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Autore: nevertrustaduck    06/08/2012    7 recensioni
"...Guardando i suoi occhi per una volta mi sentii a casa. Per una volta credetti veramente di essere importante per qualcuno, sentii di essere nel posto giusto. Pensai che non sarei mai più stata sola..."
Jessica vive in un orfanotrofio da quando ha cinque anni. E' cresciuta sotto l'occhio severo e premuroso di Tess, la sua migliore amica, con la quale ha intenzione di scappare non appena compiuti i diciotto anni. Nessuno si è mai curato di lei, a scuola è una continua derisione per quello che non ha, ma un incontro sul lavoro le cambierà radicalmente la vita. Tutto è innescato da delle coincidenze.
E' proprio vero: la vita è quell'entità che si pone tre te e i tuoi piani per il futuro.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nick Jonas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-Welcome to my life




Cercai di non mangiare ai quattro palmenti come ordinava il mio stomaco, non volevo pesare troppo su quella donna.
Mi osservò per tutta la durata del pranzo con i suoi dolci occhi castani, erano così buoni. Continuava a sorridermi, incoraggiandomi a prendere un’altra porzione di tutte le portate, cosa che come ho già detto non feci.
«Grazie mille signora… » solo in quel momento realizzai che non sapessi ancora come si chiamasse.
«Denise, chiamami soltanto Denise, cara. E dammi del tu per favore» mi chiese senza abbandonare il suo sorriso gentile.
«D’accordo. Perché sta… stai facendo questo per me?» le chiesi, dato che non ero ancora riuscita a trovare una risposta per quell’interrogativo.
Abbassò lo sguardo e si poggiò comodamente allo schienale della sedia prima di rispondermi.
«Quando stamattina sono entrata in quel negozio e ti ho vista, qualcosa nei tuoi occhi mi ha fatto capire che eri una ragazza speciale. So che le ragazze di quel negozio provengono tutte dall’orfanotrofio ed era da un po’ di tempo che volevo aiutarne una. Non ti dirò che ti capisco o, peggio ancora, che ti compatisco perché mentirei ma… mi farebbe piacere essere un volto amico per qualcuno che abita lì dentro» mi disse con il suo solito sorriso sincero.
Caspita, aveva fatto centro.
Le sue parole mi resero molto felice. Qualcuno voleva essere mio amico. Non importava se Denise fosse molto più grande di me, a me importava solo il fatto che volesse essere mia amica.
Aveva detto di aver trovato qualcosa di speciale dentro di me. L’aveva detto giudicando i miei occhi.
Questa sì che era una sorpresa, dato che era una parte del mio corpo dove io non mi soffermavo più di tanto.
Li avevo sempre considerati come due fondi di una bottiglia di Heineken vuota. Stesso colore, stessa capacità. Vuoti.
Era sorprendente che attirassero l’attenzione di qualcuno, e lo era ancora di più che questo qualcuno li usasse per capire che ero una ragazza speciale.
Uscii dai miei pensieri, riflettendo sul fatto che Denise volesse essere per me un volto amico, ma che non sapesse ancora chi fossi.
«Anche a me piacerebbe avere un’amica al di fuori dello Universal Rainbow. Comunque io sono Jessica Switcherson» dissi presentandomi, finalmente.
Rimase un attimo in silenzio facendo accordare alcuni pensieri nella sua testa. Parvero piacerle perché ritrovò il suo proverbiale sorriso poco dopo.
«È un bellissimo nome» si complimentò.
«Anche Denise lo è» dissi a mia volta.
«È da tanto che sei lì, Jessica?» mi chiese gentilmente, impedendo categoricamente alla mia testa di associare la voce “invadenza” a quella domanda, come avrei fatto di solito.
«Da dodici anni» risposi con tranquillità.
Continuavo a crederlo sempre di più, quella donna era la fiducia fatta persona.
«Mio padre è ancora vivo ma… non posso stare con lui. E nessuno mi ha mai adottata in tutti questi anni, mi mancava sempre qualcosa. Non penso che qualcuno lo faccia ora, ormai è tardi» dissi giocando con l’ultimo goccio d’acqua che era rimasto sul fondo del mio bicchiere.
«Mai abbandonare la speranza» mi disse Denise posandomi una mano su una spalla.
«Ricordati che il verde me l’hai consigliato tu, ed è il colore della speranza. Non puoi perderla» continuò accompagnando la prima frase con una leggera risata.
Sorrisi a mia volta, evitando però di promettere qualcosa che non avrei fatto. Non sarebbe più arrivato nessuno per me. Avrei aspettato i diciotto anni e poi sarei andata via dall’orfanotrofio insieme a Tess. Saremo state libere, felici per una volta.
Vidi Denise guardare l’orologio che aveva al polso e sbiancare di colpo.
«Scusami cara, sono veramente in ritardo, devo andare a prendere mio figlio a scuola» disse alzandosi.
«Non preoccuparti, vai pure hai fatto anche troppo per me oggi» la congedai con un sorriso.
