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“Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.”
(Dante, Inferno – Canto V)
6. Il coraggio di credere nella verità
Uscirono
ben presto dalla città antica, e si avviarono verso al periferia. Ran continuava a guardare fuori dal finestrino, cercando di
orientarsi in quel labirinto di vie sconosciute. Con la coda dell’occhio
lanciava uno sguardo all’uomo alla guida, che di tanto in tanto imprecava,
maledicendo chissà quali divinità ogni qualvolta imboccava la via sbagliata.
Forse nemmeno loro erano del luogo.
Non
aveva il coraggio di girarsi ed incrociare nuovamente gli occhi dell’uomo
biondo, seduto accanto a lei. Si limitava ad osservare il riflesso di lui sul
vetro. Stava immobile, le braccia conserte, guardava fisso davanti a sé. Tutto
quello che Ran poteva sentire era quell’odiosa puzza
di nicotina e alcol, impregnata in ogni singolo angolo della vettura.
Alla
fine, giunsero a destinazione. O almeno, così pensò la ragazza, dal momento che
la macchina si era fermata.
“Scendi.”
le ordinò il capo, smontando a sua volta. Ran non
fiatò, limitandosi a fare ciò che le era stato richiesto. Una volta fuori, i
suoi dubbi furono confermati. Si trovavano in un vicolo buio, contornato da
alti palazzi che impedivano ai raggi del sole di filtrare fino a terra. Davanti
a loro si stagliava un edificio abbandonato, decorato da qualche crepa. Ad
un’analisi più attenta si dimostrava davvero pericolante. Le finestre erano
sbarrate e, dove non lo erano, si potevano osservare in bella vista le persiane
abbassate. Una serranda appena sollevata da terra sbarrava la porta d’entrata.
No,
Shinichi non poteva essere lì. Quegli uomini
l’avevano tratta in trappola. Ma di che si stupiva? Lo sapeva benissimo che
correva quel rischio. Cosa volevano farle? Erano due uomini, molto più alti e
robusti di lei. Il karate non l’avrebbe salvata. Sperò solo che non avessero
intenzione di fare quello.
Rabbrividì, e si massaggiò automaticamente le braccia per cercare di frenare la
pelle d’oca.
L’uomo
biondo doveva aver capito i suoi pensieri. Lo vide sorridere, mentre osservava
il suo gesto e il suo sguardo che cercava di mascherare l’apprensione e la
paura. Ma in fondo, era stata lei a cacciarsi in quel guaio. Sapeva i rischi a cui era andata incontro.
Con
una pedata l’uomo grosso, che da quanto aveva capito di faceva chiamare Vodka,
sollevò la serranda a sufficienza per permettere loro il passaggio. Poi la
prese per un braccio e la buttò dentro con violenza, tanto che Ran faticò a restare in piedi.
All’interno
regnava il buio più assoluto, eppure i due uomini si muovevano agilmente.
Dovevano essere già stati lì. Quello grosso la caricò sulle spalle, mentre lei
iniziava a scalciare e strepitare, tirandogli pugni sulla schiena totalmente
alla cieca.
“Ehi,
capo, questa qui è violenta!” disse sghignazzando. L’altro non sembrò gradire
la battuta.
“Zitto
e scendi queste dannate scale.” fu la sua risposta.
Ben
presto arrivarono in quella che doveva essere una sala sotterranea. Ran sentì lo scatto di un interruttore e la stanza fu
inondata dalla luce. Non ebbe tempo di alzare lo sguardo che quel bestione la
scaraventò a terra. Nell’urto si scorticò il gomito. Si alzò a sedere, notando
di aver lasciato una piccola striscia rossa sul pavimento: la sbucciatura
doveva essere abbastanza profonda. Sentì un forte bruciore.
La
stanza era spoglia. Nessun mobile, a parte un grosso armadio chiuso con un
lucchetto, situato giusto vicino alla porta da dove erano entrati. Per il
resto, assolutamente niente. Sembrava di stare in un capannone abbandonato: un
po’ come quelle vecchie fabbriche ormai smantellate.
Si
sentì improvvisamente tirare per un braccio e fu costretta a rimettersi in
piedi. Scalciò nel tentativo di sfuggire alla presa dell’uomo con gli occhiali.
Ma era troppo forte per lei.
Nel
frattempo, l’altro uomo le si era avvicinato. Teneva una pistola nella mano
sinistra, puntata verso il pavimento. Ran si chiese
per quanto ancora quell’arma sarebbe rimasta puntata verso il terreno.
Istintivamente, cercò di indietreggiare, ma la sua mossa ebbe solo l’effetto di
far rafforzare la presa dell’energumeno.
