Disclaimer: i personaggi sono
copyright di Fujimaki Tadatoshi.
La frase in apertura è della canzone “Angel with a shotgun” (The Cab).
La colpa è del mio troppo amore per Teppei 3
Note: basata sulla partita contro la
Kirisaki Daichi (insomma,
dove Hanamiya Makoto ci delizia della sua presenza, dannato figlio di buona donna 3),
ma in maniera molto ampia. E’ un istante di pensieri mentre Kiyoshi
soffre come un cane – e noi tutti con lui, tanto per.
La frase è stata tipo un fulmine a ciel sereno, e aver visto un episodio che
parla di Teppei ha fatto il resto.
And I want to live, not just survive.
Quando Hyuuga dice che lui è il tipo di persona che ha
sempre qualcosa in mente, forse ha ragione.
Non che non pensi davvero e sinceramente le parole che ha pronunciato: per lui
sono il credo a cui affidarsi per poter avere fede – che per lui è uno sport, e
la squadra è quello a cui aggrapparsi e in cui avere piena fiducia.
Eppure in quel momento, mentre l’ennesimo, accurato fallo non visto dall’arbitro
lo colpisce e lui stringe i denti, non riesce a non pensare che forse un po’,
da qualche parte dentro di sé, non è del tutto “disinteressato” quell’essere
pronto a sacrificarsi per il Seirin. Trova che sia
una parola orribile, dire che se ne sta approfittando – è affezionato ai suoi
compagni, e pensa davvero a Kuroko e Kagami quasi come a due fratellini che
vanno guidati con pazienza perché non si smarriscano lungo la strada di uno
sport che ti dà tanto, ma ti toglie molto più di quanto credi – eppure non
trova il modo di dirlo diversamente.
E sì che a lui, di solito, le cose da dire non mancano mai.
Eppure intimamente lo sa, lo ricorda,
che quando la sua riabilitazione è finita ed era convinto che tutto sarebbe finalmente
tornato al suo posto – e il suo, di posto, era un campo da basket – gli hanno
detto che tutto sarebbe stato di nuovo un puzzle perfetto, ma per un solo anno
ancora.
Per la prima volta non aveva avuto parole o battute pronte: si era guardato per
molto tempo allo specchio, e aveva cercato di vederci qualcosa di diverso da un
giocatore da basket, aveva cercato di scorgervi l’alternativa che avrebbe potuto
essere al posto di ciò che era sempre stato.
Non è che non ne avesse trovate, per la verità: non era Kiyoshi
Teppei perché giocava a basket, ma giocava a basket
perché era Kiyoshi Teppei,
lo stupido fissato a cui bastava correre a canestro per essere contento, che
giocasse con dei bambini del quartiere o con gli avversari più forti.
Sarebbe stato sempre lui, con o senza pallacanestro, e lo aveva capito, lo
aveva sempre saputo; per un istante poi si era sentito persino tentato: era
stata incredibilmente attraente la possibilità di non dover passare tutto il
tempo a sudare e soffrire in palestra, di non doversi preoccupare che ad ogni
salto il ginocchio cedesse, che il suo corpo lo abbandonasse nel momento
peggiore – non se lo sarebbe perdonato, di avere su di sé le aspettative e le
speranze dei compagni, e deluderle in quel modo.
Aveva capito che l’anno in più sarebbe stato così, vissuto nella continua,
ansiosa speranza che tutto rimanesse a posto, in un costante “non ora” o “ancora
un po’, ti prego”. Sarebbe stato un inferno, mentre essere “solo” uno studente
sarebbe stato molto più facile.
L’aveva trovata, qualcosa che avrebbe potuto essere senza lo sport. Ma la
verità era che Teppei lo sapeva, che senza basket
poteva sopravvivere, ma che da sempre era stato il campo da pallacanestro a
farlo sentire vivo.
Era che, semplicemente, non ci stava.
Non ci stava, a sopravvivere e basta, anche se avrebbe potuto vivere un solo,
unico anno ancora.