Film > Thor
Segui la storia  |       
Autore: unknown_girl    12/08/2012    2 recensioni
La storia si basa sulla ricostruzione delle vicende del film "Thor", analizzate e vissute dal punto di vista di Loki, in questo caso il protagonista. Per realizzarla ho utilizzato anche una delle scene eliminate dal film.
[ Sento deboli i miei occhi, bruciano; i battiti del cuore salgono alle tempie e mi frastornano, il mio volto salta da una prospettiva all’altra in cerca di qualcosa, qualcuno. Ma non so cosa. E non so chi. Deglutisco senza difese, inerme. Il tempo si dilata come lo strappo di una tela e mi isola in un turbine di immagini e pensieri che mi accecano. Ma non posso. Non adesso. I Giganti. Thor. Dobbiamo tornare. Fratello, dobbiamo tornare. Adesso. ]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Loki
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
The Hurt Reindeer - Roots

- Roots -

 

Il silenzio che cela la vasta sala delle reliquie è spettrale. Riesco ad avvertire la solennità di quel luogo nella stessa aria che respiro. Pensavo che avrei varcato quella soglia con un passo lento e composto, se non addirittura esitante; e invece avanzo senza riuscire a occultare la rabbia e la disperazione che mi permeano ogni fibra muscolare. L’ultimo incontro che ho avuto è stato davvero sgradevole e certo non ha bendisposto il mio umore e stato d’animo ad un momento delicato quanto vitale per comprendere quale intrigo mi circonda. Quale mistero.

Thor, Thor, Thor e ancora Thor. Ci fosse stato piuttosto anche un solo grazie che io abbia sentito giungere alle mie orecchie. Per me. Per quello che ho fatto. Io ho avvertito la guardia. Io ho salvato le loro inutili e patetiche vite. Non era forse abbastanza? O magari non sono sufficientemente degno del loro rispetto, della loro gratitudine. L’unica moneta con la quale mi hanno ripagato è stata delusione, prima, e pretensione, dopo. Dai loro occhi sgorgava meraviglia, e lo posso comprendere, ma i loro sguardi erano smarriti e in balia di una malcelata ripugnanza nei miei confronti. Con una sola occhiata si sono dichiarati traditi senza che io abbia fatto niente per rendermene colpevole. Non comprendono, gli stolti, che sarebbero già morti e sepolti se non avessi confessato ad alcuno il nostro folle progetto escursionistico. Le loro menti ottuse sono come isolate in una demenza che le rende capaci unicamente di piagnucolare quel nome, come un cane che guaisce al padrone in cerca di attenzioni. È così rivoltante da provocarmi un nodo allo stomaco.

Ma certo. Ho riconosciuto quello sguardo, giovane Sif. Lo so bene cosa stavi insinuando. Come se avessi davvero potuto prevedere una cosa del genere. Dovrei essere davvero un maestro formidabile per essere riuscito ad architettare così bene ogni più piccolo dettaglio e a utilizzare tutta la mia magia per spingere il cuore di mio padre a bandire Thor scagliandolo così lontano. Che brava, Sif. La tua presunzione non conosce confini. Se penso che col mio atto di generosa lungimiranza ho contributo a salvare anche la tua, di vita, mi scuote la collera. Ma non una parola.  Né una parola gentile da parte tua o di altri, né una parola di rabbia da parte mia. Eravamo lì, gli uni di fronte agli altri, semplicemente a prenderci in giro. Sappiamo tutti quello che pensate di me così come io di voi. Eppure continuiamo nella pantomima. Nessun problema. So per certo di poter gestire il gioco molto meglio di voi altri. Ah, già; peccato che neanche stavolta sia stato io al centro dell’attenzione. Quasi dimenticavo. L’unica ragione per la quale potresti mai abbassarti a pregarmi, cara Sif, è per riportare a casa mio fratello. Il tuo amato Thor. Come se tu ne sapessi qualcosa, poi.