“Allora,
cara la nostra signorina. Si può sapere perché stai cercando Shinichi Kudo? E’ una storia
vecchia, e non vale la pena muovere le acque. Non trovi?”
La
voce dell’uomo biondo faceva gelare il sangue nelle vene. Ma il nome di Shinichi le aveva dato coraggio. Cosa avevano fatto quelle
persone al suo amico? L’uomo la fissava con quei suoi occhi verdi. Ancora quel
fetore di alcool e nicotina. Lo odiava. Con tutta se stessa. Non aveva più
paura, provava solo rabbia. Senza nemmeno pensarci, sputò per terra.
“Va
all’inferno.” sibilò. Non avrebbe detto una parola su Shinichi,
non avrebbe permesso loro di trovarlo. A costo della vita.
Un
lampo di stizza attraversò gli occhi del suo aguzzino. Poi, Ran
sentì la canna fredda della pistola poggiata sotto al mento.
“Provaci
di nuovo e ti faccio saltare in aria questo bel visino.”
Deglutì,
cercando di fermare il tremito che aveva iniziato a correre su e giù per le
gambe. Si era sbagliata. Aveva paura. Sì, ma chi non ne avrebbe avuta al suo
posto? L’importante era trovare il coraggio e la fermezza. Cercò di prendere
tempo.
“Che
cosa volete sapere?” chiese, tutto d’un fiato. La bocca si era fatta ormai
secca.
“Shinichi Kudo non c’è più da più
di un anno ormai. E non ci va a genio che tu vada in giro a parlare di una
faccenda scomoda. Per cui …” lasciò volutamente in sospeso la frase,
avvicinando l’indice sinistro al grilletto.
Ran
ormai sudava freddo. E quella notizia era stata come un colpo al cuore. Shinichi era morto da più di un anno? Ma com’era possibile?
Lei l’aveva incontrato l’ultima volta appena un mese prima della scomparsa di
Conan! Shinichi non poteva essere morto, non era
vero. Convinta ormai che l’uomo stesse per spararle, chiuse gli occhi e attese.
Ormai non sentiva più le gambe tremolanti. Si irrigidì.
“Aspetta,
capo. Mi è venuta in mente una cosa.”
La
voce profonda dell’uomo con gli occhiali la fece sciogliere di colpo. Le gambe
si fecero improvvisamente molli, e sarebbe caduta rovinosamente a terra se quel
bestione non l’avesse sostenuta.
Il
biondo sembrò infastidito: “Che diavolo c’è, Vodka? Sbrigati, mi sta prudendo
il dito dalla voglia di premere il grilletto.”
Il
compagno si affrettò a spiegare, volendo evitare di far innervosire ancora di
più il suo capo. Nel frattempo, Ran cercava di
riprendere fiato. Non aveva respirato per tutti quei secondi di silenzio, in
cui credeva che davvero sarebbe finita all’altro mondo.
“Ti
ricordi il bambino dell’altra volta, Gin?”
“Cosa
vuoi che me ne freghi di un bambino, ora?”
Era
davvero stizzito: Vodka valutò se continuare o meno. Alla fine, dato che ormai
si era imbarcato, optò per iniziare a remare.
“Il
bambino di Tokyo. Quello che abbiamo incontrato nei pressi di Beika e che ci ha seguiti fino al porto. Saranno stati due
mesi fa.”
Ran
sentì nuovamente un tuffò al cuore. Un bambino? Tokyo? Beika?
Due mesi prima? La Porsche nera? I due corvi? Quegli uomini? Il porto?
Tutte
immagini che diventavano vive nella sua mente, una dopo l’altra. Scorrevano
veloci come pagine strattonate dal vento. E poi, una figura su tutte, netta,
chiara, nitida come non mai: quella di Conan. No, non era tutta una
coincidenza. Tra Conan e quegli uomini c’era un legame. Tra Shinichi
e quegli uomini c’era un legame. Tra Conan e Shinichi
c’era un legame. Ed anche stretto.
Che motivo avrebbe avuto Conan per seguire quegli uomini? Era sveglio, sì, ma
era pur sempre un bambino. E quelli non sembravano dei criminali dilettanti.
Maneggiavano armi e sapevano come mettere alle strette le persone. Si
chiamavano con nomi in codice e vestivano alla stessa maniera. Dovevano
appartenere ad un’organizzazione più ampia.
Gin
sembrò capire. Inarcò le sopracciglia, come per riflettere. Continuava a tener
puntata la pistola su Ran.
“Quel
bambino, è vero. La somiglianza con Shinichi Kudo era notevole.”
