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Autore: Pichichi    31/07/2012    0 recensioni
La storia di una coppia imperfetta: le ragazze vivono insieme, spesso non si sopportano a vicenda, litigano dimenticando di chiedersi scusa, sono gelose e invidiose l'una dell'altra... eppure qualcosa c'è, che fa sì che si vogliano bene.
Dopo i primi frettolosi rigurgiti di chi sei, cosa studi, da dove vieni, erano passate a quanti fratelli hai, tieni per il Foggia o per il Bari, sei fidanzata, oh accidenti sono single anch'io, sapessi quante ne ho passate, aspetta cos'hai detto?
«Mi piacciono le ragazze» aveva ripetuto Ivonne, gli occhi fissi sull'altra e le guance sempre più rosse; credeva di averci fatto l'abitudine, ma evidentemente così non era se ancora s'imbarazzava nel rivelarlo, soprattutto ad una ragazza così carina.
«Quindi… sei bisessuale?»
«No, lesbica.»
[...]
Ed era stata la cosa più semplice del mondo allungarsi e posarle un bacio sulla bocca, tanto naturale che Roberta, come se non aspettasse altro, l’aveva assecondata senza esitare. Fortunatamente ebbero la prontezza di non lasciarsi sfuggire di mano le buste e, dopo un primo momento di tenerezza, di riprendere il loro cammino fino all’automobile. Erano incuranti del resto, e molto innamorate.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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III. Più tardi

 

Valeria la stava chiamando con insistenza da un po’ e lei faceva finta di non averla udita, chiusa nel bagno alla ricerca di una limetta per le unghie; al terzo richiamo, urlato in modo tale da essere sicura che anche gli altri abitanti del condomino l’avessero percepito, Ivonne non poté più ignorarla e, schiusa la porta, le assicurò che stava arrivando.

Prima di tornare in cucina, sedersi accanto alla ragazza e dedicarsi alla manicure, si sciacquò la faccia con acqua fredda. Si guardò allo specchio, il volto ancora grondante, e si trovò più pallida del solito; la mano le corse ad attorcigliarsi fra i ciuffi scuri sulla nuca: i suoi capelli non erano più corti come qualche mese prima, cominciavano ad allungarsi e a toccarle quasi le spalle; Ivonne provò l’impulso di afferrare un paio di forbici e tagliarli più corti di prima, cancellando specialmente quella frangetta che non le piaceva affatto ma alla quale, almeno finché non fossero stati abbastanza lunghi da spostarli di lato, doveva fare l’abitudine.

«Arrivo, sto arrivando!» informò l’amica, temendo un nuovo richiamo.

Raccolse la lima e si chiuse la porta del bagno alle spalle. Valeria non approvava la sua decisione di farsi ricrescere i capelli, diceva che con un taglio corto era molto più bella e delicata di quanto non lo fosse normalmente, ma Ivonne non aveva voluto sentire ragioni e, nonostante i frequenti ripensamenti, si era ostinata a riportarli ad una lunghezza conveniente. La sua scusa era che l’estate era finita e cominciava a fare freddo e che le piaceva portare i capelli lunghi sotto sciccosi cappellini colorati, ma la verità era che i capelli lunghi le ricordavano il primo periodo dell’anno, quello in cui aveva conosciuto Roberta e durante il quale si erano messe insieme. Di queste motivazioni, ovviamente, non faceva parola con Valeria.

Ora si vedevano più spesso: andavano insieme al cinema, il sabato sera erano sempre ad un qualche tavolo, impegnate ad avvistare e braccare qualche ragazza, Ivonne le dava un passaggio e Valeria l’invitava a pranzare a casa sua; nello specifico, quel pomeriggio si erano messe a guardare un film alla televisione e ora si apprestavano a chiacchierare del più e del meno mentre si passavano lo smalto sulle unghie.

«Oh finalmente! Che facevi?»

«Niente, niente. Ho trovato questa, va bene?» chiese Ivonne, mostrandole la lima.

«Sì, sì, va bene tutto.»

Valeria poggiò la mano destra sul tavolo. Per un paio di minuti rimasero in silenzio, poi Ivonne fu costretta ad alzare la testa, smettere il suo lavoro e rispondere all’amica che le domandava, con simulata noncuranza, di ricordarle di che cosa stessero parlando poco prima.

«Mah… di Clotilde, credo.»

Rispose con altrettanta vaghezza, ma in cuor suo si preparò a sorbirsi un’altra tirata, l’ennesima, contro l’ex-ragazza di Valeria della quale a quest’ultima, casomai non fosse stato abbastanza chiaro, non importava nulla di nulla.

«Ah sì, è vero. Ormai è una settimana che se n’è andata in Spagna, quella troia.»

«Come lo sai?»

Ivonne non si dava più nemmeno la pena di distoglierla da quei discorsi, l’assecondava meccanicamente sperando che prima o poi si stancasse di tornare sempre sullo stesso argomento; non si poteva più condurre una conversazione senza che in qualche modo Clotilde spuntasse fuori. Sembrava che Valeria non si stancasse mai di ripetere quant’era stata ingiusta nei suoi confronti, lasciarla per poi mettersi a fare gli occhi dolci a quella studentessa di Pescara, Morena.

«Che tra l’altro è bruttissima, non capisco che cosa ci trovi! È grassa, orrenda, è una tappa!»

«E questo cosa c’entra?»

«Come cosa c’entra?»

Il tono di voce improvvisamente acuto dell’altra la fece pentire di quella azzardatissima opinione: quando Valeria cominciava a sproloquiare riguardo Clotilde non ci capiva più nulla e il suo carattere, già impulsivo e avventato, assumeva i contorni di un egoismo senza fine.

«Non riesco a non pensare a quanto sia stata cattiva con me. Che senso aveva decidere insieme di lasciarci, allora?»