Siete tutti talmente abituati a convivere con i suoi lati migliori che non sareste nemmeno in grado di riconoscere i suoi limiti. Ciechi. Miseri individui guidati da menti altrettanto mediocri. Cosa ne sapete voi dell’affetto? Dell’attaccamento? Dell’emulazione più sincera e disperata? Chi dite di amare davvero, voi? La vostra è solo una ridicola preghiera di appagamento con la quale affermate, attraverso sottile arguzia, una indebita superiorità d’animo e una presunta unicità di legame con mio fratello. Voi che vi pensate puri e giusti, sorretti dalla povertà delle vostre conoscenze, provate del meschino diletto ad ergervi al di sopra di me. Di me che sono da sempre, e forse per sempre, un uomo invisibile. Surclassato, escluso, umiliato, ostracizzato e infine addirittura ignorato. Come uno spettro molesto. Avete sempre saputo che essere cari a Thor avrebbe significato congiungere con una linea, anche solo incidentale, le nostre strade. Ma lo avete accettato con le vostre regole, i vostri schemi. E devo dire che avete dimostrato grandi abilità: siete riusciti a farmi sentire solo anche se in gruppo; a farmi sentire un estraneo anche se in un'unica famiglia; a farmi sentire da meno anche se tutti alla pari. Per questo no, ho rifiutato di restare ad ascoltare le vostre farneticazioni e le vostre ributtanti, ipocrite suppliche. Sono io il primo interessato. Sono io il più coinvolto e offeso. Sono io il fratello di Thor. E questa volta la rivincita me la prenderò.

Non mi sono sforzato nemmeno di trattenere un vile disprezzo nello sguardo che vi ho rivolto, tanta era la mia amarezza. Le mie parole sono state scorrevoli, per nulla timorose. Le ho affermate e confermate così come mi scorrevano nei pensieri caotici. Non c’è nessuno, davvero nessuno, che possa amare Thor più di me. Potrete averla vinta su molte altre cose che lo riguardano, ma mai su questa. Io amo Thor più di chiunque di voi e proprio per questo so riconoscere la giustizia, seppur casuale e per nulla meditata, degli ultimi eventi. Thor è bandito. Asgard sull’orlo di una guerra. E voi siete qui a piagnucolare sul vostro compagno di trastulli scomparso. È di questo che ha bisogno il nostro regno? Di un re arrogante, sconsiderato e imprudente?

È così grande la tua ombra, Thor, da offuscarmi con la sua grandezza anche quando non sei più qui? Io che non so più neanche chi sono né cosa stia accadendo. Io che ho provato il vero terrore alla visione del mio braccio che mutava e mi rivelava qualcosa di ingiusto e terribile che si nasconde dentro me. Neanche in un simile frangente riuscirai a concedermi un poco di spazio e di attenzione? Neanche da quel luogo lontano nel quale adesso ti trovi?

Mi concentro nuovamente sulla sala, sul luogo nel quale mi trovo. Il solenne silenzio di quel luogo è adesso spezzato unicamente dal mio respiro concitato. I miei passi riecheggiano sempre più lievi all’interno di quelle mura. Sono sempre più vicino all’oggetto di mio interesse. L’arma di Jotun è senza dubbio un oggetto assai affascinante. Riesco a percepire le gelide vibrazioni che si propagano dal suo interno in vortici cerulei. Sono a pochi passi da quella reliquia maledetta e già avverto l’angoscia sostituirsi alla rabbia. È così. Ho paura. Temo questo momento come mai nient’altro prima. È un terrore paragonabile solo al triste evento che su Jotunheim ha destato i miei timori e sospetti. Sono qui, di fronte alla reliquia più potente e pericolosa della grande sala. I ricordi così recenti di quegli insolenti lamentosi sono già lontani. Non c’è altro spazio nella mia mente, adesso, che non sia completamente riservato a questo istante. Continuo ad avere paura e anche le mie braccia non riescono a trattenere un lieve tremore nell’avvicinarsi a quell’oggetto che desidero ma che allo stesso modo respingo. Lo desidero in quanto so che potrà assicurarmi la risposta ad una domanda che pesa quanto lo spessore del cielo sulle mie spalle; e pure lo respingo perché so bene che una parte di me vorrebbe ignorare l’accaduto e continuare a vivere nel guscio caldo e ben protetto della negazione. Ma sono consapevole che il dubbio mi consumerebbe. Lentamente. Inesorabilmente. Riducendo la mia vita ad un cumulo di menzogne malcelate.

