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Autore: Douglas    07/08/2012    1 recensioni
Apro una nuova pagina e rimango venti minuti buoni ad osservare il cursore lampeggiante con aria truce poi mi dico che mi sto impegnando troppo per una sciocchezza che non leggerà nessuno e mi invento qualche stronzata poetica:
Noia, la intitolo prima di passare al testo centrale che farà passare la voglia a quella donna di analizzarmi.
“La noia è una delle più grandi malattie dell'uomo. Si attacca sulle spalle e non si scolla più fino a che non fai qualcosa di folle, insensato ma rigenerante. Scrivere su un blog scemenze che non importano a nessuno non lo è. Nella mia vita non succede niente di interessante:la cosa più eccitante che ho fatto in queste 24 ore è giocare a scacchi con un orologio e perdere inesorabilmente.
Ecco come mi sento Ella, tu che mi chiedi sempre come sto, sono annoiato.
Se qualcuno mi capisce, scriva qualcosa...”
Non lo rileggo nemmeno e pubblico il tutto lasciando che la mia psicologa passi il venerdì sera a riflettere sulle molteplici malattie che affliggono la mia povera mente.
( AU! teen Sherlock and John) - fanfic in tre capitoli
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Una sfida con l'orologio e un desiderio dalle candeline

 

Un fischio acuto annuncia una folata di vento proveniente dalla finestra aperta della cucina.

Questa fa traballare le fiamme delle diciotto candeline sparse sulla torta glassata in modo tale da far trattenere il respiro a mia madre.

Alzo lo sguardo da quella superficie cremosa e sembra che anche la mia anima cominci a traballare quando mi metto a riflettere sullo squallore di quella situazione: passare il diciottesimo compleanno con i propri genitori è forse una delle prospettive più ignobili per qualche mio coetaneo.

Io non mi lamento, sorrido stiracchiando le la labbra in una smorfia e mi consolo stringendo il cellulare nuovo fra le dita con la convinzione che con quello avrei potuto scrivere alla mia infinita schiera di amici.

La mia illusione è dolciastra, quasi quanto la crema che sborda dal tiramisù.

-Ti vuoi sbrigare con questo desiderio? Mi stanno aspettando al Roxy- sbotta mia sorella mentre si sistema alla belle e meglio il rossetto davanti allo specchio del salotto: non finge nemmeno di essere interessata alla “mia presa di responsabilità dinnanzi al governo inglese”, occupata com'è dalla sua movimentata vita sociale.

Dannazione, come ha fatto a farsi degli amici solo dopo tre giorni dal nostro trasferimento?

Ripenso alla mia vita prima dell'attacco terroristico di Kabul in cui mio padre ha perso la vita insieme ad un centinaio di uomini, e mi chiedo se la mia ex stia già con un altro dopo che la nostra relazione a distanza ha smesso di funzionare.

Mandarle un messaggio, anche con un telefono di nuova generazione, mi pare triste e insensato.

-Harriet, siediti a tavola e mangia una fetta di torta con tuo fratello. Diciotto anni si compiono una volta sola mentre le uscite mondane con i tuoi amici puoi farle tutte le sere- la ammonisce strattonandola appena per la manica del pullover verde e facendola sedere a tavola.

-Aspetta solo un secondo, Johnny. Vado a prendere la macchina fotografica- cinguetta lei allegra avviandosi verso la porta del corridoio, non prima di scoccare alla figlia maggiore un occhiata minacciosa che le vieta di alzarsi dalla sedia.

Dopo il breve scambio di parole fra mia madre e Harriet quasi mi dimentico di contare i secondi che rimangono alla fine della giornata e mi ritrovo con il naso incollato sullo schermo del telefono, alla ricerca di un applicazione che fosse capace di tenerlo a posto mio.

Lo sguardo penetrante di mia sorella mi trafigge con tale intensità e resistenza da farmi cominciare a sperare nel ritorno di mamma e della sua fastidiosa solarità.