Valeria recriminava l’essere stata indotta a quella separazione serena e successivamente esser presa per il naso, a quanto pareva, dato che Clotilde non sembrava molto preoccupata circa la distanza che la separava dalla sua attuale ragazza.

«Ma tanto si lasceranno sicuramente.»

«Sì, questo lo so anch’io e lo spero tanto, ma è il principio che mi fa andare in bestia, capisci? Il principio!»

Ivonne pensava che la sua amica avesse ragione: in fin dei conti lei e Clotilde si erano separate proprio in vista del trasferimento in Spagna di quest’ultima e delle complicazioni che avrebbe portato il proseguire la relazione a distanza; pensava anche, tuttavia, che dopo un mese intero di lugubri chiacchierate e invettive contro la ragazza fosse anche giunto il momento di dire basta, voltare la pagina, metterci una pietra sopra. Valeria doveva averla presa proprio male, quella volta, perché non ricordava che si fosse accanita sino a quel punto quando era stata lasciata da altre ragazze; al contrario, aveva ammirato molto il suo temperamento vivace e reattivo in seguito alle delusioni, il suo prendere sempre tutto con grande leggerezza ed esser subito pronta a ripartire.

«Ma che c’è? Mi ascolti?»

«Stavo pensando.»

«Tu pensi troppo.»

«Sì, lo so. Roberta lo diceva sempre.»

Nello stesso momento in cui pronunciò il suo nome si rese conto di aver commesso un errore fatale. Valeria aggrottò le sopracciglia.

«Ma che, pensi ancora a quella?»

«No, macché, dicevo così…»

«Meno male, perché su di lei non c’è proprio niente da dire e te la devi togliere dalla testa. Non voglio che ci pensi sempre. A proposito, che fa Anita?»

«Boh, non lo so.»

«Non vi sentite più? Perché?»

«Non mi va.»

«Non ti va mai niente! Non fare la depressa!»

«Non sono depressa, è solo che non mi va.»

Ogni volta che si lasciava scappare il nome di Roberta in una conversazione, Valeria le dava subito addosso accusandola di star vivendo ancora nel passato e di essere aggrappata ad un ricordo che non aveva più possibilità di rivivere. Ivonne doveva sforzarsi di chiudere la bocca e non rispondere nulla, in quei casi.

Lei sapeva benissimo di non avere più nulla da spartire con Roberta; non era depressa, non viveva nel passato e soprattutto non rimuginava ogni istante del suo tempo su di lei, come invece faceva la sua amica. Certe volte si domandava se per caso Valeria non fosse cosciente del proprio blocco emotivo e cercasse di esorcizzarlo attribuendo a lei quel comportamento; ma non era Ivonne a voler parlare a tutti i costi della sua ex-ragazza, non era lei a gettarle addosso del fango e ad aprire inutili ferite. Era anche per questo motivo che non provava nemmeno a farla rinsavire e imporle una volta per tutte di smettere di parlare di Clotilde o, se era questa l’origine di tutto, costringerla ad ammettere che era profondamente delusa e che avrebbe voluto essere al posto di Morena, a dialogare con la ragazza attraverso lo schermo di un computer; invece, notando quell’aria aggressiva e saccente che assumeva nei suoi confronti quando veniva tirata in ballo Roberta, aveva deciso di comportarsi in maniera passiva. Non voleva frequentare Anita perché sentiva di non provare assolutamente nulla per lei, né attrazione fisica e tantomeno mentale, dunque perché Valeria si ostinava a far passare questo suo rifiuto come la celata speranza di poter tornare fra le braccia di Roberta?

Non aveva bisogno, come invece pareva necessario per l’amica, di una scossa che la facesse tornare in sé e le aprisse gli occhi sul presente, un presente in cui Roberta se n’era andata a Pavia e non abitava più assieme a lei e in cui i loro rapporti si erano interrotti; era consapevole di questa situazione e cercava di farci l’abitudine.

«Grazie!» commentò Valeria con un sorriso, ammirando le unghie delle mani perfettamente regolari. «Ora tu. Che colore preferisci?»

«Non saprei… grigio?»

«Grigio? Che mortorio! Perché non rosse?»

«Rosse? No, sono troppo… appariscenti.»

«Vada per il rosso e niente storie, ti ci vuole un po’ di vitalità.»

Ivonne le consegnò le mani tirando un lungo sospiro e pensando che ci voleva davvero una gran pazienza per non arrabbiarsi; ad ogni modo, dare di matto non serviva a nulla: non era capace di gestire un litigio e finiva sempre per lasciarsi sfuggire troppe considerazioni, troppi brutti pensieri covati a lungo che peggioravano la situazione.

Valeria le aveva già passato lo smalto sul pollice e sull’indice quando squillò un telefono. Entrambe si riscossero dai rispettivi pensieri per identificare la provenienza della suoneria e la proprietaria.

«Oh, è il tuo, Ivonne.»

«Devo averlo lasciato in borsa» allungò la testa verso il corridoio e si guardò le mani laccate per un quinto. «Me lo prendi, per favore?»

«Sì, certo.»

Valeria abbandonò la sua postazione per fiondarsi sull’attaccapanni alla ricerca della borsa dell’amica e del telefonino che continuava a squillare. La ragazza non fu abbastanza rapida nella ricerca e quando tirò fuori l’aggeggio la chiamata era già terminata; lo riportò all’amica, scusandosi.

«Non fa niente, vediamo chi era.»

Fece in modo da illuminare il display e vi lesse un numero che non era stato salvato in memoria, ma che non le era troppo sconosciuto.

«Chi era?» domandò, Valeria, che nel frattempo aveva ripreso in mano il pennellino.

«C’è un numero sconosciuto che continua a chiamarmi» rispose Ivonne, concentrata sulle cifre, «mi sembra che sia lo stesso delle altre volte, ma non ne sono sicura.»

«Sarà un’ammiratrice segreta. Perché non richiami?»

«Vuoi scherzare? E che dico?»

