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Autore: Iryael    18/08/2012    2 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 02 ]
Divento il leader del Team Darkstar
(Che? Un gladiatore? Figo!)
 
2 Ottobre 5401-PF
Stazione DreadZone, cella 6-538
 
Quando mi svegliai, scoprii di essere di nuovo nella mia branda.
Mi sentivo molto meglio del giorno prima, così decisi di fare qualche passo per la stanza, tanto per provare. Mi resi conto che sembravo nuovo di pacca, e tutto bello contento mi proposi di ringraziare Occhi a Faro per essere tornata ad aiutarmi.
Quando accesi la luce, vidi che la branda sopra la mia era piena. Il mio primo istinto fu quello di far tornare la stanza nella penombra, per non svegliarla, ma mi accorsi che la piccola aveva un occhio aperto e mi fissava, semi-nascosta tra il cuscino e la coperta. Non aveva senso spengere la luce se eravamo entrambi svegli, così mi appoggiai alla sua branda con un mezzo sorriso.
«Ohilà, buongiorno.»
Non l’avessi mai detto!
La bambina schizzò sotto le coperte alla velocità della luce, richiudendosi a mo’ di palla. Non avevo mai visto una reazione del genere ad un buongiorno e...beh, pensai che stesse scherzando. Però quando picchiettai un dito sulla sua spalla sentii che tremava.
Era autentica paura, quella. Mi spiazzò.
«Non ti faccio niente...» dissi, tentando di rassicurarla. «Non sapevo nemmeno che eri sveglia.»
Continuò a tremare, nascosta nel suo bozzolo, come se non mi avesse sentito. Mi venne perfino il dubbio di aver avuto una notte da sonnambulo e che, in un qualche delirio da strizzacervelli, potevo averla spaventata. Daltr’onde: se aveva paura di me qualcosa dovevo aver fatto, no?
«Andiamo...te l’ho detto: non ti faccio niente. Anzi, ti volevo ringraziare per ieri...»
Pian piano, a mo’ di tartaruga, tirò la testa fuori dalla coperta. Non del tutto, ma uscì quel tanto che bastò a lei per guardarmi e a me per vedere una specie di alone viola sulla tempia.
«Aspetta...»
Cercò di infilarsi di nuovo sotto il telo, ma glielo impedii. Allora alzò le mani davanti alla faccia, incassata tra le spalle, gli occhi chiusi come se si aspettasse che la colpissi. Qualche scintilla azzurrina passò tra le dita, ma era debole.
Mi limitai a guardare, senza toccarla. Quando capì che non sarei stato una minaccia, abbassò le braccia e si tirò a sedere.
La guancia, sotto la tempia, era tutta una nuvola. Sulla fronte c’era un cerotto sporco, da cambiare, e gli occhi avevano le borse. Capii che non aveva dormito per niente. E non era finita lì, di sicuro, ma la seconda pelle che indossava, su cui era disegnato una specie di circuito, mi impedì di vedere le sue reali condizioni.
«Cosa ti è successo?»
Il dubbio di essere stato io si fece più profondo, insistente e fastidioso. Inutile dire che sarebbe stata una bella figura di merda scusarsi per qualcosa di cui non ricordavo nulla.
Lei – giusto per complicare le cose – scosse la testa, come a dire che non era niente.
Strinsi le labbra e sospirai. Non era niente, come no. Non poteva davvero sperare che me la bevessi, non stava né in cielo né in terra.
«Senti...» tentai. «Anche se ieri non sono stato un cavaliere, non ho nessuna intenzione di esserti nemico. Anzi...vorrei scusarmi. Ma è che ho i nervi a pezzi e...»
E niente.
Spalancò gli occhi e mi fissò. Per un istante sembrò sfidarmi a proseguire; l’istante dopo era la sorpresa personificata, quello dopo ancora era mentalmente sul chi vive.
Nel mentre che tirò il vambrace fuori dalle coperte mi chiesi se fosse malata di mente. L’universo era pieno di matti, per cui avevo buone possibilità di averne uno davanti.
 
Non si scusi. Non con me. Mai.
 
Alzai un sopracciglio. Non ero famoso per il rispetto dei divieti.
«Non dovrei?» chiesi. Se era matta, era meglio assecondare la sua fantasia. Se non lo era, erano tutte informazioni che entravano nella mia zucca.
 
La puniranno.
 
«Perché?»
 
Io...io...non lo so. È una regola.
 
Mi grattai la testa. Cercavo risposte; invece arrivavano domande.
«Okay, come vuoi.» capitolai. «Però mi dispiace lo stesso per ieri. Anzi, grazie per essere tornata indietro.»
 
Ieri sembrava come tutti gli altri. Ma ho sbagliato io, è colpa mia.
Mi scusi per non aver ricordato subito come si sta coi nanobot appena iniettati.
 
