III.
Più tardi
Valeria la
stava chiamando con insistenza da un po’ e lei faceva finta
di non averla
udita, chiusa nel bagno alla ricerca di una limetta per le unghie; al
terzo
richiamo, urlato in modo tale da essere sicura che anche gli altri
abitanti del
condomino l’avessero percepito, Ivonne non poté
più ignorarla e, schiusa la
porta, le assicurò che stava arrivando.
Prima di
tornare in cucina, sedersi accanto alla ragazza e dedicarsi alla
manicure, si
sciacquò la faccia con acqua fredda. Si guardò
allo specchio, il volto ancora
grondante, e si trovò più pallida del solito; la
mano le corse ad
attorcigliarsi fra i ciuffi scuri sulla nuca: i suoi capelli non erano
più
corti come qualche mese prima, cominciavano ad allungarsi e a toccarle
quasi le
spalle; Ivonne provò l’impulso di afferrare un
paio di forbici e tagliarli più
corti di prima, cancellando specialmente quella frangetta che non le
piaceva
affatto ma alla quale, almeno finché non fossero stati
abbastanza lunghi da
spostarli di lato, doveva fare l’abitudine.
«Arrivo, sto
arrivando!» informò l’amica, temendo un
nuovo richiamo.
Raccolse la
lima e si chiuse la porta del bagno alle spalle. Valeria non approvava
la sua
decisione di farsi ricrescere i capelli, diceva che con un taglio corto
era
molto più bella e delicata di quanto non lo fosse
normalmente, ma Ivonne non
aveva voluto sentire ragioni e, nonostante i frequenti ripensamenti, si
era
ostinata a riportarli ad una lunghezza conveniente. La sua scusa era
che
l’estate era finita e cominciava a fare freddo e che le
piaceva portare i
capelli lunghi sotto sciccosi cappellini colorati, ma la
verità era che i
capelli lunghi le ricordavano il primo periodo dell’anno,
quello in cui aveva
conosciuto Roberta e durante il quale si erano messe insieme. Di queste
motivazioni, ovviamente, non faceva parola con Valeria.
Ora si
vedevano più spesso: andavano insieme al cinema, il sabato
sera erano sempre ad
un qualche tavolo, impegnate ad avvistare e braccare qualche ragazza,
Ivonne le
dava un passaggio e Valeria l’invitava a pranzare a casa sua;
nello specifico,
quel pomeriggio si erano messe a guardare un film alla televisione e
ora si
apprestavano a chiacchierare del più e del meno mentre si
passavano lo smalto
sulle unghie.
«Oh
finalmente! Che facevi?»
«Niente,
niente. Ho trovato questa, va bene?» chiese Ivonne,
mostrandole la lima.
«Sì,
sì, va
bene tutto.»
Valeria poggiò
la mano destra sul tavolo. Per un paio di minuti rimasero in silenzio,
poi
Ivonne fu costretta ad alzare la testa, smettere il suo lavoro e
rispondere
all’amica che le domandava, con simulata noncuranza, di
ricordarle di che cosa
stessero parlando poco prima.
«Mah… di
Clotilde, credo.»
Rispose con
altrettanta vaghezza, ma in cuor suo si preparò a sorbirsi
un’altra tirata,
l’ennesima, contro l’ex-ragazza di Valeria della
quale a quest’ultima, casomai
non fosse stato abbastanza chiaro, non importava nulla di nulla.
«Ah sì,
è
vero. Ormai è una settimana che se n’è
andata in Spagna, quella troia.»
«Come lo sai?»
Ivonne non si
dava più nemmeno la pena di distoglierla da quei discorsi,
l’assecondava
meccanicamente sperando che prima o poi si stancasse di tornare sempre
sullo
stesso argomento; non si poteva più condurre una
conversazione senza che in
qualche modo Clotilde spuntasse fuori. Sembrava che Valeria non si
stancasse
mai di ripetere quant’era stata ingiusta nei suoi confronti,
lasciarla per poi
mettersi a fare gli occhi dolci a quella studentessa di Pescara, Morena.
«Che tra
l’altro è bruttissima, non capisco che cosa ci
trovi! È grassa, orrenda, è una
tappa!»
«E questo cosa
c’entra?»
«Come cosa
c’entra?»
Il tono di voce
improvvisamente acuto dell’altra la fece pentire di quella
azzardatissima
opinione: quando Valeria cominciava a sproloquiare riguardo Clotilde
non ci
capiva più nulla e il suo carattere, già
impulsivo e avventato, assumeva i
contorni di un egoismo senza fine.
«Non riesco a
non pensare a quanto sia stata cattiva con me. Che senso aveva decidere
insieme
di lasciarci, allora?»
Valeria
recriminava l’essere stata indotta a quella separazione
serena e
successivamente esser presa per il naso, a quanto pareva, dato che
Clotilde non
sembrava molto preoccupata circa la distanza che la separava dalla sua
attuale
ragazza.
«Ma tanto si
lasceranno sicuramente.»
«Sì, questo lo
so anch’io e lo spero tanto, ma è il principio che
mi fa andare in bestia,
capisci? Il principio!»
Ivonne pensava
che la sua amica avesse ragione: in fin dei conti lei e Clotilde si
erano
separate proprio in vista del trasferimento in Spagna di
quest’ultima e delle
complicazioni che avrebbe portato il proseguire la relazione a
distanza;
pensava anche, tuttavia, che dopo un mese intero di lugubri
chiacchierate e
invettive contro la ragazza fosse anche giunto il momento di dire
basta,
voltare la pagina, metterci una pietra sopra. Valeria doveva averla
presa
proprio male, quella volta, perché non ricordava che si
fosse accanita sino a
quel punto quando era stata lasciata da altre ragazze; al contrario,
aveva
ammirato molto il suo temperamento vivace e reattivo in seguito alle
delusioni,
il suo prendere sempre tutto con grande leggerezza ed esser subito
pronta a
ripartire.
«Ma che
c’è?
Mi ascolti?»
«Stavo
pensando.»
«Tu pensi
troppo.»
«Sì, lo so.