Sollevo la reliquia dalla forma rettangolare. È pesante. È fredda. Sento il suo potere scorrere minaccioso attraverso i nervi delle mie dita. Il respiro accelera facendosi irregolare, mentre i miei occhi osservano sconvolti e abbattuti l’esito di quel contatto: le mie mani stanno mutando di nuovo. Ancora una volta quella tinta color blu dell’acciaio si impossessa della mia pelle, del mio corpo. La vedo scorrere come se non avesse mai incontrato una superficie più familiare; come se stesse rivelando la natura di qualcosa che è sempre stato. Mi sfugge un lamento, forse per via del colpo troppo duro da dover incassare. Tutto sembra amplificarsi dentro di me e intorno a me: il tempo che scorre, le sensazioni, il freddo pungente. Sento gli occhi appesantirsi e bruciare simili a dei fuochi nelle orbite, mentre quel coagulo di rabbia e disperazione si scioglie come neve al sole nel mio animo e facilita la liberazione e conseguente circolazione di quegli stessi sentimenti in tutto il corpo: raggiungono la mia mente, i miei arti, ogni nervo e fibra muscolare.

Tutto quel peso. Adesso riconosco in ogni singolo grammo di quel fardello doloroso la sua causa; è proprio lì, davanti a me, tra le mie mani ormai glauche. Provo l’impulso di abbandonare quello scrigno dannato e lasciarlo precipitare al suolo, tanto è l’orrore che la scoperta mi provoca. Vorrei solo accasciarmi a terra e gridare la mia pena, stringere gli occhi per celarmi al mostro nel quale mi sono mutato, irriconoscibile come un estraneo. Ma una voce potente e imperiosa mi fulmina, pietrificandomi.

Sei tu padre. Davvero ottimo. Nessuna entrata in scena potrebbe essere stata più puntuale. Gli occhi continuano a bruciare, e penso in quel momento che sia davvero ironico il tuo ordine di fermarmi. Come se ci fosse ancora qualche possibilità di spiegare o, peggio, di illudermi. Come se potessi impedire la mia personale agnizione. Se non mi trovassi sul baratro della disperazione, perduto all’interno di un dolore che si fa sempre più acuto e insostenibile, probabilmente sorriderei di questo tuo infantile tentativo. Penso di non essere dell’umore giusto per tergiversare sulla vicenda, e pertanto mi permetto di essere diretto con te, padre. Dimmi, ora, sono forse maledetto? I Giganti hanno forse avuto occasione nel passato di imporre su di me un qualche sigillo malefico? Attendo con penosa pazienza una risposta che già conosco. È ovvio che non sia così. E allora, padre degli dei, dimmi tu che cosa sono.

La mia voce trema, è evidente, ma nell’attesa di una seconda risposta da parte tua le mie mani si muovono da sole verso il basso, andando a riporre al proprio posto la madre della mia identità finalmente svelata. Il mio corpo ha infine manifestato la propria vera natura: non sono solo le mie braccia ad essere tramutate. Mentre mi rendo conto di questo, con estrema amarezza, le mie orecchie percepiscono le tue parole. Incaute, oserei dire, visto che mosso dallo sdegno mi volgo adesso verso di te, completo nella trasformazione di quel che sono veramente, e immagino che tu possa assaporare l’imbarazzo e l’importunità delle tue stesse parole. Osservami padre. Osservami bene e ripetimi ancora una volta che io sarei tuo figlio.

Non farmi questo. Non oltre. Parlami attraverso la verità e non sfruttando una pietà filiale che nemmeno si allaccia ad un illusorio legame di sangue. Chi sono realmente? Cosa più di tuo figlio?

