- Roots -
Il silenzio che cela la vasta sala
delle reliquie è spettrale. Riesco ad avvertire la solennità di quel luogo
nella stessa aria che respiro. Pensavo che avrei varcato quella soglia con un
passo lento e composto, se non addirittura esitante; e invece avanzo senza
riuscire a occultare la rabbia e la disperazione che mi permeano ogni fibra
muscolare. L’ultimo incontro che ho avuto è stato davvero sgradevole e certo
non ha bendisposto il mio umore e stato d’animo ad un momento delicato quanto
vitale per comprendere quale intrigo mi circonda. Quale mistero.
Thor, Thor, Thor e ancora Thor. Ci
fosse stato piuttosto anche un solo grazie
che io abbia sentito giungere alle mie orecchie. Per me. Per quello che ho
fatto. Io ho avvertito la guardia. Io ho salvato le loro inutili e
patetiche vite. Non era forse abbastanza? O magari non sono sufficientemente
degno del loro rispetto, della loro gratitudine. L’unica moneta con la quale mi
hanno ripagato è stata delusione, prima, e pretensione, dopo. Dai loro occhi
sgorgava meraviglia, e lo posso comprendere, ma i loro sguardi erano smarriti e
in balia di una malcelata ripugnanza nei miei confronti. Con una sola occhiata
si sono dichiarati traditi senza che io abbia fatto niente per rendermene
colpevole. Non comprendono, gli stolti, che sarebbero già morti e sepolti se
non avessi confessato ad alcuno il nostro folle progetto escursionistico. Le
loro menti ottuse sono come isolate in una demenza che le rende capaci
unicamente di piagnucolare quel nome,
come un cane che guaisce al padrone in cerca di attenzioni. È così rivoltante
da provocarmi un nodo allo stomaco.
Ma certo. Ho riconosciuto quello
sguardo, giovane Sif. Lo so bene cosa stavi insinuando. Come se avessi davvero
potuto prevedere una cosa del genere. Dovrei essere davvero un maestro
formidabile per essere riuscito ad architettare così bene ogni più piccolo
dettaglio e a utilizzare tutta la mia magia per spingere il cuore di mio padre
a bandire Thor scagliandolo così lontano. Che brava, Sif. La tua presunzione
non conosce confini. Se penso che col mio atto di generosa lungimiranza ho
contributo a salvare anche la tua, di vita, mi scuote la collera. Ma non una
parola. Né una parola gentile da parte
tua o di altri, né una parola di rabbia da parte mia. Eravamo lì, gli uni di
fronte agli altri, semplicemente a prenderci in giro. Sappiamo tutti quello che
pensate di me così come io di voi. Eppure continuiamo nella pantomima. Nessun
problema. So per certo di poter gestire il gioco molto meglio di voi altri. Ah,
già; peccato che neanche stavolta sia stato io al centro dell’attenzione. Quasi
dimenticavo. L’unica ragione per la quale potresti mai abbassarti a pregarmi,
cara Sif, è per riportare a casa mio fratello. Il tuo amato Thor. Come se tu ne
sapessi qualcosa, poi.
Siete tutti talmente abituati a
convivere con i suoi lati migliori che non sareste nemmeno in grado di
riconoscere i suoi limiti. Ciechi. Miseri individui guidati da menti
altrettanto mediocri. Cosa ne sapete voi dell’affetto? Dell’attaccamento?
Dell’emulazione più sincera e disperata? Chi dite di amare davvero, voi? La
vostra è solo una ridicola preghiera di appagamento con la quale affermate,
attraverso sottile arguzia, una indebita superiorità d’animo e una presunta
unicità di legame con mio fratello. Voi che vi pensate puri e giusti, sorretti
dalla povertà delle vostre conoscenze, provate del meschino diletto ad ergervi
al di sopra di me. Di me che sono da sempre, e forse per sempre, un uomo invisibile.
Surclassato, escluso, umiliato, ostracizzato e infine addirittura ignorato.
