si sedettero sulla radice sporgente di un grosso albero secolare, intaccato
solo da qualche orrendo scarabocchio rosso del Nemico. Cenarono con quel poco
che avevano in completo silenzio, perché in momenti come quelli non servivano
parole. Era chiaro che le loro menti fossero affollate dai medesimi pensieri e
preoccupazioni.
Poi,
quando anche l'ultima goccia di acqua fu bevuta, Boromir sospirò pesantemente e
guardò la ciotola che reggeva in mano come se potesse leggervi qualcosa di
importante. «Dove credi che saremo giunti, a quest'ora, se la Compagnia fosse stata
ancora unita?»
Aragorn
osservò l'amico con un'espressione accigliata. «La Compagnia che partì da Gran
Burrone è ancora unita, Boromir. Non è forse il motivo per cui ci troviamo in
questa situazione? Non è forse per aiutare Frodo e Sam?»
«Rispondi
alla mia domanda, Aragorn. Sai a cosa mi riferisco.» lo supplicò l'altro. Era
qualcosa che in quegli ultimi giorni si stava chiedendo troppo spesso. E
avrebbe voluto avere la compagnia di Brethil, affinché lo rincuorasse come
sempre aveva fatto dal primo giorno in cui si erano conosciuti.
«Molto
di quello che abbiamo vissuto sarebbe cambiato, altro sarebbe rimasto intatto.»
iniziò Aragorn. «Frodo avrebbe dovuto comunque percorrere quest'ultima parte
del viaggio da solo, poiché uno Hobbit è dieci volte più silenzioso di un
gruppo di nove persone; l'invisibilità è fondamentale per poter sperare di raggiungere
il Monte Fato. E sappiamo entrambi che Sam lo avrebbe seguito, sordo a
qualsiasi obiezione. Forse avremmo intrapreso subito il viaggio verso Minas
Tirith, poiché Merry e Pipino sarebbero stati salvi con noi e non avremmo
incontrato Gandalf per tempo né avremmo dato il nostro aiuto a Rohan.» Il
Ramingo chinò lo sguardo, con quello che sembrava un triste sorriso sugli occhi
grigi e stanchi. «E probabilmente non avremmo incrociato il cammino di Brethil
e tutto ciò che esso ha comportato.»
Boromir
strinse i denti nel pensare alla donna. La sola idea di una vita senza di lei,
ora, gli sembrava assurda e un profondo senso di vuoto gli serrò la gola. Era
diventata importante, per lui, ne era ben consapevole, e saperla alle sue
spalle al sicuro ma profondamente ferita lo rassicurava e spaventava
contemporaneamente. Era ancora certo della scelta che lui e Aragorn avevano
preso per lei, ma aveva visto la rabbia e la frustrazione nei suoi occhi; era
qualcosa che lui non riusciva a dimenticare facilmente, né tanto meno a
sopportare. Lo avrebbe mai perdonato per non averla sostenuta abbastanza?
«Lo
farà, col tempo.» lo rassicurò il Dúnedain, quando l'altro gli pose la stessa
domanda a voce alta. «Mi addolora sapere del suo rancore e non la biasimo. Ho
calpestato il suo orgoglio e di questo mi assumo le colpe. Ma capirà le nostre
motivazioni, quando sarà l'ora.»
«Sai,
Aragorn, ho sempre avuto un pilastro portante nella mia vita.» fece Boromir. «La
mia famiglia. La amo con tutto me stesso, persino ora che Denethor è morto dopo
ciò che ha tentato di fare. Amo la mia gente e il mio esercito, ma l'amore che
ho provato e provo per mia madre, mio padre e mio fratello è qualcosa di
indescrivibile. Non ho mai avuto veri amici
al di fuori di Faramir, poiché mai ne ho avuto il bisogno. Poi sono giunto ad
Imladris e ho conosciuto tutti voi... siete stati per me come una seconda
famiglia, anche se spesso, forse, ho dato prova del contrario. Tu sei l'amico
che cercavo, il mio mentore da cui attingere la forza necessaria per andare
avanti e avere uno scopo nella vita. E i piccoletti, Aragorn, è una tale gioia
averli intorno! E ho rovinato tutto...» Aragorn volle interromperlo per negare
quell'ultima frase, ma l'altro proseguì senza dargli il tempo di parlare. «Quando
ho incontrato Brethil credevo che la mia vita sarebbe finita quel giorno, che
non ci sarebbe stato ritorno. Ma lei mi ha dato prova che avrei potuto
continuare a lottare, per amore della mia terra e dei miei amici. Amici, capisci Aragorn? Io, il
coraggioso Capitano della Torre Bianca che ha degli amici!» Boromir rise di se
stesso. «Pensavo di essere cambiato dopo il viaggio con la Compagnia, in bene o
in male che fosse, ma Brethil... lei mi ha sconvolto. Non solo non avevo mai
sentito la necessità di persone che mi supportassero, perché il mio esercito
ricopriva bene quel ruolo, ma che persino una donna potesse entrare a far parte
della mia vita...» Boromir lasciò volutamente sospeso il discorso per passarsi
una mano sul viso.