-Non sono io che ti costringo a rimare qui- borbotto mentre con lo sguardo mi perdo nelle molteplici applicazione di quella meraviglia elettronica: trovo immediatamente il navigatore satellitare e imposto l'indirizzo del Roxy, una delle discoteche più in di tutta Londra.

-Tieni, in caso tu ti perda.- esclamo porgendole il cellulare con un sorriso ironico.

-Divertente. Sai, molto volte penso che tu sia un castigo inviatomi da Dio per un peccato compiuto in una vita precedente- sibila lei respingendolo con uno sguardo fiammeggiante.

-Dovevi pensarci due volte prima di mordere tutta quella gente, cara la mia vipera- replico.

Se è possibile i suoi occhi si serrano ancora di più, tanto da farmi pensare che se avessi due monete qui con me le inserirei nelle sue iridi come succede alla fessura del salvadanaio in cucina.

-Non hai amici con cui festeggiare? Devi proprio rompere le palle a me?- risponde amareggiata.

-Neanche tu hai amici se per quello. Non credo che la ragazza con cui ti stavi facendo nel parcheggio possa essere considerata...- non riesco a terminare la frase perché mi ritrovo le braccia strette intorno al collo in una morsa flaccida.

Wrestling e amore fraterno vanno di pari passo nella mia famiglia.

-Zitto, idiota! Mamma potrebbe tornare da un momento all'altro- mi sussurra all'orecchio lanciando un lungo sguardo impaurito alla porta.

Ho passato ben tre anni nell'accademia militare gestita dal Maggiore Nevers, vecchio amico di mio padre sin dalle sue prime missioni in Afghanistan, e di certo non mi faccio intimorire da una stretta molle come la sua.

Sapevo atterrare il Capitano Jones, il nostro insegnante di lotta, ai tempi d'oro del mio addestramento figurarsi se non avrei saputo sconfiggere una sedicenne in sovrappeso.

Non mi lascio prendere il sopravvento e, approfittando dell'attimo di esitazione in cui sente la porta del camera da letto aprirsi, mi divincolo dalla presa e le stritolo in braccio dietro la schiena in un unico fluente gesto.

Lei caccia qualche urletto stridente e mi implora di lasciarle il braccio.

-Allora sta buona per altri cinque minuti- le dico mollandola poco prima che la mamma ritorni in cucina: Harry ritorna a fare il broncio però finalmente rimane zitta massaggiandosi il polso.

Il nostro scambio di amorevoli gesti sfugge completamente alla mamma che ritorna cercando qualcosa sul menù della macchina fotografica.

-Allora John hai pensato al tuo desiderio?- esclama lei lasciandola perdere e tornando ad osservare il suo capolavoro, si accorge che qualche candelina si è spenta col vento.

Fuori i nuvoloni carichi di pioggia fanno da sfondo allo sbraitare violento di qualche sporadico tuono e al sibilare acuto del vento che si intrufola fra le persiane chiuse.

Tira fuori dalla tasca il suo accendino e le riaccende con la sua tipica espressione da madre amorevole.

Anche se mi tratta da ancora da moccioso, le voglio un bene dell'anima: sono ancora un adolescente e in questa fase si preferirebbe cavarsi i denti uno a uno piuttosto che ammetterlo così rimango zitto con i miei pensieri.

-Sono pronto a soffiare però niente canzoncine idiote di buon compleanno, per favore- le dico per fare finita a questo calvario mentre lei mi abbaglia con il flash improvviso della macchina fotografica.

- Hai gli occhi chiusi...- si lamenta lei come una bambina troppo cresciuta che subisce un ingiustizia.

Li strizzo infastidito e aspetto qualche secondo che la vista mi ritorni per replicare :- se proprio devi farmi una foto, falla senza flash mentre esprimo questo stramaledetto desiderio- sbotto guardandola in cagnesco e lei ritorna a rivolgere l'attenzione all'aggeggio che ha in mano.