Come uno spettro molesto. Avete sempre saputo che essere cari a Thor avrebbe
significato congiungere con una linea, anche solo incidentale, le nostre
strade. Ma lo avete accettato con le vostre regole, i vostri schemi. E devo
dire che avete dimostrato grandi abilità: siete riusciti a farmi sentire solo
anche se in gruppo; a farmi sentire un estraneo anche se in un'unica famiglia;
a farmi sentire da meno anche se tutti alla pari. Per questo no, ho rifiutato
di restare ad ascoltare le vostre farneticazioni e le vostre ributtanti,
ipocrite suppliche. Sono io il primo
interessato. Sono io il più coinvolto
e offeso. Sono io il fratello di
Thor. E questa volta la rivincita me la prenderò.
Non mi sono sforzato nemmeno di
trattenere un vile disprezzo nello sguardo che vi ho rivolto, tanta era la mia
amarezza. Le mie parole sono state scorrevoli, per nulla timorose. Le ho
affermate e confermate così come mi scorrevano nei pensieri caotici. Non c’è
nessuno, davvero nessuno, che possa amare Thor più di me. Potrete averla vinta
su molte altre cose che lo riguardano, ma mai su questa. Io amo Thor più di
chiunque di voi e proprio per questo so riconoscere la giustizia, seppur
casuale e per nulla meditata, degli ultimi eventi. Thor è bandito. Asgard
sull’orlo di una guerra. E voi siete qui a piagnucolare sul vostro compagno di
trastulli scomparso. È di questo che ha bisogno il nostro regno? Di un re
arrogante, sconsiderato e imprudente?
È così grande la tua ombra, Thor, da
offuscarmi con la sua grandezza anche quando non sei più qui? Io che non so più
neanche chi sono né cosa stia accadendo. Io che ho provato il vero terrore alla
visione del mio braccio che mutava e mi rivelava qualcosa di ingiusto e
terribile che si nasconde dentro me. Neanche in un simile frangente riuscirai a
concedermi un poco di spazio e di attenzione? Neanche da quel luogo lontano nel
quale adesso ti trovi?
Mi concentro nuovamente sulla sala,
sul luogo nel quale mi trovo. Il solenne silenzio di quel luogo è adesso
spezzato unicamente dal mio respiro concitato. I miei passi riecheggiano sempre
più lievi all’interno di quelle mura. Sono sempre più vicino all’oggetto di mio
interesse. L’arma di Jotun è senza dubbio un oggetto assai affascinante. Riesco
a percepire le gelide vibrazioni che si propagano dal suo interno in vortici
cerulei. Sono a pochi passi da quella reliquia maledetta e già avverto
l’angoscia sostituirsi alla rabbia. È così. Ho paura. Temo questo momento come
mai nient’altro prima. È un terrore paragonabile solo al triste evento che su
Jotunheim ha destato i miei timori e sospetti. Sono qui, di fronte alla
reliquia più potente e pericolosa della grande sala. I ricordi così recenti di
quegli insolenti lamentosi sono già lontani. Non c’è altro spazio nella mia
mente, adesso, che non sia completamente riservato a questo istante. Continuo
ad avere paura e anche le mie braccia non riescono a trattenere un lieve
tremore nell’avvicinarsi a quell’oggetto che desidero ma che allo stesso modo
respingo. Lo desidero in quanto so che potrà assicurarmi la risposta ad una
domanda che pesa quanto lo spessore del cielo sulle mie spalle; e pure lo
respingo perché so bene che una parte di me vorrebbe ignorare l’accaduto e
continuare a vivere nel guscio caldo e ben protetto della negazione. Ma sono
consapevole che il dubbio mi consumerebbe. Lentamente. Inesorabilmente.
Riducendo la mia vita ad un cumulo di menzogne malcelate.