«Ah, sì, dimenticavo le tue innumerevoli paranoie riguardo le conversazioni telefoniche.»

Anche se Ivonne arrossì di vergogna, non poté non ammettere che a quel proposito l’amica aveva ragione: non era troppo a suo agio nel parlare con sconosciuti e dover comunicare attraverso il telefonino la rendeva molto nervosa ed ancora più rigida di quanto non fosse di solito. Non avere la possibilità di guardare l’interlocutore negli occhi la inibiva, nonostante s’impacciasse anche durante le conversazioni dirette; la sua giustificazione era che in un faccia a faccia, almeno, poteva intuire dall’espressione dell’altra persona che cosa stesse pensando di lei.

«Avranno sbagliato numero.»

«Boh, chi lo sa. Attenta a non sbavare!»

«Sì, sì, tranquilla.»

Insieme ai rapporti con Valeria aveva cominciato a ritagliarsi più tempo da passare con sua madre e la famiglia. Una volta che lo smalto si fu asciugato Ivonne si congedò dall’amica con la promessa di rivedersi il giorno successivo, per poi ricevere una nuova chiamata mentre metteva in moto la sua automobile. Azionato il vivavoce prese a rassicurare sua madre.

«Sto arrivando, sto arrivando! Dammi il tempo.»

«No, perché poi stasera ho da preparare una cena e non voglio trovarmi a dover fare tutto all’ultimo minuto, quindi se non puoi venire non fa niente, basta che me lo fai sapere.»

«Mamma, sto arrivando, sono ancora le sette. Hai tutto il tempo di prepararti.»

«Allora poi mi aiuti, se non ce la facciamo?»

«Ma sì, ma sì, stai tranquilla.»

Non era solo Valeria ad essere esagitata e frenetica in quell’ultimo periodo. Anche sua madre aveva cominciato ad essere più apprensiva ed invadente del solito nei suoi confronti; aveva voluto essere informata, di fronte ad una tazza di cioccolata calda, su tutti i dettagli della sua vita privata che si era perduta in quei mesi di lontananza. Aveva ascoltato con attenzione – non risparmiandosi però commenti e critiche che Ivonne avrebbe volentieri evitato di ascoltare – tutta l’evoluzione della storia con Roberta e ne aveva concluso che era meglio così, era meglio che la sua bambina trovasse una ragazza diversa, in grado di capirla e di non soffocarla.

«Le persone si approfittano di te, perché hai un carattere un po’…» aveva detto, tentennando sull’ultima parte, alla ricerca della parola giusta.

«Debole?»

«Hai sempre avuto bisogno del tuo spazio, che ti lasciassero fare le tue cose in pace. Ecco, non so se questa ragazza è stata in grado di capirlo fino in fondo.»

Ivonne era sicura che sua madre le volesse bene, anche se la carezza ed il sorriso che avevano seguito quell’affermazione suonavano un po’ come un contentino. Era sicura che le sue intenzioni fossero le migliori, che quel tentativo di riavvicinamento dopo mesi di freddezza fosse spontaneo – forse era lei per prima ad aver bisogno di riallacciare quel rapporto, di aggrapparsi a qualcun’altra, dopo l’abbandono di Roberta – ma quando sentì squillare di nuovo il cellulare pensò che cominciava a diventare davvero troppo insistente. Schiacciò il pulsante di accettazione della chiamata.

«Che vuoi, ma’? Sto arrivando.»

Nell’abitacolo si spanse la risata genuina di una ragazza.

«Non sono tua madre, Ivonne.»

Lei si ritenne fortunata, per una volta, ad essere bloccata in una chilometrica coda: in questo modo non dovette preoccuparsi di tenere i nervi saldi e occuparsi dell’automobile; dapprima impallidì, poi divenne tutta rossa e scelse di dire la cosa più sciocca che le passò per la mente.

«Chi parla?»

Un tono formale e neutro, ma che non nascondeva a sufficienza l’improvviso tremolio della voce.

«Mi senti, Ivonne? Sono Roberta.»

Pur volendo rispondere qualcosa, qualsiasi cosa, darle un segnale della sua presenza, si ritrovò con la lingua incollata al palato.

«Pronto?»

Dopo i primi secondi di stasi, l’istintivo pensiero che formulò la sua mente fu quello di chiudere bruscamente la chiamata, spegnere il cellulare e gettarlo nella borsa; cosa che non avvenne perché Ivonne sentì muoversi qualcosa nelle sue viscere, come non le capitava da un bel po’ di tempo, nel momento in cui Roberta pronunciò il suo nome.

«Ivonne? Ci sei?»

«Sì.»

Rispose quasi senza accorgersene e subito se ne pentì. Anche Roberta sembrò meno tesa, dopo aver ascoltato la risposta.

«Cosa stai facendo?» domandò.

«Sono in macchina.»

Ivonne fu felice che l’avesse domandato. Provò piacere nel farle capire che era impegnata e che non aveva tempo da perdere, anche se evitò di interrogarsi su quanto fosse veritiera quella voglia di scacciarla.

«Sono in macchina, sto guidando. Sto andando da mia madre.»

Esitò un attimo, poi rincarò la dose:

«Non posso parlare.»

«Ti posso chiamare, più tardi?»

«Più tardi quando?»

«Più tardi. Rispondimi.»

La sicurezza di Roberta, tanto anelata quanto a tratti detestata, si manifestava ancora; ebbe un istintivo moto di repulsione, pensò che dall’altra parte del telefono lei fosse tranquilla e certa che la cara e ingenua Ivonne non le avrebbe negato nulla; mise giù senza tanti complimenti, congedandola in maniera sbrigativa.

Non fu nel pieno possesso delle sue facoltà mentali per tutto il resto della serata, ma non fu un problema: sua madre, in un eccesso di iperattività, correva da una parte all’altra della casa, spostando piatti, tovaglie, posate e sedie, così da non accorgersi dello stato assente e meditabondo più acuto del solito della figlia, ottenebrata dall’orologio che l’incalzava e dall’arrosto che non si cuoceva come previsto.