Non è vero che ho pensato al mio desiderio in cinque minuti , è da secoli che so già quale sia il più grande: niente automobili nuove ( Londra pullula di mezzi pubblici), niente storie d'amore ( visto che la mia ultima storia è naufragata come il Titanic, non come il film di James Cameron ossia in modo triste e plateale ma come nella realtà ossia in modo allarmante e progressivo) e neppure voti migliori a scuola ( non so ancora giudicare se il mio andamento scolastico sia in calo dopo l'ennesimo cambio di istituto ma le lezioni mi sembrano meno impegnative che nella mia vecchia scuola).

Chiudo gli occhi, riempio in polmoni con l'aria e lo smog londinese e penso intensamente al mio desiderio.

Voglio andarmene da questa casa e vivere da solo.”

Capisco subito che qualcosa non va..

Gli uomini non sono fatti per vivere da soli, hanno bisogno di qualcuno con cui confrontarsi e confidarsi altrimenti rischiano di impazzire, e io non sono altrimenti.

Mi manca enormemente uscire con un vero amico, sopratutto senza le paranoie da fidanzato del tipo se il mio profumo sia abbastanza gradevole o se ho fatto bene a portarle una piantina piuttosto che un mazzo di fiori.

Una pianta ha le radici, un mazzo di fiori secca e dopo due giorni si butta.

La vera amicizia è una pianta, le cotte sono mazzi di fiori.

Ripenso all'ultimo amico che ho avuto e mi accorgo che risale soltanto ai tempi delle elementari quando io e il mio vicino di casa attraversavamo la città di Sheffield in bici, incuranti di macchine ed autobus, dopo essere scappati dalle ansie dei nostri genitori sui pericoli dei nostri passatempi.4

Immaginavamo che la città fosse il campo di battaglia, i tombini delle mine da evitare e le automobili minacciosi carri armati che affrontavamo con le nostre pistole di plastica in tasca.

Mi manca la sensazione di avere una spalla che ti sorregga anche nei periodi più duri o, per quanto riguarda il mio vicino, una spalla che ti aiuta a digerire la stupida decisione di tua madre di cambiare aria ogni volta che le pare.

Mi aveva promesso di aspettare il mio ritorno in quella stessa casa ma dubito che ci sia rimasto.. .

Mi scuoto dal mio torpore e riformulo il mio desiderio ben consapevole della mania di perdermi in ricordi lontani:

Voglio andarmene da questa casa e trovare qualcuno con cui condividere un appartamento.”

Altri pensieri mi assalgono e mi chiedo se sia una cosa giusta pretendere di andarmene di casa l'ultimo anno del liceo senza uno straccio di conto in banca o impiego.

L'affitto non si paga mica da solo e neppure la retta dell'università di medicina sarà da meno.

In mezzo a tutte le mie convinzioni solo la solitudine è l'unica che rimane a farmi compagnia, come un cagnolino fedele che si accuccia ai piedi.

Forse pretendo troppo da delle stupide fiammelle tremolanti sopra una torta deforme...

Voglio solo un amico, per l'appartamento rimandiamo all'anno prossimo.” Mi ricorreggo fra me e me rassegnato.

Diciotto candeline contro un desiderio piuttosto accessibile e comune mi sembra che possa essere equa come sfida.

Soffio a occhi chiusi, svuotando completamente l'aria tra cui sento intrappolato il grido soffocato di chi ha bisogno solo di qualcuno della sua età con cui confrontarsi: qualcuno che ti capisca e ti contraddica in modo giusto e imparziale, uno che non ti elogi quando commetti una cazzata.

-Finalmente! Pensavo fossi morto...- esclama Harriet tagliandosi frettolosamente la sua fetta di torta e trangugiando il primo boccone.