«Denise posso farti solo una domanda?» le chiesi fermandola, realizzando che, a parte il nome, non sapevo veramente nulla di lei.
«Me la stai già facendo» rispose lei dolcemente.
Non me ne ero resa conto. Ero leggermente imbarazzata per quella risposta, a volte non sapevo proprio gestire le parole.
«Hai dei figli?» le domandai nuovamente.
«Sì, ne ho quattro, sto andando dal più piccolo. Sono la mia gioia» disse con gli occhi che le brillavano.
«Devi esserne molto fiera» osservai vedendo amore ed orgoglio farsi largo sul suo volto.
«Adesso vai, non vorrei che aspettassero per colpa mia» le dissi invitandola ad andare.
«D’accordo Jessica, ci vediamo presto» mi disse allontanandosi.
«Certo, presto» dissi sottovoce, riflettendo sul fatto che sarebbe stata già una grande cosa riuscire a rivederla. Con la ferrea disciplina dell’orfanotrofio la vedevo difficile riuscire ad avere di nuovo una libera uscita a breve termine.
Quello che non potevo immaginare era la verità che si nascondeva in quelle parole. Contro ogni aspettativa avrei rivisto Denise prima di quanto potessi immaginare.
***

Tess aveva saltato la cena quella sera e si era fatta assegnare il turno notturno di pulizie. Questo significava solo una cosa: l’incontro con sua madre non era stato dei migliori e aveva voglia di stare da sola. Non parlava neanche con me a volte, preferiva chiudersi a riccio in se stessa per non permettere a nessuno di scoprire le sue emozioni o, peggio ancora, di aiutarla. Era fatta così. Bisognava conoscerla per capire quanto fosse speciale in realtà. Solo, aveva bisogno dei suoi tempi.
Infatti quella mattina la sentii uscire molto presto per andare al lavoro, stava ancora metabolizzando il colloquio.
Io spensi la sveglia alla solita ora, indossai di malavoglia la divisa di quel marrone meraviglioso e andai al refettorio a fare colazione. Oggi non ci sarebbe stata nessuna Denise a colmare i miei cali di zuccheri, mi conveniva riempirmi lo stomaco per quello che potevo.
Finii di togliere le briciole dalle pieghe della mia gonna in tartan e tornai a prendere i libri nella mia camera. Non capivo perché dovessimo avere la divisa di un colore differente dagli altri. Era il tuo biglietto da visita, in questo modo tutti sapevano cosa eri.
Era un po’ come dire “Ehilà, sono un orfano. I miei vestiti sono differenti dai tuoi perché non potrò mai essere come te”. Grazie mille questo sì che è confortante. Alla faccia della non-discriminazione.
Mi avviai a scuola insieme agli altri “in marrone”. Sì, è così che ci chiamavano a volte quei figli di papà. Meglio risparmiarvi gli altri che sentivo sussurrare di sfuggita al nostro passaggio.
Le lezioni si svolsero in fretta per fortuna, e non mi capitò di trovarmi nello stesso corso con “i blu” peggiori, ringraziando il cielo.
Ma Denise aveva ragione: mai perdere la speranza. C’è sempre qualcuno pronto a farti qualche sorpresa. Quando ti prefiggi un obiettivo prendi sempre in considerazione l’idea che la vita ha già in mente di scombinarti le carte in tavola, mandandoti da un’altra parte.
Ma io quest’altra parte non avrei voluto conoscerla. Mai.
Ero seduta ad un tavolo della mensa ed ero sola, tu guarda che novità. Stavo mangiando quella che avrebbe dovuto essere pizza, ma che in realtà assomigliava molto a gomma farcita, così non mi accorsi che qualcuno si stava avvicinando.
«Potresti toglierti? Stai occupando il mio posto» disse qualcuno.
Mi ci volle un po’ per realizzare che ce l’avesse con me.
«Scusa?» chiesi sollevando gli occhi dal piatto, volendo guardare in faccia quel campione di gentilezza.
«Quello dove sei seduta è il mio posto. Dovresti alzarti» continuò imperterrito.
A parlare era un ragazzo che stava in piedi, dall’altra parte del tavolo, e che portava un vassoio in mano. Dalla sua divisa era chiaro che apparteneva all’elite, ma questo avrei potuto capirlo anche senza guardarlo. Aveva capelli castani e ricci e occhi color cioccolato che contrastavano decisamente con i suoi modi di fare.
«Non credo proprio. Quando sono arrivata non c’era nessuna riservazione e non cederò di certo il mio posto al prepotente di turno. Ce ne sono tanti liberi: ne cerchi un altro come tutti» risposi tranquillamente.
«Quindi io sarei il prepotente di turno» proseguì posando il vassoio su un tavolo vicino.
«Risposte come “sì” in questi casi sono troppo banali?» chiesi ironicamente.
«Ma io non sono prepotente! Sto solo reclamando il mio posto, quindi adesso per cortesia và da un’altra parte» ebbe il coraggio di replicare.