Roberta lo diceva sempre.»
Nello stesso
momento in cui pronunciò il suo nome si rese conto di aver
commesso un errore
fatale. Valeria aggrottò le sopracciglia.
«Ma che, pensi
ancora a quella?»
«No, macché,
dicevo così…»
«Meno male,
perché su di lei non c’è proprio niente
da dire e te la devi togliere dalla
testa. Non voglio che ci pensi sempre. A proposito, che fa
Anita?»
«Boh, non lo
so.»
«Non vi
sentite più? Perché?»
«Non mi va.»
«Non ti va mai
niente! Non fare la depressa!»
«Non sono
depressa, è solo che non mi va.»
Ogni volta che
si lasciava scappare il nome di Roberta in una conversazione, Valeria
le dava
subito addosso accusandola di star vivendo ancora nel passato e di
essere
aggrappata ad un ricordo che non aveva più
possibilità di rivivere. Ivonne
doveva sforzarsi di chiudere la bocca e non rispondere nulla, in quei
casi.
Lei sapeva
benissimo di non avere più nulla da spartire con Roberta;
non era depressa, non
viveva nel passato e soprattutto non rimuginava ogni istante del suo
tempo su
di lei, come invece faceva la sua amica. Certe volte si domandava se
per caso
Valeria non fosse cosciente del proprio blocco emotivo e cercasse di
esorcizzarlo attribuendo a lei quel comportamento; ma non era Ivonne a
voler
parlare a tutti i costi della sua ex-ragazza, non era lei a gettarle
addosso
del fango e ad aprire inutili ferite. Era anche per questo motivo che
non
provava nemmeno a farla rinsavire e imporle una volta per tutte di
smettere di
parlare di Clotilde o, se era questa l’origine di tutto,
costringerla ad ammettere
che era profondamente delusa e che avrebbe voluto essere al posto di
Morena, a
dialogare con la ragazza attraverso lo schermo di un computer; invece,
notando
quell’aria aggressiva e saccente che assumeva nei suoi
confronti quando veniva
tirata in ballo Roberta, aveva deciso di comportarsi in maniera
passiva. Non
voleva frequentare Anita perché sentiva di non provare
assolutamente nulla per
lei, né attrazione fisica e tantomeno mentale, dunque
perché Valeria si
ostinava a far passare questo suo rifiuto come la celata speranza di
poter
tornare fra le braccia di Roberta?
Non aveva
bisogno, come invece pareva necessario per l’amica, di una
scossa che la
facesse tornare in sé e le aprisse gli occhi sul presente,
un presente in cui
Roberta se n’era andata a Pavia e non abitava più
assieme a lei e in cui i loro
rapporti si erano interrotti; era consapevole di questa situazione e
cercava di
farci l’abitudine.
«Grazie!»
commentò Valeria con un sorriso, ammirando le unghie delle
mani perfettamente
regolari. «Ora tu. Che colore preferisci?»
«Non saprei…
grigio?»
«Grigio? Che mortorio!
Perché non
rosse?»
«Rosse? No, sono
troppo… appariscenti.»
«Vada per il rosso e
niente storie, ti
ci vuole un po’ di vitalità.»
Ivonne le consegnò le
mani tirando un
lungo sospiro e pensando che ci voleva davvero una gran pazienza per
non
arrabbiarsi; ad ogni modo, dare di matto non serviva a nulla: non era
capace di
gestire un litigio e finiva sempre per lasciarsi sfuggire troppe
considerazioni, troppi brutti pensieri covati a lungo che peggioravano
la
situazione.
Valeria le aveva già
passato lo smalto
sul pollice e sull’indice quando squillò un
telefono. Entrambe si riscossero
dai rispettivi pensieri per identificare la provenienza della suoneria
e la
proprietaria.
«Oh, è il tuo,
Ivonne.»
«Devo averlo lasciato in
borsa» allungò
la testa verso il corridoio e si guardò le mani laccate per
un quinto. «Me lo
prendi, per favore?»
«Sì,
certo.»
Valeria abbandonò la sua
postazione per
fiondarsi sull’attaccapanni alla ricerca della borsa
dell’amica e del
telefonino che continuava a squillare. La ragazza non fu abbastanza
rapida nella
ricerca e quando tirò fuori l’aggeggio la chiamata
era già terminata; lo riportò
all’amica, scusandosi.
«Non fa niente, vediamo
chi era.»
Fece in modo da illuminare il
display e vi
lesse un numero che non era stato salvato in memoria, ma che non le era
troppo
sconosciuto.
«Chi era?»
domandò, Valeria, che nel
frattempo aveva ripreso in mano il pennellino.
«C’è
un numero sconosciuto che continua
a chiamarmi» rispose Ivonne, concentrata sulle cifre,
«mi sembra che sia lo
stesso delle altre volte, ma non ne sono sicura.»
«Sarà
un’ammiratrice segreta. Perché non
richiami?»
«Vuoi scherzare? E che
dico?»
«Ah, sì,
dimenticavo le tue innumerevoli
paranoie riguardo le conversazioni telefoniche.»
Anche se Ivonne arrossì
di vergogna, non
poté non ammettere che a quel proposito l’amica
aveva ragione: non era troppo a
suo agio nel parlare con sconosciuti e dover comunicare attraverso il
telefonino la rendeva molto nervosa ed ancora più rigida di
quanto non fosse di
solito. Non avere la possibilità di guardare
l’interlocutore negli occhi la
inibiva, nonostante s’impacciasse anche durante le
conversazioni dirette; la
sua giustificazione era che in un faccia a faccia, almeno, poteva
intuire
dall’espressione dell’altra persona che cosa stesse
pensando di lei.
«Avranno sbagliato
numero.»
«Boh, chi lo sa. Attenta
a non sbavare!»
«Sì,
sì, tranquilla.»
Insieme ai rapporti con Valeria
aveva
cominciato a ritagliarsi più tempo da passare con sua madre
e la famiglia. Una
volta che lo smalto si fu asciugato Ivonne si congedò
dall’amica con la
promessa di rivedersi il giorno successivo, per poi ricevere una nuova
chiamata
mentre metteva in moto la sua automobile. Azionato il vivavoce prese a
rassicurare sua madre.