Distribuiva ordini con l’inflessione di un generale e svolazzava dalla cucina al soggiorno con l’eleganza di una pattinatrice; nel complesso l’insieme risultava bizzarro, ma Ivonne e le sue sorelle erano abituate a quegli improvvisi sbalzi d’umore da parte della mamma.

«Damiana, spegni il forno!»

«Ma no, non è ancora cotto bene!» le rispose una voce proveniente dalla cucina.

«Non fa niente, altrimenti diventa secco e immangiabile!»

«Ma vieni a vedere, è ancora tutto rosa!»

«Damiana, ho detto che non fa nulla. Tiralo fuori e basta!»

Ivonne osservò divertita la madre rizzarsi sulla schiena e agitare un dito nel rivolgersi a sua sorella che, non troppo convinta, spegneva il microonde; aveva assunto una tale naturalezza nel gesticolare in quel modo così teatrale che non ci faceva più caso, ma ad un occhio esterno – Ivonne lo sapeva – sembrava un po’ tocca.

«Ma’» si lamentò ancora Damiana, «e vieni a vedere, non si può!»

Con un verso isterico la donna lasciò perdere la disposizione dei tovaglioli per procedere a passo di marcia verso la cucina; Ivonne accelerò le operazioni di smistamento delle forchette per poi correrle dietro, per nulla intenzionata a perdersi una sola scena di quel teatrino. Era anche per quello che le piaceva tanto intrufolarsi a casa sua: per poter fare l’estranea, sedersi in un angolino e godersi i battibecchi fra le sorelle o le stranezze della madre.

«Che c’è, cos’ha che non va?» stava dicendo. «Lo vedi, è solo un po’ rosa… come vuoi che sia fatto il roastbeef?»

«Ti prego, è crudo!»

Anche sua sorella Damiana era essere molto portata per la drammatizzazione e, quando voleva, toccava picchi di esagerazione che facevano concorrenza alla madre. Quella volta, però, Ivonne le dava ragione e la spalleggiava silenziosamente nel suo rammaricarsi per le scelte della mamma: sarebbe venuto a cena il suo fidanzato con i genitori e la ragazza ci teneva a nascondere le eccentricità familiari – o quantomeno a far sì che fossero meno evidenti.

Cincischiarono per un altro po’ circa il grado di cottura dell’arrosto finché Damiana, con risolutezza ed un gran movimento dei capelli, non infilò di tutta forza la carne nel microonde. Ivonne vide sua madre accettare la sconfitta e tornare in salotto ad apparecchiare la tavola. Poco dopo una figura più esile e imbronciata fece capolino dalla porta del corridoio.

«Ma perché gridate, si può sapere?»

«Ciao Antonia» la salutò subito Ivonne.

«Ciao» rispose lei, non troppo affabile.

Era la più piccola della famiglia e covava già un senso di estraneità rispetto a tutto quel marasma che producevano la mamma e le sorelle; per questo Ivonne la prendeva in simpatia, per non avere quelle manie da primadonna che parevano accomunare un po’ tutte le altre. Quando vide sua madre portarsi una mano alle tempie e alzare gli occhi al cielo capì che doveva essersi del tutto dimenticata della presenza della figlia più piccola.

«Tesoro! Ci aiuti a preparare la tavola?»

«No, non mi va. Perché preparate la tavola, chi viene?»

«Il fidanzato di Damiana.»

Ivonne notò le sue guance arrossate e la spavalderia che veniva meno nel viso, dunque suppose che quell’improvvisa informazione l’avesse messa non poco a disagio. Assistette con taciturna goduria alla visione della madre che tentava in tutti i modi di trovare una scusa per mandarla via.

«Non c’era il compleanno di una tua amica, stasera?»

«No.»

«Non ti va di scendere a giocare insieme a Luciana?»

«Mamma, sono grande! Non gioco più con le bambine piccole.»

Ivonne pensò che poi tanto grande non era, visto che a Dicembre avrebbe compiuto undici anni, ma sorrise divertita per quella manifestazione di carattere. Antonia si avvicinò al tavolo in via di preparazione, scrutandolo attenta.

«Ivonne, perché metti solo la forchetta e il cucchiaio?»

Lei si rese conto di aver lasciato in cucina i coltelli e si batté una mano sulla fronte.

«Ah, è l’abitudine. Sai, a casa io non uso quasi mai il coltello.»

«Davvero?»

«Sì. Roberta se lo prendeva sempre da sola…»

Accorgendosi di essersi lasciata sfuggire quel nome in presenza della madre e della sorellina divenne tutta rossa e subito mollò le posate per fiondarsi in cucina a prendere quelle mancanti. Doveva essere colpa di quella telefonata, sì, non vedeva altra spiegazione per quelle sue incoscienze; era già pericoloso nominarla per la sua tranquillità mentale, figurarsi poi mettersi a snocciolare aneddoti sotto il naso di sua madre. Non voleva assolutamente esser presa per una poveraccia ancorata al passato, le bastavano i sermoni di Valeria. Quando fece ritorno in salotto scoprì che la curiosità della sorella non si era affatto placata.

«Chi è Roberta?» le domandò immediatamente, tenendo sulle labbra un sorriso furbo che non le piacque affatto.

«Un’amica.»

Non sapeva che cosa Antonia credesse e che cosa le avesse raccontato la madre riguardo la sorella maggiore che non aveva un fidanzato, ma di sicuro non voleva tirar fuori quell’argomento, non in quel momento.

«Era la coinquilina di Ivonne» aggiunse sua madre, sperando che ulteriori informazioni la quietassero.

«E adesso?»

«Antonia, allora che fai? Ti chiudi in camera tua per tutta la sera?»