«Neanche
lei può più fare a meno di te, amico mio.» Aragorn gli strinse affettuosamente
una spalla, incoraggiandolo e ben capendo dove volesse arrivare. «Il fatto
stesso che ti abbia raggiunto a Minas Tirith dovrebbe darti delle conferme.»
«Non
ho bisogno di conferme, le ho sotto gli occhi. È che sono... spaventato.»
«Spaventato
da chi? Da una donna?» Aragorn finse stupore. «Boromir, credevo che il mio
Sovrintendente fosse un uomo più coraggioso.»
«Sono
felice che trovi il tempo e l'umore per prenderti gioco di me, amico.» borbottò il Gondoriano, con una
smorfia infastidita.
Il
futuro Elessar tentò di riappacificarsi con un sorriso. «Dimmi, che cosa ti
intimorisce?»
Boromir
non rispose, perché non sapeva trovare le parole giuste. In quei giorni di
marcia aveva avuto troppo tempo per pensare e l'esperienza, ultimamente, gli
aveva insegnato che non fosse uno dei suoi passatempi preferiti.
Pipino
sonnecchiava, avvolto nel suo mantello elfico, ma non riusciva a prendere
completamente sonno. Era abituato a dormire all'aria aperta, anche quando
trascorreva le lunghe nottate nelle campagne della Contea, ma come poteva
riuscire a prendere sonno in quelle lande deserte e terrificanti, con la paura
che il Nemico potesse piombargli contro in qualsiasi momento?
Eppure
non era solo la sensazione di pericolo a tenerlo sveglio. Era da qualche tempo
che si sentiva osservato, come quando durante il loro lungo viaggio da Moria in
poi percepiva gli occhi di quell'essere strisciante e meschino ch'era Gollum.
Ma ora, che era passata da un pezzo la mezzanotte, la sensazione si fece
insostenibile e si mise a sedere, guardandosi intorno. Gandalf dormiva accanto
a lui, con i suoi grandi occhi grigi spalancati ed inquietanti, e per quanto
ormai fosse abituato a quella vista la sua presenza non lo rassicurò; il resto
dell'accampamento era silenzioso, tranne per qualche soldato che russava troppo
rumorosamente. Nessuno sembrava patire l'insonnia come lui, persino i più
paurosi.
«Peregrino
Tuc, ti ricorderanno davvero come lo Hobbit più codardo della Contea!» si disse
a denti stretti, prendendo la sua piccola spada
- più un pugnale nella mano di un Uomo - e dirigendosi verso la cresta
di cespugli che li proteggeva verso Sud. Non sapeva perché avesse lasciato la
sicurezza del suo giaciglio, né perché i suoi piedi lo stessero portando proprio
in quella direzione, ma quel sesto senso che lo aveva accompagnato in quegli
ultimi giorni gli suggeriva di non porsi domande e di continuare. Per un attimo
il petto gli si gonfiò di orgoglio: se davvero ci fosse stato qualcuno, dietro
quei cespugli, che li osservava e tramava nell'ombra, e lui lo avesse scovato
sarebbe diventato un eroe. L'idea gli piacque abbastanza per dargli la forza di
proseguire. Si fermò solo di fronte alla barriera di vegetazione, che mai gli
era sembrata così minacciosa e pronta a risucchiarlo. Rimase fermo e in
ascolto, ma niente si muoveva oltre il suo cuore impazzito. Qualche soldato si
voltò sull'altro fianco, profondamente addormentato, ma nessuno fece caso a
lui, impietrito come un Troll colpito dalla luce del sole.