«Sto arrivando, sto
arrivando! Dammi il
tempo.»
«No, perché
poi stasera ho da preparare
una cena e non voglio trovarmi a dover fare tutto all’ultimo
minuto, quindi se
non puoi venire non fa niente, basta che me lo fai sapere.»
«Mamma, sto arrivando,
sono ancora le sette.
Hai tutto il tempo di prepararti.»
«Allora poi mi aiuti, se
non ce la
facciamo?»
«Ma sì, ma
sì, stai tranquilla.»
Non era solo Valeria ad essere
esagitata
e frenetica in quell’ultimo periodo. Anche sua madre aveva
cominciato ad essere
più apprensiva ed invadente del solito nei suoi confronti;
aveva voluto essere
informata, di fronte ad una tazza di cioccolata calda, su tutti i
dettagli
della sua vita privata che si era perduta in quei mesi di lontananza.
Aveva
ascoltato con attenzione – non risparmiandosi però
commenti e critiche che
Ivonne avrebbe volentieri evitato di ascoltare – tutta
l’evoluzione della
storia con Roberta e ne aveva concluso che era meglio così,
era meglio che la
sua bambina trovasse una ragazza diversa, in grado di capirla e di non
soffocarla.
«Le persone si
approfittano di te,
perché hai un carattere un
po’…» aveva detto, tentennando
sull’ultima parte,
alla ricerca della parola giusta.
«Debole?»
«Hai sempre avuto bisogno
del tuo
spazio, che ti lasciassero fare le tue cose in pace. Ecco, non so se
questa
ragazza è stata in grado di capirlo fino in fondo.»
Ivonne era sicura che sua madre le
volesse bene, anche se la carezza ed il sorriso che avevano seguito
quell’affermazione suonavano un po’ come un
contentino. Era sicura che le sue
intenzioni fossero le migliori, che quel tentativo di riavvicinamento
dopo mesi
di freddezza fosse spontaneo – forse era lei per prima ad
aver bisogno di
riallacciare quel rapporto, di aggrapparsi a qualcun’altra,
dopo l’abbandono di
Roberta – ma quando sentì squillare di nuovo il
cellulare pensò che cominciava
a diventare davvero troppo insistente. Schiacciò il pulsante
di accettazione
della chiamata.
«Che vuoi, ma’?
Sto arrivando.»
Nell’abitacolo si spanse
la risata
genuina di una ragazza.
«Non sono tua madre,
Ivonne.»
Lei si ritenne fortunata, per una
volta,
ad essere bloccata in una chilometrica coda: in questo modo non dovette
preoccuparsi di tenere i nervi saldi e occuparsi
dell’automobile; dapprima
impallidì, poi divenne tutta rossa e scelse di dire la cosa
più sciocca che le
passò per la mente.
«Chi parla?»
Un tono formale e neutro, ma che
non
nascondeva a sufficienza l’improvviso tremolio della voce.
«Mi senti, Ivonne? Sono
Roberta.»
Pur volendo rispondere qualcosa,
qualsiasi cosa, darle un segnale della sua presenza, si
ritrovò con la lingua
incollata al palato.
«Pronto?»
Dopo i primi secondi di stasi,
l’istintivo
pensiero che formulò la sua mente fu quello di chiudere
bruscamente la
chiamata, spegnere il cellulare e gettarlo nella borsa; cosa che non
avvenne
perché Ivonne sentì muoversi qualcosa nelle sue
viscere, come non le capitava
da un bel po’ di tempo, nel momento in cui Roberta
pronunciò il suo nome.
«Ivonne? Ci
sei?»
«Sì.»
Rispose quasi senza accorgersene e
subito se ne pentì. Anche Roberta sembrò meno
tesa, dopo aver ascoltato la
risposta.
«Cosa stai
facendo?» domandò.
«Sono in
macchina.»
Ivonne fu felice che
l’avesse domandato.
Provò piacere nel farle capire che era impegnata e che non
aveva tempo da
perdere, anche se evitò di interrogarsi su quanto fosse
veritiera quella voglia
di scacciarla.
«Sono in macchina, sto
guidando. Sto
andando da mia madre.»
Esitò un attimo, poi
rincarò la dose:
«Non posso
parlare.»
«Ti posso chiamare,
più tardi?»
«Più tardi
quando?»
«Più tardi.
Rispondimi.»
La sicurezza di Roberta, tanto
anelata
quanto a tratti detestata, si manifestava ancora; ebbe un istintivo
moto di repulsione,
pensò che dall’altra parte del telefono lei fosse
tranquilla e certa che la
cara e ingenua Ivonne non le avrebbe negato nulla; mise giù
senza tanti
complimenti, congedandola in maniera sbrigativa.
Non fu nel pieno possesso delle sue
facoltà mentali per tutto il resto della serata, ma non fu
un problema: sua
madre, in un eccesso di iperattività, correva da una parte
all’altra della
casa, spostando piatti, tovaglie, posate e sedie, così da
non accorgersi dello
stato assente e meditabondo più acuto del solito della
figlia, ottenebrata
dall’orologio che l’incalzava e
dall’arrosto che non si cuoceva come previsto.
Distribuiva ordini con
l’inflessione di
un generale e svolazzava dalla cucina al soggiorno con
l’eleganza di una pattinatrice;
nel complesso l’insieme risultava bizzarro, ma Ivonne e le
sue sorelle erano
abituate a quegli improvvisi sbalzi d’umore da parte della
mamma.
«Damiana, spegni il
forno!»
«Ma no, non è
ancora cotto bene!» le
rispose una voce proveniente dalla cucina.
«Non fa niente,
altrimenti diventa secco
e immangiabile!»
«Ma vieni a vedere,
è ancora tutto
rosa!»
«Damiana, ho detto che
non fa nulla.
Tiralo fuori e basta!»