Anche io non mi perdo in chiacchere e mi appresto ad assaggiare la torta che mamma ha preparato questo pomeriggio.

Sono a metà della mia fetta quando mia sorella se ne va e, alternando lo sguardo tra lo schermo del telefono e una gara olimpica di nuoto che stanno trasmettendo alla TV, termino la parte rimasta e mi avvio verso la mia camera.

Chiudo la porta alle mie spalle e, attaccando la spina allo stereo, inserisco un cd a caso alzando il volume quel tanto da coprire qualsiasi rumore estraneo.

Ho solo bisogno un po' di solitudine per riflettere sul fatto che mi comporto ancora da marmocchio dopo due anni in una accademia militare dove, secondo il mio modesto parere, il regista di Fight Club aveva preso ispirazione.

Mi viene quasi da ridere quando ripenso alla sera in cui mi trovai invischiato in una delle loro “ sessioni di combattimenti” e ne uscii finalista.

Credo che la mia inclusione al loro club privato fosse dovuta da una sorta di resa dei conti: provavano invidia per il trattamento speciale che il rettore mi riservava, visto il suo rapporto con mio padre, e per questo avevano deciso di trarmi in inganno con la scusa di una festa con le ragazze di un altro liceo.

Dalla loro “festicciola” ne ero uscito con qualche livido, una storta alla caviglia e un sorriso a trentatré denti sulle labbra ( tre denti erano rimasti impiantati nel ring arrangiato dietro il campo di addestramento): mi era piaciuto, l'adrenalina scorreva come un fiume in piena nel mio corpo scuotendomi con piacevoli brividi da capo a piedi.

Con la mamma avevo preso la scusa di una partita di rugby particolarmente violenta e lei non aveva fatto domande: non era la prima volta che mi massacravano sul campo.

Gli altri ragazzi erano stati meno fantasiosi poiché ero venuto a sapere che i loro genitori avevano protestato con la scuola per richiedere una ronda notturna di sorveglianza e l'avevano anche ottenuta.

Nessuno aveva più le palle per cacciarsi nei guai con il preside, anche se poi se ne andavano in giro per l'accademia sentendosi tutti più fighi di Silvester Stallone e sfoggiando i lividi e i tagli ancora presenti sulla pelle, così il “club” si era sciolto.

Non che me ne importasse molto, visto che la settimana in cui fu eliminato arrivò dal fronte afgano la notizia dell'attacco terroristico e della morte di mio padre.

Steso sul letto, uso la mappa elettronica mondiale di internet per individuare la città di Kabul direttamente dal cellulare e rimango qualche secondo a fissare le immagini del il paesaggio brullo e gli edifici dai profili alti e minacciosi: l'Afghanistan era stato il mio grande sogno fino a quel fatidico giorno di maggio in cui mi erano state consegnate solo una bandiera, una lucido pezzo di ferro che avrebbe dovuto rendermi fiero del suo sacrificio e i resti di un pover'uomo che aveva combattuto per concedere alla propria famiglia una vita dignitosa .

-John, caro! Perché non approfitti di questa bella situazione per aggiornare il tuo blog. Ella sarebbe veramente felice di sapere come è andato il tuo compleanno.- grida improvvisamente mia mamma dalla cucina, mentre la sua voce viene quasi coperta dallo strillo sgolato del cantante del mio cd.

Ella è la psicologa da cui mamma mi porta ogni mercoledì dopo la scuola da quando si è accorta che la mia ferita alla gamba della famosa “partita” di rugby non migliora.

A quanto pare il mio corpo ha subito così tanto dolore da rifiutarsi di rigenerarsi per proprio conto.

Vorrei gridarle che a Ella non importa un' accidenti se zoppico o meno, se ho compiuto dodici o venticinque anni: le basta ricevere il suo stupido assegno alla fine di ogni seduta.

Mi trattengo, conoscendo bene l'esito di quello scontro: tristezza e delusione da entrambe le parti.