Prima
che avesse il tempo di maledire la sua infinita curiosità e tornare indietro,
due mani lo afferrarono per il mantello e si ritrovò tra i rami e le foglie,
mentre il suo aguzzino gli tappava la bocca per non permettergli di gridare.
Pipino si divincolò con incredibile tenacia, ma niente servì a liberarlo. La
piccola spada gli era caduta per lo spavento e non poté niente contro... una
donna? Spalancò gli occhi nel riconoscere quel viso celato dal cappuccio, ma
Brethil fu più lesta nel stringere la presa sulle sue labbra ed evitargli di
gridare per la sorpresa.
«Non
una parola, piccolo traditore.» gli bisbigliò Brethil, distendendosi in un
sorriso per fargli capire che non fosse realmente adirata con lui.
Quasi
Pipino scoppiò a ridere per la comicità della situazione. Brethil era come un
cavallo indomabile: nonostante avessero fatto di tutto per tenerla all'oscuro
della loro partenza anticipata, per lasciarla indietro e lontano dal pericolo,
eccola lì! E gli sembrava anche soddisfatta di averli raggiunti, inaudito! Si
poteva essere felici di andare in guerra? Pipino ne dubitava, così come non
pensava che lo fosse realmente. Probabilmente era elettrizzata dall'idea di
averli presi in contropiede nonostante le precauzioni. E non riuscì ad evitarsi
di abbracciarla con forza.
«Ho
bisogno che non riveli a nessuno la mia presenza, Peregrino Tuc. Giuralo su tuo
cugino.» sussurrò la donna in un orecchio, mentre ricambiata l'abbraccio con
affetto.
Lo
Hobbit sembrò contrariato. Giurarlo su Merry? Era un impegno troppo grande, per
uno come lui. Ma la serietà negli occhi grigi della donna lo fece capitolare e
annuì, portandosi una mano sul petto. «Giuro sul povero Meriadoc di non aprir
bocca - che la testa gli rimanga sulle spalle!» aggiunse, con un sospiro quasi
divertito.
Brethil
sorrise e gli baciò la fronte. «Ho lasciato Merry in buone mani, non
preoccuparti. Ora, però, torna a dormire. Nessuno deve accorgersi della tua
scappatella, curioso di un Tuc.»
Pipino
accusò il colpo incassando le spalle. «Tu cosa farai?»
Ma
lei non gli rispose. Gli intimò con lo sguardo di tornare a dormire e lui,
sconfortato, tornò silenziosamente accanto a Gandalf. Rimase fermo ad osservare
quegli occhi spalancati, cercando di capire se fosse sveglio o meno; ma lo
Stregone non diede segni di vita e fu solo allora che lo Hobbit si distese sul
suo giaciglio con un sospiro di sollievo. Si era preso un bello spavento, ma
ora che aveva capito cosa fosse quella sensazione di disagio che lo aveva colto
in quei giorni, riuscì finalmente a chiudere gli occhi e a riposarsi per
qualche ora. In un certo senso, la consapevolezza di avere Brethil a portata di
braccio lo rassicurava non poco.
Brethil
rimase nel suo nascondiglio per qualche tempo, controllando la situazione
nell'accampamento. Le sentinelle le erano appena passate davanti ma nessuno
diede alcun segno di allarme. Appena si furono allontanate uscì allo scoperto,
raggiungendo il gruppo di Raminghi del Nord che sonnecchiava attorno ad un
fuoco ormai spento. Avrebbe voluto dormire accanto alla sua vecchia famiglia,
ma li superò, dirigendosi dai gemelli di Rivendell, che a differenza di tutti
gli altri erano svegli insieme all'Elfo Legolas, mentre guardavano le stelle in
una radura lontano dall'accampamento. Brethil si appiattì contro il tronco di
un albero e rimase immobile, in attesa di capire cosa fare. Non aveva previsto
che Legolas scoprisse la sua presenza, ma doveva parlare con i due fratelli
prima che l'esercito si rimettesse in marcia.
Il
figlio di Re Thranduril sorrise e voltò lievemente il capo verso la sua direzione.
«Ai! Im gelir le mae, Brethil. An lema?*»
La
donna arrossì, maledicendo l'udito degli Elfi, ma non si mosse. Almeno, non
finché Elrohir non le fu di fronte, sorridendo. «Hai impiegato fin troppo tempo
per raggiungerci, amica mia.» le disse, incrociando le braccia al petto, con
tono contrariato.