Ivonne osservò divertita
la madre
rizzarsi sulla schiena e agitare un dito nel rivolgersi a sua sorella
che, non
troppo convinta, spegneva il microonde; aveva assunto una tale
naturalezza nel
gesticolare in quel modo così teatrale che non ci faceva
più caso, ma ad un
occhio esterno – Ivonne lo sapeva – sembrava un
po’ tocca.
«Ma’»
si lamentò ancora Damiana, «e
vieni a vedere, non si può!»
Con un verso isterico la donna
lasciò
perdere la disposizione dei tovaglioli per procedere a passo di marcia
verso la
cucina; Ivonne accelerò le operazioni di smistamento delle
forchette per poi
correrle dietro, per nulla intenzionata a perdersi una sola scena di
quel
teatrino. Era anche per quello che le piaceva tanto intrufolarsi a casa
sua:
per poter fare l’estranea, sedersi in un angolino e godersi i
battibecchi fra
le sorelle o le stranezze della madre.
«Che
c’è, cos’ha che non va?» stava
dicendo. «Lo vedi, è solo un po’
rosa… come vuoi che sia fatto il roastbeef?»
«Ti prego, è
crudo!»
Anche sua sorella Damiana era
essere
molto portata per la drammatizzazione e, quando voleva, toccava picchi
di
esagerazione che facevano concorrenza alla madre. Quella volta,
però, Ivonne le
dava ragione e la spalleggiava silenziosamente nel suo rammaricarsi per
le
scelte della mamma: sarebbe venuto a cena il suo fidanzato con i
genitori e la
ragazza ci teneva a nascondere le eccentricità familiari
– o quantomeno a far
sì che fossero meno evidenti.
Cincischiarono per un altro
po’ circa il
grado di cottura dell’arrosto finché Damiana, con
risolutezza ed un gran
movimento dei capelli, non infilò di tutta forza la carne
nel microonde. Ivonne
vide sua madre accettare la sconfitta e tornare in salotto ad
apparecchiare la
tavola. Poco dopo una figura più esile e imbronciata fece
capolino dalla porta
del corridoio.
«Ma perché
gridate, si può sapere?»
«Ciao Antonia»
la salutò subito Ivonne.
«Ciao» rispose
lei, non troppo affabile.
Era la più piccola della
famiglia e
covava già un senso di estraneità rispetto a
tutto quel marasma che producevano
la mamma e le sorelle; per questo Ivonne la prendeva in simpatia, per
non avere
quelle manie da primadonna che parevano accomunare un po’
tutte le altre. Quando
vide sua madre portarsi una mano alle tempie e alzare gli occhi al
cielo capì
che doveva essersi del tutto dimenticata della presenza della figlia
più
piccola.
«Tesoro! Ci aiuti a
preparare la tavola?»
«No, non mi va.
Perché preparate la
tavola, chi viene?»
«Il fidanzato di
Damiana.»
Ivonne notò le sue
guance arrossate e la
spavalderia che veniva meno nel viso, dunque suppose che
quell’improvvisa
informazione l’avesse messa non poco a disagio. Assistette
con taciturna
goduria alla visione della madre che tentava in tutti i modi di trovare
una
scusa per mandarla via.
«Non c’era il
compleanno di una tua
amica, stasera?»
«No.»
«Non ti va di scendere a
giocare insieme
a Luciana?»
«Mamma, sono grande! Non
gioco più con
le bambine piccole.»
Ivonne pensò che poi
tanto grande non
era, visto che a Dicembre avrebbe compiuto undici anni, ma sorrise
divertita
per quella manifestazione di carattere. Antonia si avvicinò
al tavolo in via di
preparazione, scrutandolo attenta.
«Ivonne,
perché metti solo la forchetta
e il cucchiaio?»
Lei si rese conto di aver lasciato
in
cucina i coltelli e si batté una mano sulla fronte.
«Ah, è
l’abitudine. Sai, a casa io non
uso quasi mai il coltello.»
«Davvero?»
«Sì. Roberta
se lo prendeva sempre da
sola…»
Accorgendosi di essersi lasciata
sfuggire quel nome in presenza della madre e della sorellina divenne
tutta
rossa e subito mollò le posate per fiondarsi in cucina a
prendere quelle
mancanti. Doveva essere colpa di quella telefonata, sì, non
vedeva altra
spiegazione per quelle sue incoscienze; era già pericoloso
nominarla per la sua
tranquillità mentale, figurarsi poi mettersi a snocciolare
aneddoti sotto il
naso di sua madre. Non voleva assolutamente esser presa per una
poveraccia
ancorata al passato, le bastavano i sermoni di Valeria. Quando fece
ritorno in
salotto scoprì che la curiosità della sorella non
si era affatto placata.
«Chi è
Roberta?» le domandò
immediatamente, tenendo sulle labbra un sorriso furbo che non le
piacque
affatto.
«Un’amica.»
Non sapeva che cosa Antonia
credesse e
che cosa le avesse raccontato la madre riguardo la sorella maggiore che
non
aveva un fidanzato, ma di sicuro non voleva tirar fuori
quell’argomento, non in
quel momento.
«Era la coinquilina di
Ivonne» aggiunse
sua madre, sperando che ulteriori informazioni la quietassero.
«E adesso?»
«Antonia, allora che fai?
Ti chiudi in
camera tua per tutta la sera?»
Ivonne fu grata alla madre per aver
portato il discorso su altri lidi, ma non fu altrettanto entusiasta
quando, in
risposta al diniego di Antonia, si volse nella sua direzione e disse:
«Be’, allora
vai a fare un giro con
Ivonne.»
«Un giro? Che
cosa?»
«Sì, tanto hai
la macchina, no?»
Provò ad obiettare
qualcosa, a mettere
in piedi una scusa qualsiasi, ma capì di non avere alcuna
possibilità di scampo
quando la sorella annuì con convinzione, dichiarando che le
andava bene.
I minuti seguenti furono i
più caotici:
Damiana richiese l’aiuto della madre per legare i capelli in
una treccia,
Antonia lottò con costanza per farsi affidare le chiavi del
portone, l’arrosto
rischiò di bruciare e quando suonò il citofono
tutte e quattro erano tanto
agitate da non capire più niente.