Sollevo la reliquia dalla forma
rettangolare. È pesante. È fredda. Sento il suo potere scorrere minaccioso
attraverso i nervi delle mie dita. Il respiro accelera facendosi irregolare,
mentre i miei occhi osservano sconvolti e abbattuti l’esito di quel contatto:
le mie mani stanno mutando di nuovo. Ancora una volta quella tinta color blu
dell’acciaio si impossessa della mia pelle, del mio corpo. La vedo scorrere
come se non avesse mai incontrato una superficie più familiare; come se stesse
rivelando la natura di qualcosa che è sempre stato. Mi sfugge un lamento, forse
per via del colpo troppo duro da dover incassare. Tutto sembra amplificarsi
dentro di me e intorno a me: il tempo che scorre, le sensazioni, il freddo
pungente. Sento gli occhi appesantirsi e bruciare simili a dei fuochi nelle
orbite, mentre quel coagulo di rabbia e disperazione si scioglie come neve al
sole nel mio animo e facilita la liberazione e conseguente circolazione di quegli
stessi sentimenti in tutto il corpo: raggiungono la mia mente, i miei arti,
ogni nervo e fibra muscolare.
Tutto quel peso. Adesso riconosco in
ogni singolo grammo di quel fardello doloroso la sua causa; è proprio lì,
davanti a me, tra le mie mani ormai glauche. Provo l’impulso di abbandonare
quello scrigno dannato e lasciarlo precipitare al suolo, tanto è l’orrore che
la scoperta mi provoca. Vorrei solo accasciarmi a terra e gridare la mia pena,
stringere gli occhi per celarmi al mostro nel quale mi sono mutato,
irriconoscibile come un estraneo. Ma una voce potente e imperiosa mi fulmina,
pietrificandomi.
Sei tu padre. Davvero ottimo.
Nessuna entrata in scena potrebbe essere stata più puntuale. Gli occhi
continuano a bruciare, e penso in quel momento che sia davvero ironico il tuo
ordine di fermarmi. Come se ci fosse ancora qualche possibilità di spiegare o, peggio,
di illudermi. Come se potessi impedire la mia personale agnizione. Se non mi
trovassi sul baratro della disperazione, perduto all’interno di un dolore che
si fa sempre più acuto e insostenibile, probabilmente sorriderei di questo tuo
infantile tentativo. Penso di non essere dell’umore giusto per tergiversare
sulla vicenda, e pertanto mi permetto di essere diretto con te, padre. Dimmi,
ora, sono forse maledetto? I Giganti hanno forse avuto occasione nel passato di
imporre su di me un qualche sigillo malefico? Attendo con penosa pazienza una
risposta che già conosco. È ovvio che non sia così. E allora, padre degli dei,
dimmi tu che cosa sono.
La mia voce trema, è evidente, ma
nell’attesa di una seconda risposta da parte tua le mie mani si muovono da sole
verso il basso, andando a riporre al proprio posto la madre della mia identità
finalmente svelata. Il mio corpo ha infine manifestato la propria vera natura:
non sono solo le mie braccia ad essere tramutate. Mentre mi rendo conto di
questo, con estrema amarezza, le mie orecchie percepiscono le tue parole.
Incaute, oserei dire, visto che mosso dallo sdegno mi volgo adesso verso di te,
completo nella trasformazione di quel che sono veramente, e immagino che tu
possa assaporare l’imbarazzo e l’importunità delle tue stesse parole. Osservami
padre. Osservami bene e ripetimi ancora una volta che io sarei tuo figlio.
Non farmi questo. Non oltre. Parlami
attraverso la verità e non sfruttando una pietà filiale che nemmeno si allaccia
ad un illusorio legame di sangue. Chi sono realmente?
Cosa più di tuo figlio?