«Stai
perdendo il tuo smalto, thêl?»
continuò l'altro gemello.
Brethil
restituì ad entrambi un'occhiata supponente e i due Mezzelfi della casa di
Elrond risero, musica per le sue orecchie. Guardò subito con aria preoccupata
Legolas, che non accennò ad alzarsi per andare ad avvisare Aragorn di
quell'inaspettata eppure prevedibile presenza.
«Non
temere, non ho intenzione di fare la spia.» la rassicurò.
Elladan
allungò una mano verso la donna. «Vieni, siedi e riposa accanto a noi, thêl. Avrai sicuramente qualcosa da
raccontarci, immagino.»
E
così fece. Si sedette tra i fratelli, massaggiandosi un po' la spalla
indolenzita. Alzò lo sguardo al cielo stellato, proprio come stavano facendo
gli altri poco prima che li interrompesse, e sospirò. «Prima che lo chiediate,
non mi sono pentita di avervi raggiunti.»
«Né
noi lo mettevamo in dubbio.» replicò Elrohir, divertito. «Ero certo che il tuo
orgoglio avrebbe prevalso persino sopra gli ordini di Aragorn.»
Brethil
strinse i pugni. «Non è stato corretto da parte sua mettermi da parte come se
fossi una spada arrugginita.»
Prima
che uno dei due gemelli potesse parlare, Legolas si alzò, osservando la via
verso nord-est, dove erano diretti. «Al di là di quella valle c'è la Morte.
Riesco a percepirla ovunque, ormai, e credo che anche tu possa farlo.» La
osservò con uno sguardo calmo come il mare mattutino che lui tanto agognava, e
continuò. «Non credere che Aragorn ti abbia lasciata indietro per paura che tu
possa morire. È consapevole delle tue capacità e la prova risiede sul fatto che
lo accompagni nelle sue avventure da tutta la tua vita.»
«E
allora perché?» chiese la donna, frustrata dalla sensazione di inutilità che
provava e dal fatto che ancora non riuscisse a capire quel gesto egoista.
«Hai
perso qualcuno di importante, qualche giorno fa.» Il tono dell'Elfo si fece
grave e lei si sentì stringere il cuore. «Ed è accaduto nel peggiore dei modi,
perché eri lì. Non vuole che si ripeta ancora una volta.»
Fu
in quel momento che Brethil capì le reali intenzioni di Aragorn e tutta la
rabbia che provava sfumò via, come spazzata da una forte folata di vento. La
morte di Halbarad avrebbe comunque segnato una ferita troppo profonda per
sperare che potesse cicatrizzarsi un giorno, ma averlo avuto tra le braccia nei
suoi ultimi istanti di vita era stato straziante. Era come se le avessero
strappato il cuore dal petto nel momento esatto in cui lui aveva smesso di
respirare e di vederla. Se fosse accaduto di nuovo, ad Aragorn, o Boromir, o ad
uno di loro, lei probabilmente non avrebbe saputo resistere oltre e sarebbe
stata ingoiata dalla furia della pazzia.
Brethil
deglutì a fatica, la gola secca. Era stata così accecata dalla frustrazione da
non aver capito subito quali fossero i chiari disegni dietro quel gesto che le
era apparso tanto ingrato. «Quindi, anche il Sovrintendente ha agito per lo
stesso motivo?»
Legolas
rise. «Oh, no. Credo che Boromir abbia accettato perché teme per la tua vita,
prima che per la propria. L'idea di Aragorn, però, gli è sembrata più ragionevole.»
La
donna richiuse la bocca, dandosi mentalmente della stupida. «Certo, le donne
devono stare a casa durante la guerra.» mormorò amaramente. Scosse il capo,
dimenticando per un attimo l'Uomo e i suoi ideali. «Nessuno deve sapere che
sono qui, per il momento. Posso fidarmi di voi, vero?»
Elrohir
annuì, mostrandosi quasi offeso per quella domanda retorica. «Sarai tu a
decidere quando mostrarti, se vorrai farlo. L'esercito è grande abbastanza da
passare inosservati e sappiamo bene come i Raminghi siano dei maestri in
quest'arte.»
«Vi
ringrazio, amici miei.» fece lei, distendendosi in un caloroso sorriso. «Ho
intenzione di fare loro una sorpresa.»