«Andrà
benissimo, andrà benissimo! Ora
abbracciamoci tutte!»
Ivonne, assieme a Damiana ed
Antonia,
venne catturata di forza dalle braccia della madre, che le tenne
strette per
una manciata di secondi in cui le tre ragazze trovarono il tempo di
lamentarsi
per quella scomoda affettuosità.
«Aprite la porta,
su» comandò.
Poi, rivolgendosi ad Ivonne, le
raccomandò di scendere rapidamente per le scale e di
riportare a casa la
piccola ad un orario che non fosse superiore alle dieci e mezza. Ivonne
fu
spinta sul pianerottolo dalla sorella che, nervosa, si lisciava le
pieghe del
vestito.
«Ve ne volete andare? E
che diamine!»
sbottò Damiana.
«Andrà
benissimo, vedrai. Sei molto
bella» fece in tempo a dirle Ivonne, prima di sparire oltre
la tromba di scale.
Quando giunsero al piano terra
sentirono
il rumore delle porte cigolanti dell’ascensore che si
aprivano e un cicaleccio
di voci fra le quali spiccava quella della loro mamma, che invitava gli
ospiti
ad entrare.
«Non vorrei essere al
posto di Damiana»
commentò Antonia quando furono in strada.
Ivonne la squadrò per un
lungo momento;
si domandava che cosa avrebbe dovuto farsene di una sorella
più piccola a cui
badare quando aveva per la testa tutt’altri pensieri.
«Come la
mettiamo?» domandò infine.
«Dove vuoi andare?»
«Mi porti al
cinema?»
«Al cinema? No, no, non
se ne parla.»
«Perché
no?»
«No, non si
può.»
«Perché?»
ripeté Antonia, per nulla
intenzionata a demordere. «Non dirmi che avevi qualcosa da
fare, perché non ci
credo!»
«In effetti,
io… Io avevo qualcosa da
fare, sì.»
«E che cosa?»
«Una
cosa…»
Istintivamente la mano le corse
alla
tasca del soprabito in cui aveva infilato il cellulare; lo estrasse per
controllare il display e trovò due chiamate perse dallo
stesso numero, non
memorizzato in rubrica. Scartò subito l’idea di
richiamarla, sarebbe stato
troppo imbarazzante e soprattutto non voleva darle
l’impressione di essere
ansiosa di parlare con lei; sperava che chiamasse ancora, che le desse
un’altra
possibilità, ma non era sicura di volerla rivedere. Non che
ci fossero molte
certezze nella sua testa, ma riguardo quella situazione non aveva
ancora pensato
al da farsi, non aveva ancora chiarito i suoi sentimenti. Le appariva
tutto
molto confuso, avrebbe avuto bisogno di più tempo per
valutare le cose, per
sincerarsi circa le intenzioni di Roberta, per starsene in santa pace a
riflettere senza una sorellina impicciona fra i piedi.
«Non hai niente da
fare» concluse
Antonia, l’aria soddisfatta. «Su, andiamo in
macchina.»
Ivonne rimase lì,
pensosa, con le mani
che le tremavano nell’atto di premere il pulsante verde. Le
sembrò di risentire
la voce di Valeria che le intimava di non avere più alcun
contatto con quella
stronza prepotente e quella di sua madre che le offriva la sua pietosa
compassione. Senza nemmeno accorgersene, aveva già fatto
partire la chiamata. Antonia
osservò la sorella restare lì impalata e portarsi
il cellulare all’orecchio.
Incuriosita, fece qualche passo nella sua direzione; non aveva mai
visto Ivonne
così pallida, sembrava anche più cadaverica del
solito.
Attese che la ragazza accettasse la
chiamata con le mani che le tremavano e la sensazione di aver compiuto
un’enorme sciocchezza. Avrebbe voluto che rispondesse e al
contempo sperava il
contrario. Dal “Pronto?” trafelato che ricevette
capì che Roberta doveva essersi
precipitata alla ricerca dell’apparecchio e dalla confusione
che udiva immaginò
che si trovasse in strada.
«Ciao.»
«Ivonne! Mi hai
chiamata!»
Il suo tono entusiasta divenne
d’un
tratto dubbioso.
«Perché?»
«Non lo so»
rispose lei, l’aria
terrorizzata, «ho premuto.»
Roberta rise e anche la ragazza
distese
il viso in una smorfia. Non ricordava di essere mai stata
così agitata come in
quel momento, temeva di non riuscire a mettere in fila due parole; era
perfino riuscita
a vincere il disagio che le provocavano le conversazioni telefoniche,
non
poteva mollare, doveva per forza continuare a parlare. Pensò
che per svenire ci
sarebbe stato tempo più tardi, forse.
Proprio mentre
s’ingegnava per formulare
una frase che mandasse avanti la conversazione, Roberta provvide a
trarla fuori
dall’impaccio.
«Dove sei?»
Il suo senso pratico la scuoteva
sempre:
si aspettava una lunga spiegazione avulsa dal tempo e dallo spazio
riguardo i
mesi in cui non si erano rivolte la parola e lei la riportava sulla
terra, in
città, sul marciapiede che contornava il condominio in cui
abitava la madre.
Non doveva essere troppo distante da lei.
«A casa di
mamma.»
«Puoi venire in
piazza?»
Il tremolio nella voce di Roberta
la
rese più sicura e insieme mansueta. Tuttavia in lei
permaneva ancora una certa
resistenza all’istinto, che invece le suggeriva di
abbandonarsi al corso degli
eventi. Diede un’occhiata ad Antonia.
«Non sono sola.
C’è mia sorella.»
«Davvero? Be’,
se vuoi… porta anche
lei.»
Antonia era ormai ad un passo dalla
sorella, concentrata nel seguire la conversazione senza un briciolo di
discrezione.
Non avere a disposizione molto tempo per prendere una decisione
così importante
metteva Ivonne a disagio; avrebbe prendersi qualche momento per
pensare, ma la
situazione imponeva un sì o un no e lo esigeva subito.