È una strana sensazione quella che mi attraversa quando sento sciogliersi a poco a poco la magia dal mio corpo: il mio colorito torna alla tonalità che sono stato abituato a riconoscere come naturale. Sembra evidente che la mia vera identità venga rivelata solo a contatto con lo scrigno. Mi sento imprigionato in un involucro che non mi appartiene e che avverto improvvisamente come estraneo, mentre quello che si cela al di là di esso, la mia vera sostanza e natura, mi sconvolge e mi ripugna. Avanzo col petto gonfio di una rabbia crescente; crescente quanto la consapevolezza sempre più matura di quale sia l’inganno che mi ha accompagnato per tutti questi lunghi anni. Sto fulmineamente unendo quei tasselli del puzzle che avevo lasciato in sospeso. Adesso il quadro è completo ai miei occhi. La mia mente è lucida, per quanto distrutta. Cerco solo delle conferme, delle spiegazioni. O forse desidero solo che tu, padre, abbia il coraggio di confessarmi le tue colpe guardandomi negli occhi. Esigo di ascoltare quelle parole dalle sue labbra allo stesso modo in cui vorrei invece sottrarmi alla loro enunciazione. Mi ferirà, anche più di quanto non abbia fatto la rivelazione dello scrigno, ma il mio animo già turpemente offeso lo pretende con risolutezza. Come io ho affrontato il dolore amaro della verità, adesso anche tu, Odino, affronta l’indignazione di un figlio che hai tradito e umiliato.

Nonostante la pressante carica emotiva che si tinge e si accresce dei sentimenti più diversi e intensi dentro di me, avanzo con lentezza. Per quanto i miei occhi possano inumidirsi e la mia voce cedere, sono qui presente di fronte a te e ti domando di quel giorno; quello in cui la tua gloriosa vittoria, narrata negli anni dell’infanzia come favola della buonanotte, deve aver originato il nostro incontro. Non è forse così? Il tuo racconto che inizia a scorrere leggero, come olio caldo sulla pelle, mi magnetizza completamente. Sento nelle orecchie i battiti pesanti del mio cuore che aumentano ancora. Pendo dalle tue labbra come un bambino inerme ed incapace. Mi sento privo di difese a sentirti narrare i fili di una vicenda che mai avrei potuto controllare, tantomeno impedire. Ma devo sapere. Devo ascoltare.

Mai avrei potuto immaginare che una verità tanto ignobile potesse nascondere un’origine ancora più vergognosa. È così? È davvero così? Laufey. Quel mostro; il capo di quella razza di mostri indegni che mi è stato insegnato a combattere e ad odiare? Le mie origini giacciono in un simile putridume? Il colpo è di gran lunga più intenso di quel potessi immaginare; scava a fondo tra i ricordi, le certezze, gli affetti, macchiandoli di un disprezzo livido e irrazionale. Cerco di ripetere quelle tue ultime parole, perdendomi con lo sguardo tra le mura della sala per riuscire a riunire un coraggio sovrumano che mi consenta di tornare a guardarti negli occhi. Non sono all’altezza della situazione. Non riesco a trattenermi. Il respiro profondo e pesante costringe i miei muscoli tesi a muovere il corpo, nel goffo tentativo di non cedere ad un pianto disperato. L’agitazione mi spinge a delle leggere convulsioni delle braccia, del capo, delle mani, delle spalle; tutto il mio corpo è affaticato e appesantito da sentimenti troppo contrastanti e opprimenti. Mi sento perduto e senza speranza, ma rifuggo l’idea di salvare me stesso e te, padre, da un confronto che merita di essere centellinato fino all’ultima goccia. L’unica domanda che in quel breve momento di ritrovata integrità mi sorge e mi batte nella mente come un martello è: perché?