«E
io non vedo l'ora di assistervi, thêl.»
continuò l'altro Mezzelfo. «Ora vieni qui, riposa con noi. Ti avviseremo per
tempo prima che l'accampamento si risvegli.»
Lei
non se lo fece ripetere due volte e si rese conto solo in quel momento di
quanto fosse stanca. Era abituata alle lunghe cavalcate, ma in quegli ultimi
giorni aveva preso la brutta abitudine di lanciarsi in inseguimenti sfiancanti:
prima la corsa verso Minas Tirith e ora quella verso la Morte. E tutto perché?
Brethil
sospirò e si diede mentalmente uno schiaffo. Correva, sì, ed inseguiva sempre
la stessa persona. Che cos'era quello, se non amore?
Quando
Elladan la risvegliò con la sua melodica voce, Brethil pensò di aver dormito
non più di pochi minuti. Era così stanca che, non appena aveva messo il capo
contro la sua borsa, si era addormentata immediatamente, cadendo in un sonno
senza sogni - fortunatamente. Sbatté per qualche istante le palpebre, mettendo
a fuoco l'erba bagnata di rugiada che le solleticava l'olfatto, e si mise a
sedere, reprimendo uno sbadiglio con una mano. Vide Legolas, in piedi a pochi
metri da lei, che accarezzava il muso di Nerian e gli sussurrava qualcosa in
elfico.
Brethil
li raggiunse entrambi. «Vedo che avete fatto amicizia.»
«È
inevitabile, con un destriero simile.» rispose l'Elfo, sorridendo. Come sempre.
Brethil non poteva affermare di conoscerlo bene, anche se spesso aveva
combattuto per suo padre a Bosco Atro, ma non ricordava di aver mai visto una
nota di preoccupazione sul suo giovane e bel viso. Pareva che neppure la guerra
potesse scalfire la sua gaiezza, e desiderò tanto essere come lui.
«Nerian
è un buon amico di viaggio. Ci accompagniamo da più di un anno, ormai, e solo
la morte potrebbe separarci.»
Il
sorriso di Legolas si fece più luminoso. «Allora starete insieme ancora per
parecchio tempo.» L'Elfo si congedò con un cenno del capo, per raggiungere le
tende dei Capitani.
L'accampamento
si stava lentamente svegliando e il sole non era ancora sorto; solo una
striscia rossa iniziava a sfumare il cielo scuro e nuvoloso.
Brethil
sistemò la sella del suo cavallo e vi agganciò la borsa dopo aver tolto un
tozzo di pane e una mela, che mangiò velocemente, prima di montare. Tolse una
fascia di grigio tessuto simile a quello del mantello che indossava e se lo
avvolse sul viso, nascondendosi naso, labbra e collo; calò l'ampio cappuccio
sulla fronte, cosicché solo gli occhi grigi fossero visibili ad uno sguardo
attento, e spronò Nerian verso i gemelli di Rivendell, che le sorrisero.
«Hai
per caso freddo, thêl?» le domandò
Elladan, divertito da quel suo travestimento. Il Mezzelfo rise nel vedere
l'occhiataccia che scorse sotto il cappuccio.
Appena
tutti i Raminghi furono sui loro cavalli, Brethil si unì a loro, restando in
coda al gruppo. Nessuno sembrava aver voglia di parlare e ciò la tranquillizzò
non poco. Poteva fidarsi dei gemelli e di Legolas, persino di Pipino; ma non
poteva rischiare che la voce della sua presenza si spargesse tra le fila dei
suoi compagni. Aragorn e Boromir, con Éomer, Gandalf e Imrahil, cavalcavano in
avanscoperta, a distanza di sicurezza. Tenne d'occhio Pipino, che nonostante la
voglia di voltare il capo per cercarla con lo sguardo, teneva gli occhi
assonnati puntati davanti a sé. La Dùnadan aveva capito che quel piccolo Hobbit
avesse una lingua troppo veloce e temeva che potesse rivelare la sua presenza
prima del momento che lei stessa aveva prefissato. Perché non voleva che si
accorgessero di lei - almeno non subito.
Tra
i Raminghi ne riconobbe uno, che le era sempre stato un caro amico, e gli si
avvicinò silenziosamente dopo mezza giornata di viaggio. Elegost, avvertendo
una presenza cavalcare al suo fianco, si voltò e quasi lasciò cadere le redini
per la sorpresa. Avrebbe riconosciuto quegli occhi grigi che brillavano
nell'ombra ovunque. Ma ogni parola fu fermata da un dito di lei, che si sollevò
là dove c'erano le labbra, per intimargli di tacere. Elegost sorrise e annuì.