Ivonne fu grata alla madre per aver portato il discorso su altri lidi, ma non fu altrettanto entusiasta quando, in risposta al diniego di Antonia, si volse nella sua direzione e disse:

«Be’, allora vai a fare un giro con Ivonne.»

«Un giro? Che cosa?»

«Sì, tanto hai la macchina, no?»

Provò ad obiettare qualcosa, a mettere in piedi una scusa qualsiasi, ma capì di non avere alcuna possibilità di scampo quando la sorella annuì con convinzione, dichiarando che le andava bene.

I minuti seguenti furono i più caotici: Damiana richiese l’aiuto della madre per legare i capelli in una treccia, Antonia lottò con costanza per farsi affidare le chiavi del portone, l’arrosto rischiò di bruciare e quando suonò il citofono tutte e quattro erano tanto agitate da non capire più niente.

«Andrà benissimo, andrà benissimo! Ora abbracciamoci tutte!»

Ivonne, assieme a Damiana ed Antonia, venne catturata di forza dalle braccia della madre, che le tenne strette per una manciata di secondi in cui le tre ragazze trovarono il tempo di lamentarsi per quella scomoda affettuosità.

«Aprite la porta, su» comandò.

Poi, rivolgendosi ad Ivonne, le raccomandò di scendere rapidamente per le scale e di riportare a casa la piccola ad un orario che non fosse superiore alle dieci e mezza. Ivonne fu spinta sul pianerottolo dalla sorella che, nervosa, si lisciava le pieghe del vestito.

«Ve ne volete andare? E che diamine!» sbottò Damiana.

«Andrà benissimo, vedrai. Sei molto bella» fece in tempo a dirle Ivonne, prima di sparire oltre la tromba di scale.

Quando giunsero al piano terra sentirono il rumore delle porte cigolanti dell’ascensore che si aprivano e un cicaleccio di voci fra le quali spiccava quella della loro mamma, che invitava gli ospiti ad entrare.

«Non vorrei essere al posto di Damiana» commentò Antonia quando furono in strada.

Ivonne la squadrò per un lungo momento; si domandava che cosa avrebbe dovuto farsene di una sorella più piccola a cui badare quando aveva per la testa tutt’altri pensieri.

«Come la mettiamo?» domandò infine. «Dove vuoi andare?»

«Mi porti al cinema?»

«Al cinema? No, no, non se ne parla.»

«Perché no?»

«No, non si può.»

«Perché?» ripeté Antonia, per nulla intenzionata a demordere. «Non dirmi che avevi qualcosa da fare, perché non ci credo!»

«In effetti, io… Io avevo qualcosa da fare, sì.»

«E che cosa?»

«Una cosa…»

Istintivamente la mano le corse alla tasca del soprabito in cui aveva infilato il cellulare; lo estrasse per controllare il display e trovò due chiamate perse dallo stesso numero, non memorizzato in rubrica. Scartò subito l’idea di richiamarla, sarebbe stato troppo imbarazzante e soprattutto non voleva darle l’impressione di essere ansiosa di parlare con lei; sperava che chiamasse ancora, che le desse un’altra possibilità, ma non era sicura di volerla rivedere. Non che ci fossero molte certezze nella sua testa, ma riguardo quella situazione non aveva ancora pensato al da farsi, non aveva ancora chiarito i suoi sentimenti. Le appariva tutto molto confuso, avrebbe avuto bisogno di più tempo per valutare le cose, per sincerarsi circa le intenzioni di Roberta, per starsene in santa pace a riflettere senza una sorellina impicciona fra i piedi.

«Non hai niente da fare» concluse Antonia, l’aria soddisfatta. «Su, andiamo in macchina.»

Ivonne rimase lì, pensosa, con le mani che le tremavano nell’atto di premere il pulsante verde. Le sembrò di risentire la voce di Valeria che le intimava di non avere più alcun contatto con quella stronza prepotente e quella di sua madre che le offriva la sua pietosa compassione. Senza nemmeno accorgersene, aveva già fatto partire la chiamata. Antonia osservò la sorella restare lì impalata e portarsi il cellulare all’orecchio. Incuriosita, fece qualche passo nella sua direzione; non aveva mai visto Ivonne così pallida, sembrava anche più cadaverica del solito.

Attese che la ragazza accettasse la chiamata con le mani che le tremavano e la sensazione di aver compiuto un’enorme sciocchezza. Avrebbe voluto che rispondesse e al contempo sperava il contrario. Dal “Pronto?” trafelato che ricevette capì che Roberta doveva essersi precipitata alla ricerca dell’apparecchio e dalla confusione che udiva immaginò che si trovasse in strada.

«Ciao.»

«Ivonne! Mi hai chiamata!»

Il suo tono entusiasta divenne d’un tratto dubbioso.

«Perché?»

«Non lo so» rispose lei, l’aria terrorizzata, «ho premuto.»

Roberta rise e anche la ragazza distese il viso in una smorfia. Non ricordava di essere mai stata così agitata come in quel momento, temeva di non riuscire a mettere in fila due parole; era perfino riuscita a vincere il disagio che le provocavano le conversazioni telefoniche, non poteva mollare, doveva per forza continuare a parlare. Pensò che per svenire ci sarebbe stato tempo più tardi, forse.

Proprio mentre s’ingegnava per formulare una frase che mandasse avanti la conversazione, Roberta provvide a trarla fuori dall’impaccio.

«Dove sei?»

Il suo senso pratico la scuoteva sempre: si aspettava una lunga spiegazione avulsa dal tempo e dallo spazio riguardo i mesi in cui non si erano rivolte la parola e lei la riportava sulla terra, in città, sul marciapiede che contornava il condominio in cui abitava la madre. Non doveva essere troppo distante da lei.

«A casa di mamma.»

«Puoi venire in piazza?»

Il tremolio nella voce di Roberta la rese più sicura e insieme mansueta. Tuttavia in lei permaneva ancora una certa resistenza all’istinto, che invece le suggeriva di abbandonarsi al corso degli eventi. Diede un’occhiata ad Antonia.