È una strana sensazione quella che
mi attraversa quando sento sciogliersi a poco a poco la magia dal mio corpo: il
mio colorito torna alla tonalità che sono stato abituato a riconoscere come
naturale. Sembra evidente che la mia vera identità venga rivelata solo a
contatto con lo scrigno. Mi sento imprigionato in un involucro che non mi
appartiene e che avverto improvvisamente come estraneo, mentre quello che si
cela al di là di esso, la mia vera sostanza e natura, mi sconvolge e mi
ripugna. Avanzo col petto gonfio di una rabbia crescente; crescente quanto la
consapevolezza sempre più matura di quale sia l’inganno che mi ha accompagnato
per tutti questi lunghi anni. Sto fulmineamente unendo quei tasselli del puzzle
che avevo lasciato in sospeso. Adesso il quadro è completo ai miei occhi. La
mia mente è lucida, per quanto distrutta. Cerco solo delle conferme, delle
spiegazioni. O forse desidero solo che tu, padre, abbia il coraggio di
confessarmi le tue colpe guardandomi negli occhi. Esigo di ascoltare quelle
parole dalle sue labbra allo stesso modo in cui vorrei invece sottrarmi alla
loro enunciazione. Mi ferirà, anche più di quanto non abbia fatto la
rivelazione dello scrigno, ma il mio animo già turpemente offeso lo pretende con
risolutezza. Come io ho affrontato il dolore amaro della verità, adesso anche
tu, Odino, affronta l’indignazione di un figlio che hai tradito e umiliato.
Nonostante la pressante carica
emotiva che si tinge e si accresce dei sentimenti più diversi e intensi dentro
di me, avanzo con lentezza. Per quanto i miei occhi possano inumidirsi e la mia
voce cedere, sono qui presente di fronte a te e ti domando di quel giorno; quello
in cui la tua gloriosa vittoria, narrata negli anni dell’infanzia come favola
della buonanotte, deve aver originato il nostro incontro. Non è forse così? Il
tuo racconto che inizia a scorrere leggero, come olio caldo sulla pelle, mi
magnetizza completamente. Sento nelle orecchie i battiti pesanti del mio cuore
che aumentano ancora. Pendo dalle tue labbra come un bambino inerme ed
incapace. Mi sento privo di difese a sentirti narrare i fili di una vicenda che
mai avrei potuto controllare, tantomeno impedire. Ma devo sapere. Devo
ascoltare.
Mai avrei potuto immaginare che una
verità tanto ignobile potesse nascondere un’origine ancora più vergognosa. È
così? È davvero così? Laufey. Quel mostro; il capo di quella razza di mostri
indegni che mi è stato insegnato a combattere e ad odiare? Le mie origini
giacciono in un simile putridume? Il colpo è di gran lunga più intenso di quel
potessi immaginare; scava a fondo tra i ricordi, le certezze, gli affetti,
macchiandoli di un disprezzo livido e irrazionale. Cerco di ripetere quelle tue
ultime parole, perdendomi con lo sguardo tra le mura della sala per riuscire a riunire
un coraggio sovrumano che mi consenta di tornare a guardarti negli occhi. Non
sono all’altezza della situazione. Non riesco a trattenermi. Il respiro
profondo e pesante costringe i miei muscoli tesi a muovere il corpo, nel goffo
tentativo di non cedere ad un pianto disperato. L’agitazione mi spinge a delle
leggere convulsioni delle braccia, del capo, delle mani, delle spalle; tutto il
mio corpo è affaticato e appesantito da sentimenti troppo contrastanti e
opprimenti. Mi sento perduto e senza speranza, ma rifuggo l’idea di salvare me
stesso e te, padre, da un confronto che merita di essere centellinato fino
all’ultima goccia. L’unica domanda che in quel breve momento di ritrovata
integrità mi sorge e mi batte nella mente come un martello è: perché?
Perché avresti fatto una scelta del
genere? Avevi gloriosamente concluso la tua battaglia, sconfitto gli Jotun,
perché raccogliermi? Perché me, il figlio di Laufey, il capo di quella razza
vinta? Sei sempre stato un uomo nobile, ma non un sentimentale. Dimmi perché
dunque. Dimmi il motivo per il quale io sono ancora in vita oggi. Il motivo per
cui sono qui, adesso, vacillante di fronte ai tuoi occhi nel domandarti chi
sono e nello scoprire che non appartengo più al mondo che conosco e che amo.