Avrebbe dovuto aspettarsi una cosa simile da parte della donna; aveva sempre
seguito gli ordini che le venivano impartiti, con senso del dovere e dedizione,
ma la sua indole ribelle era proprio lì, sotto quella scorza fredda e
orgogliosa, e non aspettava altro se non di uscire allo scoperto come in quel
momento. Elegost avrebbe voluto chiederle come stesse, ma lei aveva già
spronato il suo cavallo per allontanarsi nuovamente dal gruppo e confondersi
tra gli altri Raminghi, alle sue spalle.
La
lunga marcia verso il Morannon proseguì per i due giorni successivi senza
troppi intoppi; perché né Brethil né il resto della comitiva ritenne che l'assalto
degli Orchetti che li attaccarono con ben poca tenacia fosse un avvertimento di
pericolo. Sapevano che il Nemico fosse ovunque intorno a loro - e sopra di loro, come aveva notato Legolas
nello scorgere i Nazgûl che volavano alti sulle loro teste - e sapevano anche
di aver attirato la sua attenzione. Ma non era forse quello il loro scopo?
L'Occhio di Sauron era su di loro, ben lontano dai due piccoli Hobbit, che
giorno dopo giorno si avvicinavano alla loro meta.
Aragorn,
dal pieno della sua saggezza, aveva esortato i più timorosi a congedarsi e a
correre verso Sud, alla volta di Cair Andros, nel caso il nemico vagasse ancora
per quelle terre. Infine erano ripartiti in seimila, mille in meno del numero
di soldati partiti da Minas Tirith. Le poche speranze di vincita svanirono
completamente, spazzate dalla consapevolezza di quell'esiguo esercito che
sarebbe stato schiacciato facilmente come una formica dallo stivale.
Quella
notte nessuno di loro riuscì a dormire. Nonostante la presenza della luna,
poterono solo immaginare e sentire il movimento intorno a loro; qualsiasi cosa
strisciasse, facendoli rabbrividire, era nascosta dalle esalazioni e dai fumi
che la terra emanava. Non vi era luogo più desolato e desolante di quello in
cui si erano accampati. Il Morannon era ormai alle porte e l'aria che
respiravano era pesante ed aspra; non faceva altro se non incupire ancora di
più i loro animi.
Brethil
era di vedetta con i gemelli, seduti intorno ad uno dei tanti fuochi sparsi
attorno all'accampamento. Parlottavano piano e in elfico e la loro presenza
confortante era sufficiente per farla sentire meglio. Era poggiata contro il
tronco di un albero secco e morto, il capo sempre coperto dal cappuccio, ma i
suoi sensi in allerta l'avvisarono comunque della presenza di qualcuno alle sue
spalle. E capì di chi si trattasse appena riconobbe la voce bassa e roca di
Boromir.
«Com'è
la situazione, da queste parti?»
Elrohir
scosse il capo. «Siamo circondati, questo è chiaro. Ma nessuno ha mosso più di
un passo verso di noi.»
Brethil
quasi trattenne il fiato nel rendersi conto che l'Uomo le era accanto.
«Ci
stanno studiando, è chiaro.» continuò il Sovrintendente di Gondor. «Vogliono
vedere fin dove ci spingeremo e, ahimè, rideranno di noi.»
«Non
parlare con pessimismo.» lo ammonì Elladan, sorridendo. «Chissà che non saremo
noi a ridere di lui?»
Boromir
gettò un'occhiata al Ramingo seduto accanto a lui, che non aveva alzato lo
sguardo né aveva aperto bocca per rispondere. Ma non ci badò più di tanto. Quei
Dúnedain erano così silenziosi e tenebrosi che aveva ancora un timore
riverenziale ad avvicinarli. «Mi piacerebbe pensarlo, ma dubito che accadrà.
Non sono pessimista, guardo la realtà. E ciò che vedo non è roseo.»
«Niente
di quello che stiamo vivendo lo è, sire Boromir.» disse Elrohir. «Eppure
numerosi sono stati i momenti in cui la razza umana o quella elfica hanno
dovuto far fronte a battaglie oscure come questa e hanno vinto, nonostante la
possibilità di successo fosse legata ad un filo su cui camminava un Troll.»