Perché avresti fatto una scelta del genere? Avevi gloriosamente concluso la tua battaglia, sconfitto gli Jotun, perché raccogliermi? Perché me, il figlio di Laufey, il capo di quella razza vinta? Sei sempre stato un uomo nobile, ma non un sentimentale. Dimmi perché dunque. Dimmi il motivo per il quale io sono ancora in vita oggi. Il motivo per cui sono qui, adesso, vacillante di fronte ai tuoi occhi nel domandarti chi sono e nello scoprire che non appartengo più al mondo che conosco e che amo. Non tentare di ingannarmi padre. E non pensare di potermi raggirare solo perché i miei occhi piangono. Dimmelo. Dimmi la verità, tutta la verità. Feriscimi ancora un po’, quel tanto che rimane; è ciò che desidero. Colpiscimi un’ultima volta con le tue parole. Finiscimi pure. Ma non perpetuare la menzogna. Abbi pietà del mio dolore e rispettalo con la verità che mi devi, che mi spetta. Il tuo silenzio è così tagliente che d’istinto grido contro di te, scongiurandoti di parlare. Voglio sapere cosa pensava la tua mente ogni singolo istante in cui i tuoi occhi si sono poggiati su di me, per tutta questa mia vita. Quali pensieri e quali rimorsi ti hanno guidato nel crescermi. Devo sapere.

Il tono che accompagna le tue parole, finalmente pronunciate, assomiglia a quello di un bambino che cerca di giustificare il proprio errore. Percepisco un dispiacere che sembra sincero, accompagnato da un’amarezza infantile e ingenua mentre mi confessi che il motivo per il quale io sono ancora in vita è che rappresento un prezioso quanto utile vessillo. Un mezzo, un simbolo, o forse meglio, un’efficiente permuta per garantire una pace e una stabilità felice e duratura.

Questa, dunque, la mia natura. Sono un mancato anello di riconciliazione tra due regni. Un’altra delle tante reliquie che circondano queste pareti mute e sorde, uniche testimoni del nostro confronto. A lungo riesco solo ad ascoltarti, perché dalle mie labbra non riesco a sussurrare alcun suono, né lamento. Avverto distintamente spezzarsi qualcosa dentro me, ben più in profondità delle mie vesti; è un male interno e acuto, che sembra quasi avere un suono. Un sibilo distratto che si alterna al silenzio composto di nuove lacrime che si addensano nei miei occhi. Tu dici che quei piani non hanno più importanza, e allora perché, mi domando, non mi hai mai confessato le mie origini? Perché mai, se il mio ruolo non sarebbe più stato quello della preziosa reliquia, ignara poiché alimentata dall’oscurità dell’inganno? In verità pensavi potessi tornarti ancora utile un giorno, non è vero? In quel caso allora sarebbe stato molto meglio non rendermi consapevole di chi veramente fossi. Sarebbe stato più sicuro, più facile. Io che ti ho creduto e chiamato padre così a lungo.

O forse no. Magari è più probabile che tu ti vergognassi. Anzi, chi non si vergognerebbe, padre degli dei, ad avere così vicino alla propria intimità famigliare un simile mostro, un gigante mancato, o anzi: un bastardo. Mi hai voluto tuo figlio ma non hai avuto nemmeno il coraggio di rivelare al tuo regno, e tantomeno ai tuoi cari, chi veramente fossi. Tu provi vergogna e disprezzo per quello che in realtà sono, non è vero? Lo comprendo dal peso del tuo sguardo. Hai nascosto la mia identità al mondo e a me stesso perché anche tu, per quanto dica di amarmi, hai paura di me. Anche ai tuoi occhi risulto una mostruosità dalla quale stare lontani, di quelle che non fanno dormire sonni sicuri e sereni ai figli del tuo popolo. Non è forse così, Odino?

La massa dei pensieri che si affollano e scontrano nella mia mente mi fa perdere il senno. Sento crescere un moto di repulsione violenta per quello che ho voluto ascoltare e che, di conseguenza, ho compreso di essere; è stata una confessione silenziosa, padre, ma so che anche ai tuoi occhi io non sono nulla più che un infelice ripiego. Perché, perché non me lo hai detto dal principio? Perché la tua crudeltà si è spinta così oltre? La mia pena sarebbe stata indubbiamente mitigata rispetto a questo momento. E non dirmi che sto fraintendendo adesso. Non cercare di farmi credere che non sia così. La realtà che sto osservando e comprendendo a mie spese non comprende nulla che potrei deformare. È integra e cristallina nella sua atrocità e crudeltà. Tu parli di avermi voluto proteggere dalla verità, ma non c’è niente che adesso mi salvi da questo abisso senza appigli nel quale mi stai gettando. Tutto torna, padre. Tutto ha senso adesso. Per quanta rabbia e dolore io provi riesco ancora a unire i miei pensieri in un filo sensato. Le immagini sovrapposte prendono forma e assumono corrispondenze. Ora capisco. Adesso è chiaro perché in tutti questi anni tu abbia sempre preferito Thor. Tuo figlio. Il tuo unico figlio. Quello che sono stato abituato a chiamare fratello.