«Non sono sola. C’è mia sorella.»

«Davvero? Be’, se vuoi… porta anche lei.»

Antonia era ormai ad un passo dalla sorella, concentrata nel seguire la conversazione senza un briciolo di discrezione. Non avere a disposizione molto tempo per prendere una decisione così importante metteva Ivonne a disagio; avrebbe prendersi qualche momento per pensare, ma la situazione imponeva un sì o un no e lo esigeva subito.

«Va bene» rispose, «ti vengo a prendere con la macchina.»

Ebbe l’impressione che Roberta, dall’altra parte, avesse appena ripreso a respirare.

«D’accordo. Ho la sciarpa colorata.»

Con tutta la buona volontà che impiegò nel dissimulare, Ivonne non riuscì a non apparire scossa ed emozionata dopo aver chiuso la chiamata. Cercò le chiavi dell’automobile e fece per aprire la portiera, poi si ricordò di avere in affidamento la sorellina. Antonia dovette notare benissimo l’euforia sul suo viso tramutarsi in preoccupazione nel momento in cui si voltò a guardarla; non aveva ancora ben capito di che si trattava – sicuramente qualcosa d’importante – ma ad essere scaricata in quel modo non ci stava. E poi era tremendamente curiosa, arrivata a quel punto.

«Io vengo» la precedette, avanzando con sicurezza verso il sedile anteriore e aprendo lo sportello.

Salirono dunque in macchina, l’una curiosa dei mutamenti che vedeva affacciarsi sul volto della sorella maggiore, l’altra impegnata nel disperato tentativo di non lasciar trapelare nulla, nemmeno una parte dell’agitazione in cui era piombata e tantomeno della contorsione delle sue viscere. Era così nervosa che impiegò non poco tempo ad assumere la piena padronanza del veicolo e rendersi conto del luogo in cui doveva recarsi.

«Ivonne?» osò domandare ad un certo punto Antonia.

«Che c’è?»

«Perché stiamo andando di nuovo da questa parte? È la terza volta che facciamo questa strada.»

«Sto cercando un parcheggio» mentì lei.

«Eccolo, è lì, guarda!»

Ivonne fu costretta a sistemarsi nello spazio lasciato libero da un’altra automobile; spense il motore e abbassò il finestrino. Diede una timida occhiata alla gente che vedeva passeggiare per la strada, sperando di scorgere Roberta e al contempo desiderando che non si presentasse. Mentre lei spingeva a malapena il naso fuori dal finestrino, Antonia si mostrava interessatissima.

«Allora, la vedi?»

«Chi?»

«La tua amica.»

Per quanto la ragazzina si ostinasse a non riconoscersi nelle bizzarrie di famiglia, Ivonne pensò che di sicuro l’attitudine ad impicciarsi degli affari altrui non le mancava affatto.

«Com’è vestita?»

«Ha una sciarpa colorata. Verde, viola e blu.»

«Ha gli occhiali?»

«Sì.»

«Ah, allora è quella. Sta arrivando.»

Ivonne non fece in tempo a girarsi dalla sua parte per sbirciare oltre il finestrino che si trovò una ragazza ansante e sorridente aggrappata alla portiera.

«Ciao!» salutò Roberta, tutta entusiasta.

Dopo essersi sincerata della presenza di Ivonne nell’abitacolo spostò lo sguardo sulla ragazzina seduta accanto a lei. Ebbe un attimo di smarrimento, poi le sorrise con indulgenza e domandò:

«Tu sei Damiana?»

«No, mi chiamo Antonia. Sono la sorella di Ivonne.»

«Sì, lo so. Piacere, Roberta.»

Si tesero la mano a mezz’aria fra l’abitacolo e l’esterno e, cosa che Ivonne non mancò di notare, Roberta impiegò qualche secondo di troppo ad infilarsi sui sedili posteriori; le scappò un sorriso immaginando che le fosse sembrato strano trovarsi una mocciosa spavalda lì, sul sedile anteriore – sul suo sedile, al suo posto. Tuttavia, una volta che si fu sistemata dietro, impiegarono ancora qualche minuto per stabilire dove recarsi.

«Be’, ciao. Come stai?»

Roberta scelse di mostrarsi indifferente alla presenza di Antonia, ma dal sorriso che aveva su e dal modo in cui pronunciava le parole era evidente che aveva una voglia matta di mettersi a parlare.

«Bene, bene» rispose Ivonne, spiccia, «te l’avevo detto che c’era anche mia sorella, no?»

«Sì, sì, nessun problema. Come mai uscite insieme? La portavi al cinema?»

Antonia aprì la bocca per risponderle, ma cambiò idea notando l’occhiata gelida che le aveva riservato la sorella. Preferì starsene buona sul suo sedile e osservare dallo specchietto retrovisore i movimenti di quella sconosciuta.

«Non me ne hai mai parlato…» aggiunse Roberta, sperando di invogliarla a sbottonarsi.

«Devo farle da babysitter per stasera.»

Si voltò a guardarla, curandosi di non lasciar trapelare la minima emozione.

«Mi dispiace» disse, alludendo al colloquio franco e privato che la ragazza doveva aver progettato.

«D’accordo» Roberta non riuscì a mascherare la delusione per l’atteggiamento freddo che le veniva riservato. «Be’, non importa. Ti… vi va di mangiare qualcosa?»

Ivonne scrollò le spalle, indicando che per lei faceva lo stesso – anche se in cuor suo avrebbe desiderato rispondere con un sì; guardò Antonia per farle capire che toccava a lei esprimere l’opinione decisiva.

«Io ho fame» fece lei, incontrando la tacita approvazione della sorella e osservando, con la coda dell’occhio, l’aria sollevata di Roberta.

«Allora ci prendiamo una pizza qui vicino, va bene?»