Sbuffando per tutta l'operazione, accendo il computer e apro il blog vuoto che Ella ha creato appositamente per me dal suo lussuoso computer nel suo lussuoso ufficio da strizzacervelli.

Apro una nuova pagina e rimango venti minuti buoni ad osservare il cursore lampeggiante con aria truce poi mi dico che mi sto impegnando troppo per una sciocchezza che non leggerà nessuno e mi invento qualche stronzata poetica:

Noia, la intitolo prima di passare al testo centrale che farà passare la voglia a quella donna di analizzarmi.

 

La noia è una delle più grandi malattie dell'uomo. Si attacca sulle spalle e non si scolla più fino a che non fai qualcosa di folle, insensato ma rigenerante. Scrivere su un blog scemenze che non importano a nessuno non lo è. Nella mia vita non succede niente di interessante:la cosa più eccitante che ho fatto in queste 24 ore è giocare a scacchi con un orologio e perdere inesorabilmente.

Ecco come mi sento Ella, tu che mi chiedi sempre come sto, sono annoiato.

Se qualcuno mi capisce, scriva qualcosa...”

 

Non lo rileggo nemmeno e pubblico il tutto lasciando che la mia psicologa passi il venerdì sera a riflettere sulle molteplici malattie mentali che affliggono la mia povera mente.

La canzone dello stereo finisce e ne segue una molto più lenta che ha un lunga introduzione al violino: incantato da quella melodia, chiudo gli occhi e mi faccio cullare verso Morfeo.

Il trillo improvviso del campanello spacca e sovrasta il rumore della lavastoviglie, il ciarlare metallico di due telecronisti sulle prestazioni di Michael Phelps e la bella melodia rovinata dalla voce nasale del cantante che fa sparire il violino.

Scocciato, vado al rispondere al citofono, convinto del ritorno di mia sorella per prendersi qualcosa che ha dimenticato a casa, forse l'ombrello visto lo strato spesso di nuvoloni che si intravedono dai vetri delle finestre:

-Harry,cosa hai dimenticato questa volta?- domando seccato, convinto della risposta acida che riceverò.

Non le chiedo se ha dimenticato proprio l'ombrello a casa perché sarebbe capace di descrivere l'esatto punto anatomico in cui me l'avrebbe cacciato se non le avessi aperto la porta.

Rimango sorpreso quando una voce profonda e maschile risponde in tono più gentile di come avrebbe mai fatto mia sorella:

-Sono Gregory Lestrade, un compagno di classe di John Watson. Lo conosce?- gracchia un po' la voce a causa di qualche guasto al campanello e, in questo momento, desidero ardentemente un videocitofono per ricordarmi chi diavolo sia Gregory Lestrade.

In quei tre giorni di scuola mi sono stati presentati una trentina di ragazzi e un altra trentina mi è stata illustrata nei minimi particolari da una ragazza pettegola addetta all'orientiring dei nuovi arrivati: se almeno ricordassi un particolare del volto, del portamento o anche un semplice tic nervoso che mi ha colpito di lui poi saprei ricostruire il suo volto.

Mi concentro e ricordo soltanto tre persone che conoscono il mio nome: la ragazza logorroica del orientiring, la timida Molly Hooper con cui prendo l'autobus ogni mattina e il mio compagno di banco durante le ore di biologia, un tipo apposto con cui ho trascorso due piacevoli ore a sfottere il professore stempiato.

Improvvisamente mi ricordo della nostra presentazione, quando mi ha quasi implorato di chiamarlo Greg perché il suo nome intero lo faceva sentire come uno di quegli snob dal culo floscio e dalla puzza sotto il naso.

- sono io- esclamò stupito dal suo arrivo; non gli avevo mai mostrato dove vivessi.