La consapevolezza è tale e profonda che mi percuote profondamente, interiormente, facendo rigare i miei zigomi con altre scie umide e salate. È come se l’intero palazzo mi stesse crollando addosso: sento massi pesanti frantumarsi su una distesa arida e desolata che rappresenta ora il mio spirito. Enormi crepe si aprono e si iniettano di un fluido melmoso e scuro che sgorga; zampilla come un’arteria recisa, perdendo forza ad ogni pulsazione del cuore che viene meno. Finché esso smette di battere. Tutto è chiaro adesso. Tutto ha senso. Sono consapevole, nel dolore, del quadro che era sempre sfuggito alla superficialità del mio sguardo inconsapevole.

Tutti i miei sospetti, tutte le mie illazioni e congetture, tutte le mie invidie inespresse: tutto questo aveva un fondamento; un origine viva e fervida.

Mi muovo verso di te, Odino, mentre a denti stretti le mie parole taglienti continuano a sferzare colpi impietosi. La mia ira è inflessibile e in questo momento sei la figura nella quale riconosco tutte le mie pene e sofferenze. Continua a martellarmi nella mente la domanda che mi ha accompagnato finora, per tutta la mia vita: perché? Nonostante io abbia già ricevuto spiegazioni più che esaurienti, continuo a sentirla gridare nello sterno, incontentabile, che batte i pugni furiosa. E la verità, purtroppo, è che non so cos’altro aggiungere per poterla calmare e soddisfare. Probabilmente, è perché non ho una risposta che possa assicurare pace al mio animo infranto. Perciò continuo. Insisto nel salire verso di te per raggiungerti, gridandoti contro tutta la mia disperazione. Ti accuso delle tue colpe e dei tuoi sentimenti mai veramente nutriti nei miei confronti. È così. Non c’è mai stato spazio per me in questo mondo. Se non come veicolo per uno scopo più grande, più nobile. Per qualcosa di molto più di me. Non sono stato all’altezza nemmeno di questo dunque, padre? Vorrei gridare ancora più forte, rigettare su di te ogni singolo pensiero che mi fulmina la mente in questi infiniti secondi, porti ancora nuove accuse, altre domande, svuotarmi di ogni mio sopito risentimento, di ogni mia remora celata; ma sono così distrutto e accecato che neanche mi rendo conto che la tua figura si sta restringendo. Sembri raccoglierti sulla pietra dei gradini affaticato, appesantito. Non smetto di inveire nemmeno nell’istante in cui i miei occhi realizzano: sei seduto adesso, il tuo occhio è socchiuso e opaco, mentre una tua mano cerca di sfiorarmi. Vi riesci, ma nel momento in cui il nostro contatto si realizza ti osservo cedere all’indietro con la schiena; adesso reclino, la tua mano scivola via dal mio ginocchio, finendo a terra come un corpo morto. È in quel momento che concludo il mio sfogo cieco e violento.

Il mio torace si amplia e restringe seguendo il respiro intenso che accompagna il mio sguardo perso su di te: la tua figura è immobile, contratta, rigida. Mi ci vogliono diversi secondi, tra i più lunghi della mia vita, per comprendere appieno che sei privo di conoscenza, come rapito da un sonno troppo potente perché io possa riportarti qui da me. I miei occhi fuggono veloci da un’angolazione all’altra, cercando di capire cosa succede, cosa fare. Mi chino su di te lentamente, terrorizzato all’idea di non sapere come comportarmi. Allungo con cautela una mano verso te; alla rabbia furiosa di poco prima si sta sovrapponendo la disperazione dell’impotenza e il gusto amaro della debolezza. Le mie dita continuano a viaggiare verso la tua mano reclina e immobile, mentre lungo quel breve tragitto il mio senno ormai saturo elabora un pensiero che mi sconforta; ho la sensazione lancinante di aver perso tutto ciò che avevo in pochi minuti: la mia identità, le mie certezze, i miei affetti, il mio posto nel mondo, forse anche te padre, non capisco. Ogni lieve sprazzo di felicità che ricordo di aver avuto in questa mia vita mi appare adesso vano e privo di significato, nonché perduto. Del tutto.