Non tentare di ingannarmi padre. E non pensare di potermi raggirare solo perché
i miei occhi piangono. Dimmelo. Dimmi la verità, tutta la verità. Feriscimi
ancora un po’, quel tanto che rimane; è ciò che desidero. Colpiscimi un’ultima
volta con le tue parole. Finiscimi pure. Ma non perpetuare la menzogna. Abbi
pietà del mio dolore e rispettalo con la verità che mi devi, che mi spetta. Il
tuo silenzio è così tagliente che d’istinto grido contro di te, scongiurandoti
di parlare. Voglio sapere cosa pensava la tua mente ogni singolo istante in cui
i tuoi occhi si sono poggiati su di me, per tutta questa mia vita. Quali
pensieri e quali rimorsi ti hanno guidato nel crescermi. Devo sapere.
Il tono che accompagna le tue
parole, finalmente pronunciate, assomiglia a quello di un bambino che cerca di
giustificare il proprio errore. Percepisco un dispiacere che sembra sincero,
accompagnato da un’amarezza infantile e ingenua mentre mi confessi che il
motivo per il quale io sono ancora in vita è che rappresento un prezioso quanto
utile vessillo. Un mezzo, un simbolo, o forse meglio, un’efficiente permuta per
garantire una pace e una stabilità felice e duratura.
Questa, dunque, la mia natura. Sono
un mancato anello di riconciliazione tra due regni. Un’altra delle tante
reliquie che circondano queste pareti mute e sorde, uniche testimoni del nostro
confronto. A lungo riesco solo ad ascoltarti, perché dalle mie labbra non
riesco a sussurrare alcun suono, né lamento. Avverto distintamente spezzarsi
qualcosa dentro me, ben più in profondità delle mie vesti; è un male interno e
acuto, che sembra quasi avere un suono. Un sibilo distratto che si alterna al
silenzio composto di nuove lacrime che si addensano nei miei occhi. Tu dici che
quei piani non hanno più importanza, e allora perché, mi domando, non mi hai
mai confessato le mie origini? Perché mai, se il mio ruolo non sarebbe più
stato quello della preziosa reliquia, ignara poiché alimentata dall’oscurità
dell’inganno? In verità pensavi potessi tornarti ancora utile un giorno, non è
vero? In quel caso allora sarebbe stato molto meglio non rendermi consapevole di
chi veramente fossi. Sarebbe stato più sicuro, più facile. Io che ti ho creduto
e chiamato padre così a lungo.
O forse no. Magari è più probabile
che tu ti vergognassi. Anzi, chi non si vergognerebbe, padre degli dei, ad
avere così vicino alla propria intimità famigliare un simile mostro, un gigante
mancato, o anzi: un bastardo. Mi hai voluto tuo figlio ma non hai avuto nemmeno
il coraggio di rivelare al tuo regno, e tantomeno ai tuoi cari, chi veramente
fossi. Tu provi vergogna e disprezzo per quello che in realtà sono, non è vero?
Lo comprendo dal peso del tuo sguardo. Hai nascosto la mia identità al mondo e
a me stesso perché anche tu, per quanto dica di amarmi, hai paura di me. Anche
ai tuoi occhi risulto una mostruosità dalla quale stare lontani, di quelle che
non fanno dormire sonni sicuri e sereni ai figli del tuo popolo. Non è forse
così, Odino?
La massa dei pensieri che si
affollano e scontrano nella mia mente mi fa perdere il senno. Sento crescere un
moto di repulsione violenta per quello che ho voluto ascoltare e che, di
conseguenza, ho compreso di essere; è stata una confessione silenziosa, padre,
ma so che anche ai tuoi occhi io non sono nulla più che un infelice ripiego.
Perché, perché non me lo hai detto dal principio? Perché la tua crudeltà si è
spinta così oltre? La mia pena sarebbe stata indubbiamente mitigata rispetto a
questo momento. E non dirmi che sto fraintendendo adesso. Non cercare di farmi
credere che non sia così. La realtà che sto osservando e comprendendo a mie
spese non comprende nulla che potrei deformare. È integra e cristallina nella
sua atrocità e crudeltà. Tu parli di avermi voluto proteggere dalla verità, ma
non c’è niente che adesso mi salvi da questo abisso senza appigli nel quale mi
stai gettando. Tutto torna, padre. Tutto ha senso adesso. Per quanta rabbia e
dolore io provi riesco ancora a unire i miei pensieri in un filo sensato. Le
immagini sovrapposte prendono forma e assumono corrispondenze. Ora capisco.