Il
Gondoriano si lasciò sfuggire un sorriso stanco e Brethil se ne accorse dal
tono di voce con cui parlò. «È bello sapere che ci sia ancora qualcuno che
crede nella vittoria.»
«Finché
avremo le forze di camminare e combattere, e l'Elessar ci guiderà, la speranza
non abbandonerà questa terra.»
Boromir
rifletté per qualche secondo e si congedò con un cenno del capo. Solo in quel
momento Brethil tornò a respirare.
25 Marzo 3019 T. E.
Il
Morannon si apriva ai loro occhi, più desolante che mai. Il Cancello Nero e le
sue tre, enormi porte arcuate sovrastavano la valle e chiudevano ogni via verso
Mordor. Il silenzio era tombale e ogni cosa immobile. Gandalf avrebbe detto che
quello era il profondo respiro della tempesta prima dello sfogo. Il Nemico era
ovunque intorno a loro, in attesa di una loro mossa, e si sentirono in trappola
in quella gola nera e fredda. I loro cuori raggiunsero l'apice del gelo quando
i Nazgûl sorvolarono le loro teste e si appollaiarono sulle alte e nere Torri dei
Denti, osservandoli come avvoltoi che pregustano una carcassa.
Nerian
scalpitava irrequieto, così come irrequieta era la sua padrona. Brethil provò
l'impulso di cavalcare accanto ad Aragorn e ai rappresentanti che
l'accompagnavano verso quel folle cammino, ma Elegost le fu accanto e frenò
ogni suo gesto afferrando il cavallo per le redini.
«Hai
mantenuto segreta la tua presenza fino ad ora, amica mia.» le disse,
comprensivo. «Continua a mantenerla tale ancora per poco. Non è il momento
adatto per lasciar spazio alla sorpresa di averti accanto.»
La
donna annuì, capendo che le parole del Ramingo fossero giudiziose, anche se
l'istinto di spronare Nerian fu forte. Osservò la comitiva fermarsi a qualche
centinaio di metri dal Nero Cancello e udì la voce ovattata di Aragorn, che riecheggiò
per l'intera gola. L'orgoglio e la forza di un singolo uomo ebbe il potere di
risollevare gli animi. Poi ci fu un rullare di tamburi così forte ed
inaspettato che fece saltare sulle selle chiunque e quelle porte imponenti ed
oscure si aprirono; e nuovamente l'oscurità fece da padrona nei cuori di tutti.
L'emissario
di Sauron fece la sua comparsa insieme a qualche altro alleato e nessuno di
loro poté udire le loro parole. Brethil vide qualcosa brillare nelle mani nere
dell'emissario di Sauron, ma non seppe dire cosa fosse. Fu Elladan a
spiegarglielo, poiché la sua vista elfica gli permetteva di vedere chiaramente
cosa stesse accadendo.
«È
una cotta di maglia, mithril se i miei
occhi non m'ingannano.» le spiegò e lo vide rabbuiarsi.
Istintivamente
Brethil rabbrividì. Cos'era quell'espressione angosciata?
«Ricordo
che Messer Bilbo ne aveva una simile.» proseguì Elladan, gravemente. «È lo zio
di Frodo.»
D'un
tratto capì e si sentì mancare. Lo Hobbit era stato per caso ucciso? Sauron
aveva recuperato forse l'Anello e tutto era perduto, dunque? Ma Brethil non
ebbe tempo di riflettere, perché i tamburi rullarono ancora una volta, più
forti di prima, e squillarono trombe. D'improvviso l'orda di nemici fuoriuscì
dalle porte del Cancello ora completamente aperte e si riversò sugli Uomini
come un fiume in piena. I Raminghi e gli Uomini del Principe Imrahil si
trovavano sul fronte che avrebbe accolto per primo l'assalto degli Orchetti e Brethil
sfilò l'arco ed incoccò una freccia.
«Vi
auguro di rivedere la prossima alba, amici miei.» disse la donna ai gemelli.
«La
vedremo insieme, thêl.» replicò
Elladan, che si mosse per impartire i primi ordini ai Dúnedain.