«Va bene»
rispose, «ti vengo a prendere
con la macchina.»
Ebbe l’impressione che
Roberta,
dall’altra parte, avesse appena ripreso a respirare.
«D’accordo. Ho
la sciarpa colorata.»
Con tutta la buona
volontà che impiegò
nel dissimulare, Ivonne non riuscì a non apparire scossa ed
emozionata dopo
aver chiuso la chiamata. Cercò le chiavi
dell’automobile e fece per aprire la
portiera, poi si ricordò di avere in affidamento la
sorellina. Antonia dovette
notare benissimo l’euforia sul suo viso tramutarsi in
preoccupazione nel
momento in cui si voltò a guardarla; non aveva ancora ben
capito di che si
trattava – sicuramente qualcosa d’importante
– ma ad essere scaricata in quel
modo non ci stava. E poi era tremendamente curiosa, arrivata a quel
punto.
«Io vengo» la
precedette, avanzando con
sicurezza verso il sedile anteriore e aprendo lo sportello.
Salirono dunque in macchina,
l’una curiosa
dei mutamenti che vedeva affacciarsi sul volto della sorella maggiore,
l’altra
impegnata nel disperato tentativo di non lasciar trapelare nulla,
nemmeno una
parte dell’agitazione in cui era piombata e tantomeno della
contorsione delle
sue viscere. Era così nervosa che impiegò non
poco tempo ad assumere la piena
padronanza del veicolo e rendersi conto del luogo in cui doveva recarsi.
«Ivonne?»
osò domandare ad un certo
punto Antonia.
«Che
c’è?»
«Perché stiamo
andando di nuovo da
questa parte? È la terza volta che facciamo questa
strada.»
«Sto cercando un
parcheggio» mentì lei.
«Eccolo, è
lì, guarda!»
Ivonne fu costretta a sistemarsi
nello
spazio lasciato libero da un’altra automobile; spense il
motore e abbassò il
finestrino. Diede una timida occhiata alla gente che vedeva passeggiare
per la
strada, sperando di scorgere Roberta e al contempo desiderando che non
si
presentasse. Mentre lei spingeva a malapena il naso fuori dal
finestrino,
Antonia si mostrava interessatissima.
«Allora, la
vedi?»
«Chi?»
«La tua amica.»
Per quanto la ragazzina si
ostinasse a
non riconoscersi nelle bizzarrie di famiglia, Ivonne pensò
che di sicuro
l’attitudine ad impicciarsi degli affari altrui non le
mancava affatto.
«Com’è
vestita?»
«Ha una sciarpa colorata.
Verde, viola e
blu.»
«Ha gli
occhiali?»
«Sì.»
«Ah, allora è
quella. Sta arrivando.»
Ivonne non fece in tempo a girarsi
dalla
sua parte per sbirciare oltre il finestrino che si trovò una
ragazza ansante e
sorridente aggrappata alla portiera.
«Ciao!»
salutò Roberta, tutta
entusiasta.
Dopo essersi sincerata della
presenza di
Ivonne nell’abitacolo spostò lo sguardo sulla
ragazzina seduta accanto a lei. Ebbe
un attimo di smarrimento, poi le sorrise con indulgenza e
domandò:
«Tu sei
Damiana?»
«No, mi chiamo Antonia.
Sono la sorella
di Ivonne.»
«Sì, lo so.
Piacere, Roberta.»
Si tesero la mano a
mezz’aria fra
l’abitacolo e l’esterno e, cosa che Ivonne non
mancò di notare, Roberta impiegò
qualche secondo di troppo ad infilarsi sui sedili posteriori; le
scappò un
sorriso immaginando che le fosse sembrato strano trovarsi una mocciosa
spavalda
lì, sul sedile anteriore – sul suo sedile, al suo
posto. Tuttavia, una volta
che si fu sistemata dietro, impiegarono ancora qualche minuto per
stabilire
dove recarsi.
«Be’, ciao.
Come stai?»
Roberta scelse di mostrarsi
indifferente
alla presenza di Antonia, ma dal sorriso che aveva su e dal modo in cui
pronunciava le parole era evidente che aveva una voglia matta di
mettersi a
parlare.
«Bene, bene»
rispose Ivonne, spiccia,
«te l’avevo detto che c’era anche mia
sorella, no?»
«Sì,
sì, nessun problema. Come mai
uscite insieme? La portavi al cinema?»
Antonia aprì la bocca
per risponderle,
ma cambiò idea notando l’occhiata gelida che le
aveva riservato la sorella.
Preferì starsene buona sul suo sedile e osservare dallo
specchietto retrovisore
i movimenti di quella sconosciuta.
«Non me ne hai mai
parlato…» aggiunse
Roberta, sperando di invogliarla a sbottonarsi.
«Devo farle da babysitter
per stasera.»
Si voltò a guardarla,
curandosi di non
lasciar trapelare la minima emozione.
«Mi dispiace»
disse, alludendo al colloquio
franco e privato che la ragazza doveva aver progettato.
«D’accordo»
Roberta non riuscì a
mascherare la delusione per l’atteggiamento freddo che le
veniva riservato.
«Be’, non importa. Ti… vi va di mangiare
qualcosa?»
Ivonne scrollò le
spalle, indicando che
per lei faceva lo stesso – anche se in cuor suo avrebbe
desiderato rispondere
con un sì; guardò Antonia per farle capire che
toccava a lei esprimere
l’opinione decisiva.
«Io ho fame»
fece lei, incontrando la
tacita approvazione della sorella e osservando, con la coda
dell’occhio, l’aria
sollevata di Roberta.
«Allora ci prendiamo una
pizza qui
vicino, va bene?»
Messa in moto la macchina, si
avviarono.
Ivonne rimase in silenzio, Antonia era attentissima ad ogni loro
movimento,
presa da una tacita curiosità, mentre era evidente che
Roberta sarebbe esplosa
di lì a poco se non avesse cominciato una qualsiasi
conversazione. Dato che la
sorella maggiore la scoraggiava, decise di conquistarsi la simpatia
della più
piccola.