Adesso è chiaro perché in tutti questi anni tu abbia sempre preferito Thor. Tuo
figlio. Il tuo unico figlio. Quello che sono stato abituato a chiamare
fratello.
La consapevolezza è tale e profonda
che mi percuote profondamente, interiormente, facendo rigare i miei zigomi con
altre scie umide e salate. È come se l’intero palazzo mi stesse crollando
addosso: sento massi pesanti frantumarsi su una distesa arida e desolata che
rappresenta ora il mio spirito. Enormi crepe si aprono e si iniettano di un
fluido melmoso e scuro che sgorga; zampilla come un’arteria recisa, perdendo
forza ad ogni pulsazione del cuore che viene meno. Finché esso smette di
battere. Tutto è chiaro adesso. Tutto ha senso. Sono consapevole, nel dolore,
del quadro che era sempre sfuggito alla superficialità del mio sguardo
inconsapevole.
Tutti i miei sospetti, tutte le mie
illazioni e congetture, tutte le mie invidie inespresse: tutto questo aveva un
fondamento; un origine viva e fervida.
Mi muovo verso di te, Odino, mentre
a denti stretti le mie parole taglienti continuano a sferzare colpi impietosi.
La mia ira è inflessibile e in questo momento sei la figura nella quale
riconosco tutte le mie pene e sofferenze. Continua a martellarmi nella mente la
domanda che mi ha accompagnato finora, per tutta la mia vita: perché?
Nonostante io abbia già ricevuto spiegazioni più che esaurienti, continuo a
sentirla gridare nello sterno, incontentabile, che batte i pugni furiosa. E la
verità, purtroppo, è che non so cos’altro aggiungere per poterla calmare e
soddisfare. Probabilmente, è perché non ho una risposta che possa assicurare pace
al mio animo infranto. Perciò continuo. Insisto nel salire verso di te per raggiungerti,
gridandoti contro tutta la mia disperazione. Ti accuso delle tue colpe e dei
tuoi sentimenti mai veramente nutriti nei miei confronti. È così. Non c’è mai
stato spazio per me in questo mondo. Se non come veicolo per uno scopo più
grande, più nobile. Per qualcosa di molto più di me. Non sono stato all’altezza
nemmeno di questo dunque, padre? Vorrei gridare ancora più forte, rigettare su
di te ogni singolo pensiero che mi fulmina la mente in questi infiniti secondi,
porti ancora nuove accuse, altre domande, svuotarmi di ogni mio sopito
risentimento, di ogni mia remora celata; ma sono così distrutto e accecato che
neanche mi rendo conto che la tua figura si sta restringendo. Sembri raccoglierti
sulla pietra dei gradini affaticato, appesantito. Non smetto di inveire nemmeno
nell’istante in cui i miei occhi realizzano: sei seduto adesso, il tuo occhio è
socchiuso e opaco, mentre una tua mano cerca di sfiorarmi. Vi riesci, ma nel
momento in cui il nostro contatto si realizza ti osservo cedere all’indietro
con la schiena; adesso reclino, la tua mano scivola via dal mio ginocchio,
finendo a terra come un corpo morto. È in quel momento che concludo il mio
sfogo cieco e violento.
Il mio torace si amplia e restringe
seguendo il respiro intenso che accompagna il mio sguardo perso su di te: la
tua figura è immobile, contratta, rigida. Mi ci vogliono diversi secondi, tra i
più lunghi della mia vita, per comprendere appieno che sei privo di conoscenza,
come rapito da un sonno troppo potente perché io possa riportarti qui da me. I
miei occhi fuggono veloci da un’angolazione all’altra, cercando di capire cosa
succede, cosa fare. Mi chino su di te lentamente, terrorizzato all’idea di non sapere
come comportarmi. Allungo con cautela una mano verso te; alla rabbia furiosa di
poco prima si sta sovrapponendo la disperazione dell’impotenza e il gusto amaro
della debolezza. Le mie dita continuano a viaggiare verso la tua mano reclina e
immobile, mentre lungo quel breve tragitto il mio senno ormai saturo elabora un
pensiero che mi sconforta; ho la sensazione lancinante di aver perso tutto ciò
che avevo in pochi minuti: la mia identità, le mie certezze, i miei affetti, il
mio posto nel mondo, forse anche te padre, non capisco. Ogni lieve sprazzo di
felicità che ricordo di aver avuto in questa mia vita mi appare adesso vano e
privo di significato, nonché perduto. Del tutto.