Messa in moto la macchina, si avviarono. Ivonne rimase in silenzio, Antonia era attentissima ad ogni loro movimento, presa da una tacita curiosità, mentre era evidente che Roberta sarebbe esplosa di lì a poco se non avesse cominciato una qualsiasi conversazione. Dato che la sorella maggiore la scoraggiava, decise di conquistarsi la simpatia della più piccola.

«Come mai non sei a casa? Tua mamma è uscita, stasera?»

«No, viene a cena il fidanzato di mia sorella. Io e Ivonne non siamo state invitate.»

«Perché?»

«Non so, credo per non mettere in imbarazzo. Ma non è che senza noi vada meglio.»

«Avevate altri programmi?»

«Io no. Ho chiesto a Ivonne se aveva qualcosa da fare e lei ha detto che c’era una cosa.»

«Qui va bene, che dite?» tagliò corto lei, preoccupata che la sorellina potesse rivelare informazioni che invece dovevano restare private.

Presero posto ad un tavolino della pizzeria, ognuna con un trancio bollente in mano, impegnate a scambiarsi sguardi di sottecchi. Ivonne provava un certo compiacimento nel vedere Roberta impaziente di parlarle e nel risponderle con freddezza; notava chiaramente il suo dispiacere, la sua smania: dopo un po’ credette che l’avrebbe afferrata di forza con una mano per trascinarla in un posto tranquillo. Non che l’idea le dispiacesse, era anzi piacevole controllarla in quel modo, ma decise di alleviare almeno un po’ quel bisogno spasmodico di confronto.

«Mi vai a prendere dei fazzoletti?» domandò ad Antonia.

Lei eseguì prontamente, scivolando giù dallo sgabello e dirigendosi al bancone.

«Perché non mi parli?»

«Ah, l’antica domanda.»

«Sono seria, Ivonne» Roberta non raccolse la provocazione, sembrava proprio avvilita. «Ho bisogno di parlarti.»

«C’è mia sorella, non si può.»

«Riportala a casa.»

«Ma che cosa dobbiamo dirci?»

«Tante cose. Devo spiegarti.»

«Non sei riuscita a spiegarti in tre mesi, cosa vuoi che cambi in una sera?»

In seguito furono costrette a tacere perché Antonia, pur avendo colto il desiderio della sorella maggiore di essere lasciata da sola, aveva fatto ritorno al tavolo. Ivonne masticava piano la sua pizza, compiaciuta. Covava quel risentimento da molto tempo ed era felice di essere riuscita a comunicarglielo. Prima di rimettersi in macchina, Antonia sussurrò al suo orecchio:

«Riportami a casa.»

«Perché?»

«Mi sono annoiata.»

La verità era che la ragazzina aveva percepito benissimo l’atmosfera di tensione e non vedeva l’ora di allontanarsene, specie perché non aveva mai visto la sorella così seria e tesa; Ivonne non era molto loquace, ma non aveva detto che quattro parole per tutta la sera ed Antonia aveva immaginato di esserle solo d’impiccio.

«La riporto a casa e poi accompagno anche te» spiegò a Roberta, che annuì senza commentare alcunché.

Ivonne entrò nell’androne del palazzo assieme ad Antonia, domandandole che avesse intenzione di fare.

«Me ne vado a casa di Luciana, poi più tardi torno a casa.»

«Sei sicura? Per me puoi restare.»

Quando stavano per separarsi, Antonia la richiamò.

«Avete litigato, per questo non vi parlate?»

«Mi dispiace, ma sono cose che non ti riguardano.»

Antonia non sembrò offendersi, quella serata doveva averle fatto grande impressione.

«Quella è la tua fidanzata?»

In risposta all’occhiata incredula della sorella, si strinse nelle spalle.

«Lo sapevo. Mamma e Damiana me l’hanno sempre detto, che eri fidanzata.»

Ai nervi duramente provati di Ivonne mancava solo quella rivelazione per giungere al crollo. Non commentò quell’affermazione e la salutò sbrigativamente. Tornò sul sedile dell’automobile – Roberta aveva prontamente ripreso il suo posto, davanti – con un sospiro.

«Cosa c’è?»

«Mia sorella sa che siamo fidanzate.»

«Non sopporto mia madre» aggiunse, dopo una pausa.

Roberta la osservava con attenzione, incerta se cominciare a discutere o lasciarla in pace. Sembrava piuttosto stanca.

«Siamo ancora fidanzate?» chiese cautamente.

«No, non direi. Le fidanzate non spariscono per mesi senza dare notizia e non tornano di botto, senza avvisare. E soprattutto pretendendo che tutto sia rimasto come prima.»

Le sue parole la rattristarono, ma Ivonne non parve accorgersene.

«Allora sei tornata, bene. Che cosa vuoi?»

«Ti devo spiegare.»

«Spiegare che cosa? Che hai terminato la laurea, hai vinto il concorso per la specializzazione e non hai più bisogno di una casa qui a Foggia?»

Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse arrabbiata; aveva pensato di allontanare il ricordo della loro relazione, archiviarla senza farsi travolgere dai rimorsi e dal rimpianto, ma si accorse di avere un gran bisogno di parlare di quello che era successo.

«Scendi, facciamo due passi.»

Roberta la convinse a seguirla sul marciapiede e presero a passeggiare l’una accanto all’altra; la ragazza sembrava molto avvilita.

«Non è una cosa facile da spiegare» cominciò.

«Non sei stata molto corretta con me» l’interruppe Ivonne. «Non ci siamo nemmeno dette di esserci lasciate. È successo così… come quando un arto va in cancrena e ad un certo punto si decide di amputarlo»

«Accidenti.»

«Cosa?»

«Non credo di averti mai sentita parlare così francamente, da quando ti conosco.»

Roberta non ottenne risposta, se non uno sguardo deluso che era in procinto di inumidirsi per le lacrime.