«Come mai non sei a casa?
Tua mamma è
uscita, stasera?»
«No, viene a cena il
fidanzato di mia
sorella. Io e Ivonne non siamo state invitate.»
«Perché?»
«Non so, credo per non
mettere in
imbarazzo. Ma non è che senza noi vada meglio.»
«Avevate altri
programmi?»
«Io no. Ho chiesto a
Ivonne se aveva
qualcosa da fare e lei ha detto che c’era una cosa.»
«Qui va bene, che
dite?» tagliò corto
lei, preoccupata che la sorellina potesse rivelare informazioni che
invece
dovevano restare private.
Presero posto ad un tavolino della
pizzeria, ognuna con un trancio bollente in mano, impegnate a
scambiarsi
sguardi di sottecchi. Ivonne provava un certo compiacimento nel vedere
Roberta impaziente
di parlarle e nel risponderle con freddezza; notava chiaramente il suo
dispiacere, la sua smania: dopo un po’ credette che
l’avrebbe afferrata di
forza con una mano per trascinarla in un posto tranquillo. Non che
l’idea le
dispiacesse, era anzi piacevole controllarla in quel modo, ma decise di
alleviare almeno un po’ quel bisogno spasmodico di confronto.
«Mi vai a prendere dei
fazzoletti?»
domandò ad Antonia.
Lei eseguì prontamente,
scivolando giù
dallo sgabello e dirigendosi al bancone.
«Perché non mi
parli?»
«Ah, l’antica
domanda.»
«Sono seria,
Ivonne» Roberta non
raccolse la provocazione, sembrava proprio avvilita.
«Ho bisogno di parlarti.»
«C’è
mia
sorella, non si può.»
«Riportala a
casa.»
«Ma che cosa
dobbiamo dirci?»
«Tante cose.
Devo spiegarti.»
«Non sei
riuscita a spiegarti in tre mesi, cosa vuoi che cambi in una
sera?»
In seguito furono
costrette a tacere perché Antonia, pur avendo colto il
desiderio della sorella
maggiore di essere lasciata da sola, aveva fatto ritorno al tavolo.
Ivonne
masticava piano la sua pizza, compiaciuta. Covava quel risentimento da
molto
tempo ed era felice di essere riuscita a comunicarglielo. Prima di
rimettersi
in macchina, Antonia sussurrò al suo orecchio:
«Riportami a
casa.»
«Perché?»
«Mi sono
annoiata.»
La verità era
che la ragazzina aveva percepito benissimo l’atmosfera di
tensione e non vedeva
l’ora di allontanarsene, specie perché non aveva
mai visto la sorella così
seria e tesa; Ivonne non era molto loquace, ma non aveva detto che
quattro
parole per tutta la sera ed Antonia aveva immaginato di esserle solo
d’impiccio.
«La riporto a
casa e poi accompagno anche te» spiegò a Roberta,
che annuì senza commentare
alcunché.
Ivonne entrò
nell’androne del palazzo assieme ad Antonia, domandandole che
avesse intenzione
di fare.
«Me ne vado a
casa di Luciana, poi più tardi torno a casa.»
«Sei sicura?
Per me puoi restare.»
Quando stavano
per separarsi, Antonia la richiamò.
«Avete
litigato, per questo non vi parlate?»
«Mi dispiace,
ma sono cose che non ti riguardano.»
Antonia non sembrò
offendersi, quella
serata doveva averle fatto grande impressione.
«Quella è la
tua fidanzata?»
In risposta all’occhiata
incredula della
sorella, si strinse nelle spalle.
«Lo sapevo. Mamma e
Damiana me l’hanno
sempre detto, che eri fidanzata.»
Ai nervi duramente provati di
Ivonne
mancava solo quella rivelazione per giungere al crollo. Non
commentò
quell’affermazione e la salutò sbrigativamente.
Tornò sul sedile
dell’automobile – Roberta aveva prontamente ripreso
il suo posto, davanti – con
un sospiro.
«Cosa
c’è?»
«Mia sorella sa che siamo
fidanzate.»
«Non sopporto mia
madre» aggiunse, dopo
una pausa.
Roberta la osservava con
attenzione,
incerta se cominciare a discutere o lasciarla in pace. Sembrava
piuttosto
stanca.
«Siamo ancora
fidanzate?» chiese
cautamente.
«No, non direi. Le
fidanzate non
spariscono per mesi senza dare notizia e non tornano di botto, senza
avvisare.
E soprattutto pretendendo che tutto sia rimasto come prima.»
Le sue parole la rattristarono, ma
Ivonne non parve accorgersene.
«Allora sei tornata,
bene. Che cosa
vuoi?»
«Ti devo
spiegare.»
«Spiegare che cosa? Che
hai terminato la
laurea, hai vinto il concorso per la specializzazione e non hai
più bisogno di
una casa qui a Foggia?»
Solo in quel momento si rese conto
di
quanto fosse arrabbiata; aveva pensato di allontanare il ricordo della
loro
relazione, archiviarla senza farsi travolgere dai rimorsi e dal
rimpianto, ma
si accorse di avere un gran bisogno di parlare di quello che era
successo.
«Scendi, facciamo due
passi.»
Roberta la convinse a seguirla sul
marciapiede e presero a passeggiare l’una accanto
all’altra; la ragazza
sembrava molto avvilita.
«Non è una
cosa facile da spiegare»
cominciò.
«Non sei stata molto
corretta con me»
l’interruppe Ivonne. «Non ci siamo nemmeno dette di
esserci lasciate. È
successo così… come quando un arto va in cancrena
e ad un certo punto si decide
di amputarlo»
«Accidenti.»
«Cosa?»
«Non credo di averti mai
sentita parlare
così francamente, da quando ti conosco.»
Roberta non ottenne risposta, se
non uno
sguardo deluso che era in procinto di inumidirsi per le lacrime.
«Non sai che cosa mi sono
dovuta
sorbire, in questi mesi in cui non ci sei stata!» riprese,
sentendo le parole
affollarsi sulle labbra.
«Ti ricordi di Valeria, no?»