Arrivo a sfiorare la pelle
insolitamente pallida della tua mano. Perché sei così freddo? Mi hai privato
con poche parole di tutta un’esistenza, vuoi forse privarmi anche di te adesso?
Te ne prego, apri gli occhi. Svegliati padre. Ho bisogno di te adesso. Vorrei
parlarti ancora, chiederti così tante cose. Aiutami, te ne supplico. Non
lasciarmi così. Non proprio adesso. Non rendermi più solo di quanto già non
sia. È forse colpa mia anche questa? Ti ho ferito, padre? Ti ho fatto del male?
È tanto ironico quanto odioso che
ora, davanti alla vista del tuo corpo immobile e disteso, non riesca più ad
alimentare quella carica d’odio che fino a pochi istanti prima mi avrebbe
guidato nel più cieco disprezzo verso te e verso tutto quello che Asgard
rappresenta. E invece riesco a malapena a trattenere altre lacrime all’idea
della tua perdita.
La mia mano si ritrae celere, come
scottata, solo al pensiero di una simile possibilità. Incapace di qualunque
elaborazione razionale o azione, e ormai senza più forze, posso solo gridare
aiuto; chiamo le guardie, fortemente, scongiurandole di raggiungermi e di
prestarti soccorso. Non avrei saputo cos’altro fare. Sono spiazzato e
completamente distrutto, animo e corpo. Posso solo limitarmi ad accostarmi da
un lato e ad osservarti mentre ti soccorrono, ti assistono, ti portano al
sicuro. Tutti i suoni che mi circondano si allontanano, lontani, finendo
ovattati in un angolo isolato della mente. I miei occhi si infiammano ancora e
si muovono insicuri lungo le pareti della sala; la luce fioca delle torce contribuisce
ad accrescere la distanza che si interpone tra me e il resto. Non c’è un solo
muscolo del corpo che non mi dolga, e nemmeno un solo pensiero che impedisca al
mio cuore di continuare a sanguinare violentemente. Sono qui in piedi e riesco
a darti solo un ultimo sguardo prima che le guardie ti trasportino via. Ma non
riesco a seguirti. Rimango immobile, senza riuscire a muovere un arto. Sto
tentando di rimettere insieme i pezzi di me stesso sparsi ora intorno ai miei
piedi. Mi sembrano così tanti che dubito riuscirò a ricomporli in una figura
solida e integra. A dire il vero, ho la sensazione di aver perso qualcosa di
essenziale che non credo riuscirò mai a recuperare. Mi è stato strappato via
come un dente e gettato chissà dove. In un luogo sconosciuto, che sicuramente
non potrò raggiungere.
Sono ancora qui. Ancora immobile.
Ancora in silenzio. I miei tentativi di arrestare quelle gocce che mi scottano
il viso sono sempre meno efficaci; così come cercare di trattenere un’angoscia
e uno sconforto infinitamente più grandi di me sono ormai del tutto vani,
superflui. Sono solo. Solo con la mia nuova identità. Indifeso come un bambino
lasciato solo a perire. Piego il mio corpo in una posa che ricorda quella
fetale, cercando un tepore del quale non ricordo più neanche la piacevole
sensazione. Le mie spalle si stringono mentre le ginocchia cedono al peso della
sofferenza. Nessuno nelle vicinanze. Non un suono che vibri tra quelle mura.
Solo dei timidi e soffocati singulti che di tanto in tanto si uniscono allo
scoppiettio dei bracieri che ardono ancora e ancora, senza fine, come un pianto
inconsolabile, diffondendo nell’aria un odore di incenso che ormai non
riconosco più.