Sì,
la loro somiglianza era davvero notevole. Non solo fisicamente, ma anche nei
modi di fare. Nel modo di atteggiarsi, di parlare, di ribattere ad
un’affermazione, nel modo di mangiare, di ridere, di arrabbiarsi, di fingersi
imbronciati: Ran rifletteva su tutto questo e
considerava le cose sotto una nuova luce. Paradossalmente, non sentiva nemmeno
più la pistola puntata su di sé. Era troppo presa dai suoi pensieri. Troppo
sconvolta da una verità che stava cominciando pian piano a manifestarsi.
Nel
frattempo, Gin aveva ripreso a parlare, sorridendo beffardo: “Ma che pensiero
stupido, Vodka. Un adolescente non può essere contemporaneamente un bambino.
Nemmeno Houdini era capace di simili trucchi.”
Era
davvero impossibile? Ran non ne era più così sicura.
Conan era comparso quando Shinichi era sparito. Conan aveva uno stretto rapporto con
il dottor Agasa. Conan era straordinariamente
intelligente per la sua età. Conan era fin troppo autonomo per la sua età.
Conan che non c’era mai quando Shinichi veniva a
trovarla. Conan che non c’era mai quando Shinichi le
telefonava. Conan che aveva seguito quei due uomini, che era scappato un
giorno, di punto in bianco, così come aveva fatto Shinichi.
D’improvviso,
un’immagine le attraversò come un flash la memoria. L’omicidio del Luna Park,
proprio il giorno della “scomparsa” di Shinichi. Ecco
dove aveva visto quei due uomini che amavano chiamarsi con nomi di
superalcolici. Erano saliti sulla loro stessa giostra e avevano una gran fretta
di tagliare la corda. Erano loro che il suo amico aveva seguito? Non trovava
altra soluzione.
Conan
era comparso quando Shinichi se n’era andato. E con
Conan, si era improvvisamente zittito anche Shinichi.
E poi c’era qualcosa, qualcosa che Agasa, Ai, Heiji e Yukiko sapevano, ma che
non avevano voluto rivelarle. Cos’erano quelle misteriose frasi dette a metà?
Qualcosa tipo “è meglio l’incertezza della sicurezza”? Come se loro si fossero
ormai rassegnati sulla sorte di Shinichi. Come se lui
fosse morto con Conan.
Fu
un attimo. Una specie di intuizione sovrannaturale, che le chiarì una verità
totalmente paradossale, che sfiorava l’assurdo. E bisognava avere coraggio per
credere in quella verità. Era come essersi scervellati a lungo su un problema
e, tutto d’un tratto, arrivare alla soluzione, maledicendosi per essere stati
così stupidi da non esserci arrivati prima. Urlare “Eureka!”, come aveva fatto
Archimede, capire ciò che ci è sempre davanti agli occhi.
Come
aveva potuto non capire quegli sguardi che Conan a volte le riservava? Come
aveva potuto non capire la voglia di proteggerla che manifestava nella maggior
parte delle occasioni? Come aveva potuto fraintendere il suo diventare rosso
ogni volta che lei lo abbracciava? Come aveva potuto essere così cieca, sorda,
così stupida, avere la mente talmente annebbiata dall’abitudine alla normalità
da non trovare una soluzione che andasse oltre ciò che comunemente vedeva?
Conan
era Shinichi.
E lei stava cercando un fantasma.
Non
le importava come avesse fatto a tornare bambino. Sapeva solo che era così. Era
stato tutto chiaro, in un solo istante. Ma quegli uomini c’entravano. Loro
avevano rovinato la vita di Shinichi. E stavano
distruggendo la sua.
Vendetta.
Ecco cosa provava in quel momento. Un vivo, ossessivo desiderio di vendetta,
che si diffondeva come linfa vitale nel suo corpo. Chi commette ingiustizia
merita di subirne una peggiore. Guardò fisso negli occhi l’uomo biondo che
aveva di fronte. Tutto quel male che aveva commesso.. lei glielo avrebbe
ritorto contro. Sì, ecco cosa avrebbe fatto.
Ran
non ragionava più, la sua mente ottenebrata dall’ira e dal rancore pulsava,
animata da un desiderio quasi animale. Voleva fare giustizia da sé, una
giustizia più simile a quella fra bestie che fra esseri dotati di ragione. La
rabbia è follia, e l’odio perpetuo è pazzia. Il risentimento non la faceva più
ragionare. Dov’era finita la Ran dolce, solare, buona
e gentile di solo qualche ora prima? Era stata soppiantata nell’arco di qualche
secondo da una donna aggressiva, risoluta, ferma nel suo proposito di vendetta.
Sentiva che niente l’avrebbe più fermata. Ma non aveva molto tempo, doveva
agire in fretta. Prima che Gin sparasse.