-Scusa John, non avevo riconosciuto la tua voce. Sono qui con Molly Hooper, la tua vicina di casa. Mi ha accennato che oggi è il tuo compleanno e che non conosci ancora nessuno in città, così ci stavamo chiedendo se avessi voglia di fare un giro al Roxy con noi...- disse con un filo di imbarazzo.

Ecco svelato l'arcano, era stata Molly a indicargli l'indirizzo di casa mia ed era stata ancora lei a ricordare al ragazzo il suo compleanno dopo che glielo aveva accennato durante una delle loro poche discussioni fra i sedili stretti dell'autobus.

Quanti anni hai?

Diciotto fra tre giorni esatti...”

Era stata gentile a ricordarsi di lui ed era forse la cosa più vicina ad una amica che avevo.

Anche Greg era simpatico ma ci aveva parlato sì e no per due ore di fila e non potevo farmene un'idea precisa.

-Al Roxy?- domanda una voce stupita alle mie spalle che riconosco come quella di mia madre: se ne stà li impalata, con uno straccio ancora per le mani, i capelli scarmigliati e un'espressione attenta sul volto più vecchio e stanco di quello che ricordavo.

-Si è una discoteca non molto lontano da qui, sfortunatamente nessuno di noi ha ancora la patente quindi dobbiamo andarci a piedi- risponde lui senza accorgersi del cambio forse perchè il citofono distorce un po' la voce.

-Non saprei...- dico indeciso, per niente allettato dall'idea di andare nella stessa discoteca di Harry e di ritrovarmela fra i piedi anche quando esco in compagnia.

Mamma mi picchietta sulla spalla come per non intromettersi in una discussione in cui è stata già coinvolta e sussurra: - Esci, divertiti e dai un occhiata a Harriet ogni tanto - .

La guardo un secondo in modo rassegnato, rattristito dalla sua incapacità di gestire una figlia che si fa prendere la mano da ragazze e alcol.

Odio quando Harriet fa così: approfitta del fatto che papà fosse l' unico freno alla sua vita ingestibile e convince facilmente la mamma a farla uscire, anche se il giorno precedente è arrivata a casa ubriaca fradicia ad un orario improponibile.

Non è la prima volta che la inseguo nelle sue folli serate: non conto più le volte in cui sono dovuto uscire anche da solo per andare a ripescarla da locali affollati e discoteche soffocanti.

Strano a dirsi ma è in questo modo che ho incontrato Sarah, la mia ex: tra luci stroboscopiche, vomito e musica spacca timpani.

Lei era una delle ragazze che ha soccorso Harry durante una delle sue overdose da alcol: è stata l'unica che l'ha accompagnata all'ospedale ed le è rimasta accanto fino all'arrivo di un parente.

Devo abituarmi agli ospedali se voglio fare l'infermiera...”

Mi aveva detto con un sorriso che avevo trovato incantevole.

-Allora?- mi chiede la cornetta che tengo in mano con la voce del mio compagno.

È pur sempre il mio compleanno, mi merito un' uscita tra amici!

-Dammi un secondo per cambiarmi e arrivo- gli rispondo prima di agganciare e andarmi a mettere un paio di jeans e un maglione al volo.

Mi metto in tasca il portafoglio e il cellulare poi mi tuffò giù per le scale direttamente nella notte nera di Londra con la speranza che il lavoro delle fiammelle impertinenti sia già iniziato.

 

Angolo autrice: salve a tutti! Piccola fanfic divisa in tre capitoli che mi impegnerò a pubblicare in questi giorni. é solo un semplice esperimento per staccare un attimo dalla mia altra fanfic, L'istinto del soldato, che non ho dimenticato ma che mi sto impegnando a scrivere in modo efficace. Una storiella un po' banale, quasi una favoletta per bambini già sentita tante volte, che spero non prenderete alla leggera.

Come sempre vi ringrazio in anticipo per aver dedicato anche una semplice lettura a questa storia e mi raccomando, recensite e dite la vostra.

  
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