«Certo, la tua
carissima amica.»
«Ecco, ricordi
che lei e la sua ragazza si erano lasciate di comune accordo? Bene, ora
che ha
scoperto che Clotilde si è messa con un’altra ha
dato di matto! Non fa che
parlarmi di lei, non fa che ripetermi che è stata una
stronza e un sacco di
altre cose… giuro che impazzirò se la sento
ancora una volta dirmi quelle
cose!»
«E come se non
bastasse» proseguì, con rinnovata foga,
«mi trattano come un’idiota. Siccome ci
siamo lasciate – eh, poverina Ivonne, si è
lasciata, ma se vogliamo dire la
verità non erano fatte per stare insieme, è stato
meglio così – ora sono
diventata una stupida, una pavida che non sa prendere decisioni per
sé e non sa
cos’è meglio per lei.»
«Povera
Ivonne.»
«Il che sarà
anche vero, ma non sopporto che mi si venga a dire di non pensare
più a te, di
lasciare indietro il passato, quando la mia migliore amica mi propina
ogni
giorno le stesse solite stronzate su quanto sia stata cattiva Clotilde
con lei.
Io non ce la faccio, io non le sopporto
più…»
Fece una
pausa, poi si rivolse alla ragazza.
«Perché sei
tornata?»
«Avevo un po’
di giorni liberi.»
«Perché non mi
hai più cercata?»
Ivonne pensò
che se proprio doveva sfogarsi, tanto valeva comunicarle tutti i suoi
pensieri.
Non si accorse di essersi fermata poco più in là
di un lampione solitario e di
avere la propria mano stretta in quella di Roberta.
«Mi pensi
ancora?» chiese questa, portandosi davanti a lei.
Ivonne la
guardò bene, prima di rispondere. Non sembrava cattiva, non
pareva manifestare
segni di prepotenza e non le aveva ancora rimproverato alcuna
sciocchezza. In
lei non vedeva volontà di sopraffazione e dominazione quanto
piuttosto un porto
sicuro in cui gettarsi; Valeria e sua madre non potevano capire quanto
lei
avesse bisogno di Roberta e lei stessa cominciava a rendersene conto
solo in
quel momento; non riusciva a spiegare altrimenti quel moto interiore
che
superava anche l’orgoglio ferito.
«Sì.»
«Anche io,
sempre.»
Non le fu
chiaro il modo in cui la ragazza riuscì a portarsi talmente
vicina al suo viso
da potersi vedere riflessa nelle lenti dei suoi occhiali.
«Mi piaci
tanto, Ivonne.»
La confusione
nella sua testa era troppa per permetterle di ragionare su cosa fosse
meglio
fare e su cosa dovesse rispondere, su cosa dovesse farle scontare e su
quanto
fosse stupido lasciare che l’emozione prendesse il
sopravvento sulla testa,
pena il ritrovarsi con milioni di domande senza risposta, in una
situazione
senza via d’uscita. Non vivevano più insieme, le
separavano un’infinità di
chilometri e due temperamenti molto diversi.
Tuttavia,
quando fu il momento di baciarsi, tutte quelle valide motivazioni per
cui non
avrebbero dovuto trovarsi lì, in quella strada secondaria
dove chiunque poteva
scorgerle, scomparvero. Si stupì addirittura della
naturalezza con cui tutto si
stava accomodando: poche parole, sbagli da parte di entrambi, molta
voglia di riparare
e volersi ancora bene.
«Hai visto che
quando m’infervoro non piango più?»
«Io sto
cercando di arrabbiarmi un po’ meno.»
Restarono a
scambiarsi tenerezze finché Roberta non propose di spostarsi
in automobile e
fare un giro in qualche posto più appartato, dato che era
ancora presto e suo
fratello non sarebbe passato a prenderla prima delle undici. La
proposta
piacque ad Ivonne che la trascinò di corsa, ridendo, verso
la sua macchina.
«Ivonne!
Ivonne!»
La ragazza si
sentì chiamare e alzò lo sguardo verso i balconi
del palazzo, per scoprire sua
madre che l’invitava a salire.
«Che fai
lì?»
domandò, inorridita al pensiero che si fosse goduta tutta
quanta la scena.
«Salite,
venite a prendere un pezzo di dolce!»
«Buonasera» la
salutò Roberta, evidentemente favorevole all’idea
più di quanto non lo fosse
Ivonne.
Si trovarono
al tavolo del soggiorno assieme al fidanzato di Damiana, ai suoi
genitori e ad
Antonia a condividere del pandispagna imbottito di nutella e ricoperto
di glassa.
Antonia non parlò molto, ma parve più contenta e
meno scontrosa, sollevata nel
vedere le sorelle maggiori a proprio agio. Roberta venne presentata
come
un’amica e le fu permesso di rimanere a chiacchierare
finché non fu troppo
tardi. Damiana fu ripagata delle preghiere che aveva fatto: sua madre
riuscì a
non comportarsi in maniera troppo bizzarra e gli ospiti rimasero nel
complesso
soddisfatti della cena.
Ivonne
continuò
a frequentare Roberta, incurante delle opinioni altrui,
finché la loro
relazione non sfociò in un’amicizia profonda a
causa della distanza e del poco
tempo a disposizione da passare insieme. Roberta conservò
sempre un grande
affetto nei suoi confronti e si premurò di ospitarla spesso
da lei,
permettendosi di tanto in tanto qualche gesto più intimo:
non voleva
dimenticare del tutto la matrice fisica del loro rapporto, aveva
bisogno di
ricordare che si erano amate, che non erano state soltanto due buone
amiche.
Ivonne glielo permetteva, ma le nascose a lungo quanto le fosse
difficile non
ricambiare con altrettanta enfasi; impiegò molto tempo prima
di riuscire a vivere
con sereno distacco la faccenda: anche quando cercava di non pensarci
più l’automatico
gesto del prendere in mano, oltre alle due posate per lei, una
forchetta, un
cucchiaio ed un coltello le procurava una grande malinconia e, di tanto
in
tanto, anche qualche lacrima.