Boromir
affondò la possente e lunga spada sul torace di un Orchetto e, dopo aver
allontanato il cadavere con un calcio, si fermò per guardarsi intorno. Il suo
cavallo, compagno di viaggio da parecchi mesi, era caduto sotto numerose frecce
e lui stesso aveva rischiato di essere colpito se non fosse stato per lo scudo
che lo aveva protetto. Nella caduta aveva preso un brutto colpo alla fronte,
che ora sanguinava copiosamente e gli oscurava la vista, ma era ben determinato
stringere i denti e a continuare a combattere, per morire con onore. Si difese
da altri due attacchi come un indemoniato, e il nemico stesso che si ritrovò ad
affrontare la sua lama sembrò impressionato da tanto ardore.
Vide
Aragorn e Gandalf combattere poco distanti da lui, ancora sui loro destrieri,
ma non vide Pipino. Una morsa di angoscia gli strinse lo stomaco e cercò lo
Hobbit ovunque nei dintorni, mentre numerosi altri Orchetti si riversavano
contro di lui. Era evidente che la sua sfrontatezza in battaglia e la sua forza
fossero un motivo più che valido per il nemico affinché lo affrontasse.
Il
piccoletto, però, non riuscì a scorgerlo da alcuna parte. Lo chiamò a gran voce
ma non udì risposta in tutto quel fracasso di frecce, spade e tamburi. Dalla
collina su cui combatteva osservò il campo di battaglia e si angosciò. Già
numerosi dei loro soldati erano caduti sotto l'attacco del Nemico e molti altri
continuavano a morire. Poi qualcosa attirò la sua attenzione e rimase immobile,
incredulo. Si ritrovò a sbattere più volte le palpebre, convinto che l'immagine
di Brethil che combatteva a poche decine di metri da lui fosse frutto della sua
immaginazione e del sangue che stava perdendo dalla fronte. Eppure il luccichio
e il suono melodico di Celeboglinn
ogni qualvolta fendesse un nemico era così nitido da sembrargli vero.
Scosse
il capo, risvegliandosi da quella fantasia. Non era quello il momento più
adatto per sognare la presenza di lei al suo fianco. Brethil era parecchie
leghe da quella terra di Morte, al sicuro. Eppure, ogni qualvolta finisse un
Orchetto e volgesse lo sguardo verso quella figura incappucciata sul suo destriero,
così simile a Nerian, gli parve di riconoscere la lama ricurva e quel suo stile
di combattimento che apparteneva solo alla donna. E più si avvicinava al
soldato più ogni dubbio svaniva. Quella era davvero Brethil, oppure la botta
che aveva preso alla testa lo stava facendo impazzire prima della fine.
La
Dùnadan tirò le redini, facendo impennare il cavallo e falciando un Uomo
dell'Est sul petto e si fermò proprio davanti allo sguardo di Boromir. Sbarrò
gli occhi e non osò muovere un muscolo, come se temesse che ogni suo gesto potesse
costarle la vita. Rimasero immobili ad osservarsi, mentre la battaglia attorno
a loro imperversava crudele. Non era esattamente quello il momento più adatto
che avrebbe scelto per esclamare un sorpresa!,
ma a quanto pareva avrebbe dovuto accontentarsi.
Lei,
però, fu la prima a riprendersi. «Alle tue spalle!» gli gridò.
Boromir
fece in tempo a voltarsi e a muovere la spada in posizione di difesa, evitando
così che la lama sporca ed ammaccata di un Orchetto gli si conficcasse tra le
costole. Una familiare sensazione di pace gli formicolò lo stomaco e si ritrovò
a sorridere, quando uccise anche quell'ammasso puzzolente e sporco. Sentì la
presenza della donna alle sue spalle ed impugnò con forza spada e scudo.
La
loro battaglia poteva continuare.
*
Bene, bene, bene. Vedo che praticamente tutti avete
indovinato cosa avrebbe fatto Brethil. Ma conoscendo l'indole della fanciulla
sarebbe stato strano che rimanesse a Minas Tirith a maledire quei due omoni. È
decisamente più gratificante prenderli a randellate di persona, no?
Prima di salutarvi e di darvi appuntamento al prossimo
capitolo, questa è la traduzione della breve frase in Elfico:
*Ah! Sono contento che tu stia bene, Brethil. È stato un
lungo viaggio?
Inoltre
c'è una piccola citazione di Fabrizio de Andrè da qualche parte nel capitolo...
stavo scrivendo la frase e mi è venuto spontaneo scriverla. Spero non abbia
stonato troppo, per chi l'ha colta subito. Un abbraccio virtuale a chi la
scova!
A presto!
Marta.