Arrivo a sfiorare la pelle insolitamente pallida della tua mano. Perché sei così freddo? Mi hai privato con poche parole di tutta un’esistenza, vuoi forse privarmi anche di te adesso? Te ne prego, apri gli occhi. Svegliati padre. Ho bisogno di te adesso. Vorrei parlarti ancora, chiederti così tante cose. Aiutami, te ne supplico. Non lasciarmi così. Non proprio adesso. Non rendermi più solo di quanto già non sia. È forse colpa mia anche questa? Ti ho ferito, padre? Ti ho fatto del male?

È tanto ironico quanto odioso che ora, davanti alla vista del tuo corpo immobile e disteso, non riesca più ad alimentare quella carica d’odio che fino a pochi istanti prima mi avrebbe guidato nel più cieco disprezzo verso te e verso tutto quello che Asgard rappresenta. E invece riesco a malapena a trattenere altre lacrime all’idea della tua perdita.

La mia mano si ritrae celere, come scottata, solo al pensiero di una simile possibilità. Incapace di qualunque elaborazione razionale o azione, e ormai senza più forze, posso solo gridare aiuto; chiamo le guardie, fortemente, scongiurandole di raggiungermi e di prestarti soccorso. Non avrei saputo cos’altro fare. Sono spiazzato e completamente distrutto, animo e corpo. Posso solo limitarmi ad accostarmi da un lato e ad osservarti mentre ti soccorrono, ti assistono, ti portano al sicuro. Tutti i suoni che mi circondano si allontanano, lontani, finendo ovattati in un angolo isolato della mente. I miei occhi si infiammano ancora e si muovono insicuri lungo le pareti della sala; la luce fioca delle torce contribuisce ad accrescere la distanza che si interpone tra me e il resto. Non c’è un solo muscolo del corpo che non mi dolga, e nemmeno un solo pensiero che impedisca al mio cuore di continuare a sanguinare violentemente. Sono qui in piedi e riesco a darti solo un ultimo sguardo prima che le guardie ti trasportino via. Ma non riesco a seguirti. Rimango immobile, senza riuscire a muovere un arto. Sto tentando di rimettere insieme i pezzi di me stesso sparsi ora intorno ai miei piedi. Mi sembrano così tanti che dubito riuscirò a ricomporli in una figura solida e integra. A dire il vero, ho la sensazione di aver perso qualcosa di essenziale che non credo riuscirò mai a recuperare. Mi è stato strappato via come un dente e gettato chissà dove. In un luogo sconosciuto, che sicuramente non potrò raggiungere.

Sono ancora qui. Ancora immobile. Ancora in silenzio. I miei tentativi di arrestare quelle gocce che mi scottano il viso sono sempre meno efficaci; così come cercare di trattenere un’angoscia e uno sconforto infinitamente più grandi di me sono ormai del tutto vani, superflui. Sono solo. Solo con la mia nuova identità. Indifeso come un bambino lasciato solo a perire. Piego il mio corpo in una posa che ricorda quella fetale, cercando un tepore del quale non ricordo più neanche la piacevole sensazione. Le mie spalle si stringono mentre le ginocchia cedono al peso della sofferenza. Nessuno nelle vicinanze. Non un suono che vibri tra quelle mura. Solo dei timidi e soffocati singulti che di tanto in tanto si uniscono allo scoppiettio dei bracieri che ardono ancora e ancora, senza fine, come un pianto inconsolabile, diffondendo nell’aria un odore di incenso che ormai non riconosco più.

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Thor / Vai alla pagina dell'autore: unknown_girl