«Non sai che cosa mi sono dovuta sorbire, in questi mesi in cui non ci sei stata!» riprese, sentendo le parole affollarsi sulle labbra. «Ti ricordi di Valeria, no?»

«Certo, la tua carissima amica.»

«Ecco, ricordi che lei e la sua ragazza si erano lasciate di comune accordo? Bene, ora che ha scoperto che Clotilde si è messa con un’altra ha dato di matto! Non fa che parlarmi di lei, non fa che ripetermi che è stata una stronza e un sacco di altre cose… giuro che impazzirò se la sento ancora una volta dirmi quelle cose!»

«E come se non bastasse» proseguì, con rinnovata foga, «mi trattano come un’idiota. Siccome ci siamo lasciate – eh, poverina Ivonne, si è lasciata, ma se vogliamo dire la verità non erano fatte per stare insieme, è stato meglio così – ora sono diventata una stupida, una pavida che non sa prendere decisioni per sé e non sa cos’è meglio per lei.»

«Povera Ivonne.»

«Il che sarà anche vero, ma non sopporto che mi si venga a dire di non pensare più a te, di lasciare indietro il passato, quando la mia migliore amica mi propina ogni giorno le stesse solite stronzate su quanto sia stata cattiva Clotilde con lei. Io non ce la faccio, io non le sopporto più…»

Fece una pausa, poi si rivolse alla ragazza.

«Perché sei tornata?»

«Avevo un po’ di giorni liberi.»

«Perché non mi hai più cercata?»

Ivonne pensò che se proprio doveva sfogarsi, tanto valeva comunicarle tutti i suoi pensieri. Non si accorse di essersi fermata poco più in là di un lampione solitario e di avere la propria mano stretta in quella di Roberta.

«Mi pensi ancora?» chiese questa, portandosi davanti a lei.

Ivonne la guardò bene, prima di rispondere. Non sembrava cattiva, non pareva manifestare segni di prepotenza e non le aveva ancora rimproverato alcuna sciocchezza. In lei non vedeva volontà di sopraffazione e dominazione quanto piuttosto un porto sicuro in cui gettarsi; Valeria e sua madre non potevano capire quanto lei avesse bisogno di Roberta e lei stessa cominciava a rendersene conto solo in quel momento; non riusciva a spiegare altrimenti quel moto interiore che superava anche l’orgoglio ferito.

«Sì.»

«Anche io, sempre.»

Non le fu chiaro il modo in cui la ragazza riuscì a portarsi talmente vicina al suo viso da potersi vedere riflessa nelle lenti dei suoi occhiali.

«Mi piaci tanto, Ivonne.»

La confusione nella sua testa era troppa per permetterle di ragionare su cosa fosse meglio fare e su cosa dovesse rispondere, su cosa dovesse farle scontare e su quanto fosse stupido lasciare che l’emozione prendesse il sopravvento sulla testa, pena il ritrovarsi con milioni di domande senza risposta, in una situazione senza via d’uscita. Non vivevano più insieme, le separavano un’infinità di chilometri e due temperamenti molto diversi.

Tuttavia, quando fu il momento di baciarsi, tutte quelle valide motivazioni per cui non avrebbero dovuto trovarsi lì, in quella strada secondaria dove chiunque poteva scorgerle, scomparvero. Si stupì addirittura della naturalezza con cui tutto si stava accomodando: poche parole, sbagli da parte di entrambi, molta voglia di riparare e volersi ancora bene.

«Hai visto che quando m’infervoro non piango più?»

«Io sto cercando di arrabbiarmi un po’ meno.»

Restarono a scambiarsi tenerezze finché Roberta non propose di spostarsi in automobile e fare un giro in qualche posto più appartato, dato che era ancora presto e suo fratello non sarebbe passato a prenderla prima delle undici. La proposta piacque ad Ivonne che la trascinò di corsa, ridendo, verso la sua macchina.

«Ivonne! Ivonne!»

La ragazza si sentì chiamare e alzò lo sguardo verso i balconi del palazzo, per scoprire sua madre che l’invitava a salire.

«Che fai lì?» domandò, inorridita al pensiero che si fosse goduta tutta quanta la scena.

«Salite, venite a prendere un pezzo di dolce!»

«Buonasera» la salutò Roberta, evidentemente favorevole all’idea più di quanto non lo fosse Ivonne.

Si trovarono al tavolo del soggiorno assieme al fidanzato di Damiana, ai suoi genitori e ad Antonia a condividere del pandispagna imbottito di nutella e ricoperto di glassa. Antonia non parlò molto, ma parve più contenta e meno scontrosa, sollevata nel vedere le sorelle maggiori a proprio agio. Roberta venne presentata come un’amica e le fu permesso di rimanere a chiacchierare finché non fu troppo tardi. Damiana fu ripagata delle preghiere che aveva fatto: sua madre riuscì a non comportarsi in maniera troppo bizzarra e gli ospiti rimasero nel complesso soddisfatti della cena.

Ivonne continuò a frequentare Roberta, incurante delle opinioni altrui, finché la loro relazione non sfociò in un’amicizia profonda a causa della distanza e del poco tempo a disposizione da passare insieme. Roberta conservò sempre un grande affetto nei suoi confronti e si premurò di ospitarla spesso da lei, permettendosi di tanto in tanto qualche gesto più intimo: non voleva dimenticare del tutto la matrice fisica del loro rapporto, aveva bisogno di ricordare che si erano amate, che non erano state soltanto due buone amiche. Ivonne glielo permetteva, ma le nascose a lungo quanto le fosse difficile non ricambiare con altrettanta enfasi; impiegò molto tempo prima di riuscire a vivere con sereno distacco la faccenda: anche quando cercava di non pensarci più l’automatico gesto del prendere in mano, oltre alle due posate per lei, una forchetta, un cucchiaio ed un coltello le procurava una grande malinconia e, di tanto in tanto, anche qualche lacrima.

   
 
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