“Shinichi non è morto.” disse piano, quasi scandendo le
parole. La sua voce era priva di sentimento: sembrava un automa. Gli occhi
vitrei non lasciavano trasparire emozione alcuna.
“L’ho
visto.” continuò imperterrita,notando che lo sguardo dell’uomo si faceva
interessato.
“Quando?”
chiese quello, di rimando.
Hai
abboccato, pensò.
“L’ultima
volta un mese fa. Poi, è sparito. E’ per questo che ho iniziato a cercarlo.”
L’uomo
ripose in tasca la pistola. Fece cenno al compagno di lasciare la presa sulla
ragazza. Non appena Ran fu libera, si sgranchì le
braccia, che formicolavano. Ma fu un attimo: Gin l’afferrò per l’avambraccio
destro con tanta forza da farle male. Avvicinò il suo viso a quello della
ragazza, facendole sentire tutto il fetore minaccioso del segugio.
“Se
stai mentendo per cercare di aver salva la vita, sappi che non ti servirà a
molto.”
Ran
si mantenne lucida. Non aveva più paura. Non aveva più niente da perdere.
“Non
sto mentendo.” disse sprezzante, “Non ne avrei motivo.”
Gin
mollò la presa, facendola barcollare. Riuscì in qualche modo a mantenere
l’equilibrio. Aveva sull’avambraccio i segni rossi di quegli artigli.
“Perché
non collaboriamo? Stiamo cercando la stessa persona.”
L’uomo
biondo si accese una sigaretta, senza calcolare minimamente la sua frase. Forse
fu per quello che l’altro si sentì autorizzato a parlare: “Ehi ragazzina, come
ti permetti di…”
“Sta
zitto, Vodka. Sentiamo cos’ha da dire.”
Fece
un cenno con la testa, come per autorizzarla a parlare. Ran
strinse i pugni. Quell’uomo sapeva di avere un vantaggio su di lei: quello di
poterla fare fuori in qualsiasi momento.
Doveva agire nella maniera giusta. Ogni errore le sarebbe stato fatale.
“Potrei
esservi utile. Shinichi è un mio amico di infanzia,
lo conosco sin da quando eravamo in fasce. Entrambi lo stiamo cercando: insieme
possiamo arrivare a lui.”
Gin
mordicchiava la sua sigaretta, continuando a fissarla. Buttò fuori il fumo.
“C’è
una cosa che non mi convince. Non penso che stiamo cercando quel detective per
lo stesso motivo.”
“Diciamo
che il fine comune è a grandi linee lo stesso. A me importa solo ritrovare Shinichi. A qualsiasi mezzo.”
Ran
sperò di averli convinti. Cercava di mantenersi fredda e calma.
I
due uomini si lanciarono uno sguardo. Il bestione non osava parlare. Quella era
una decisione importante e le decisioni importanti spettavano al capo. Si
limitò ad accendersi a sua volta una sigaretta e aspettò che Gin prendesse la
parola. Quello fece qualche passo verso Ran. Sputò
fuori la sigaretta, pestandola sotto il tacco dei suoi stivali.
“Perché
no.” disse alla fine, “diventerai una di noi. Almeno fino a quando ci
servirai.”
Le
ultime parole suonarono come una minaccia, ma Ran non
le calcolò. Perché nella sua mente era lei che si sarebbe servita di loro, fino
a mettere in atto la sua vendetta. Doveva solo cogliere l’occasione giusta.
Loro
avevano ucciso Shinichi. Lei avrebbe ucciso loro.
Non
rispose nemmeno. Il suo assenso era sottointeso. L’uomo biondo le voltò le
spalle e si avviò verso l’uscita. Sembrava soddisfatto.
“La
nostra nuova compagna ha parlato un po’ troppo. Falle fare un riposino, Vodka.”
Ran
non fece nemmeno in tempo a girarsi. Sentì un forte colpo alla testa. Poi tutto
prese a girare vorticosamente, come in una spirale infinita.
E
fu quello l’inizio della fine.
Angolino autrice:
Ed ecco
qui il sesto capitolo.. ok, so che le cose stanno prendendo una piega
decisamente strana, ma il mio inconscio mi ha guidato in questo senso mentre
scrivevo .. spero che il capitolo vi sia piaciuto :)
Vorrei
ringraziare chi ha recensito il capitolo 5, cioè Aya_Brea Silver Night IAm_SlightlyMad magakagirl 88roxina94 AliHolmes.. grazie mille
davvero! Scusate ma oggi sono un po’ di fretta, per cui non riesco a
ringraziare personalmente chi ha la storia tra le preferite, ricordate o
seguite.. vi mando un abbraccio e un ringraziamento generale!
A presto,
Flami