Povero ingenuo, non sa con chi ha a che fare.
«No, tu stai parlando in maniera sgarbata con una persona, e questo oltre che fare di te un prepotente, ti rende anche un gran maleducato» risposi lasciando definitivamente perdere il mio pranzo.
«Chi sei tu per dirmi queste cose?» mi chiese tagliente.
«Sono una persona! E come tale merito un po’ del tuo rispetto» dissi alzandomi in piedi.
«Sei solo un’orfana. Puoi tenerlo il posto, mi fai pena»
Ora aveva passato il limite. Io non facevo pena a nessuno. E tecnicamente non ero neanche un’orfana.
«Se l’alternativa è essere una prepotente, presuntuosa, ricca, viziata figlia di papà come te preferisco essere me e fare pena tutta la vita» gli dissi glaciale.
«Come ti permetti di giudicarmi?»
«Come ti permetti di farlo tu. Il colore di una divisa non ti rende migliore di me. Potresti esserci benissimo tu al mio posto ora» dissi chiaramente.
«Già ma non ci sto. Peccato, dev’essere bello essere come te, senza-famiglia» disse canzonandomi.
Non riuscii più a controllarmi. La mia mano scattò da sola per raggiungere la sua guancia, lasciando l’impronta delle cinque dita in rosso.
«Chiamami un’altra volta così e ti uccido, è chiaro?» dissi senza pensare minimamente allo scherzo.
«Tremo dalla paura. Cosa potrebbe farmi una come te?» mi disse mentre in volto gli si dipingeva un sorrisetto beffardo.
«Meglio non chiederselo. Un giorno potresti venirne a conoscenza e ti rovineresti l’effetto-sorpresa» dissi lanciando la mia ultima battuta prima di abbandonare il campo di battaglia. Dovevo essere la prima, ovviamente.
Ma altrettanto ovviamente uno dei responsabili dell’istituto era scattato verso di noi non appena avevo alzato le mani su quel ragazzo, mandando in fumo la mia uscita di scena.
«Cosa succede qui?» chiese rivolgendosi più al ragazzo che a me.
Cominciammo a parlare simultaneamente. Ognuno cercava di far pendere dalla sua parte l’ago della bilancia, ma il risultato fu solo un gran baccano che costrinse il responsabile a zittire entrambi con un cenno.
«Chi è stato il primo ad alzare le mani?» chiese poco dopo.
«La prima e l’unica: lei» disse il ragazzo senza esitazione, indicandomi con un gesto della mano.
Era inutile negare, tanto valeva spiegare e farla finita.
«È vero, ma…»
«Niente “ma” signorina» mi interruppe il responsabile.
«Avevo i miei buoni motivi, non mi diverto a dare schiaffi a destra e a manca secondo come mi alzo la mattina!» tentai di replicare.
«Ah no?» mi chiese il ragazzo.
Quant’era simpatico. Quell’ironia nella sua voce davvero mi faceva morire dalle risate. Se avessi potuto in quel momento mi sarei impegnata a disegnargli la stessa fantasia anche sull’altra guancia.
«Non ne dubito signorina. Ma la violenza fisica, a differenza di quella verbale, necessita di una punizione» riprese il responsabile scrivendo qualcosa su un foglietto che non esitò a consegnarmi immediatamente.
«Cinque turni di servizio in cucina?» chiesi strabuzzando gli occhi, leggendo ad alta voce.
«Da coprire entro il termine di venerdì pomeriggio» puntualizzò, girando poi sui tacchi e tornando da dove era venuto.
«Cinque tesoro, come le dita di una mano» disse il ragazzo indicandosi la guancia.
«Chiamami tesoro un’altra volta e giuro che te la faccio mangiare, la mano» risposi tagliente.
«Meglio per te che vada, non vorrai passare il resto della tua vita nelle cucine?» mi chiese con un sorriso vittorioso in viso, avvicinandosi.
«Ne varrebbe la pena» dissi avvicinandomi a mia volta prima di uscire di scena, questa volta definitivamente.
Riguardai sconsolata il foglietto che stringevo tra le mani. Oltre al danno pure la beffa.
Non so, la frase “la legge è uguale per tutti” è forse una frase di circostanza come quelle che si trovano nei cioccolatini, o come i “per sempre” e i “non ti lascerò mai”?
Sì, date le circostanze.
Odiavo quel ragazzo arrogante, sputa-sentenze e quel suo dannatissimo alone di superiorità che si portava dietro.
Aveva vinto, per questa volta.
Ma si era messo contro la ragazza sbagliata.




Cciao meraviglie ❤
Volevo solo ringraziarvi :') sei recensioni come esordio è qualcosa di fantastico!
E ringrazio anche le due fantastiche ragazze che l'hanno inserita tra le preferite! Grazie per la fiducia! :D
Bene, questo è il nuovo capitolo, spero di non deludere le vostre aspettative! :P
xx
Miki
   
 
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