«Che significa che sembravo come tutti gli altri?»
 
Io l’ho studiata in questi giorni, prima che si svegliava e anche tra ieri e oggi. Continuava a dire dei nomi e poi “lasciateli stare”. Per questo mi sono permessa di pensare che...sì, beh, lei non è cattivo. Ieri però...è stato diverso. È diventato come gli altri. Non volevo dire qualcosa di sbagliato, ho avuto paura e sono scappata.
Non dovevo, lo so, mi dispiace davvero. Però sono riuscita a tornare indietro quasi subito. Spero che non ha sentito troppo male, anche dopo che ho usato la siringa...
 
Era un po’ ingenua, ma non mi dispiaceva la sua schiettezza. Ed era strana, ma di certo non pazza (o col cavolo che mi avrebbe fatto un ragionamento del genere).
«Sì beh, puoi lavorare sulla delicatezza, comunque ho apprezzato.»
Mi arrampicai sulla scaletta e mi andai a sedere con aria confidenziale sulla sua branda. Lei si ritrasse contro il muro, scrutando attentamente ogni mia mossa. Era evidente che, nonostante le belle parole, di me non si fidasse affatto.
«Ehi, piano. Non sono cattivo, ricordi? Voglio solo stare più comodo.»
La bambina annuì, però non si mosse dalla sua posizione. Mi ricordò un po’ l’horny toad che avevo addomesticato su Veldin. Non era male...teneva davvero compagnia, solo che era goloso al propellente delle navicelle, e dopo faceva di quelle puzze che c’era da scappare.
Sperai che lei non fosse golosa al propellente, perché era la mia unica fonte di informazioni e dovevo addomesticarla.
«Ti posso parlare liberamente o ci sono altri argomenti che devo saltare?»
La bambina si torse le mani e si guardò tutt’intorno, lasciandomi capire che sì, c’erano altri argomenti che avrei dovuto evitare. Alla fine proiettò:
 
Alcuni. Però lei dica lo stesso. Io risponderò come posso.
 
Beh, se non me li voleva dire subito, ero sicuro che prima o poi sarebbero saltati fuori. Anzi: conoscendomi, potevo garantire che sarebbero arrivati al dunque piuttosto alla svelta.
«Okay. Allora, tanto per cominciare, direi che possiamo presentarci. Io sono Ratchet: meccanico, capitano della Flotta Stellare Unita e, occasionalmente, eroe.»
Mai fatta una presentazione più chiara e concisa di quella. Mi sentii intimamente orgoglioso.
 
È un onore conoscerla. Ho sentito parlare di lei.
 
«E tu sei...?»
 
Ieri ha detto che mi chiamerà TG.
 
Dovevo ammettere che come tentativo di svicolare non era male. Peccato che quel cagasotto di Qwark mi avesse donato un’esperienza impareggiabile circa i modi di scappare. Non aveva possibilità di funzionare.
«Sì, beh, ieri ero anche sfatto. Proprio non vuoi dirmelo il tuo nome?»
Lei denegò.
«C’è un motivo serio per cui non posso saperlo, almeno?»
 
Non è che non voglio; è uno dei punti tabù.
Però non mi offendo: se TG non le piace più scelga pure un altro nome.
 
Ecco il primo argomento da evitare. Se perfino il nome doveva rimanere segreto, però, non riuscivo a immaginare cosa potesse dirmi.
Feci buon viso a cattivo gioco.
«Hai ragione, TG mi sa di robot. Ti chiamerò Lyra, mi piace di più.»
Prima Clank, poi lei. Doveva essere destino che io dessi il nome alla gente. Però, a giudicare dal sorriso timido che le spuntò sulle labbra, potevo scommettere che non le dispiacesse.
 
Sei il primo che mi chiama con un nome vero, sai?
Lyra è molto, molto diverso dal mio nome, però è anche bello. Sa di zucchero.
 
«E adesso che ci siamo presentati vorrei che mi dessi del tu. Non mi piacciono troppo le formalità.»
La piccola sgranò gli occhi.
 
...Posso? Sul serio?
 
«Certo che puoi!»
Ero pronto anche a farmi insultare, pur di capire in che fogna mi trovassi. Beh, più o meno.
 
Hai altre domande?
 
«È abbastanza ovvio.» risposi, prima di indicarla. «Cosa ti è successo?»
Lei si portò immediatamente una mano alla faccia e si tastò la guancia livida.
 
Cercavo qualche informazione su te e i tuoi compagni, ma non sono ancora abbastanza brava col computer dell’ufficio. La guardia mi ha beccato e ho preso la punizione.
 
La sua risposta mi causò un lieve senso di colpa. Se me ne avesse parlato avrei provato a dissuaderla. Per esperienza potevo dire che la sorte di Clank e Al l’avrei saputa comunque, direttamente dalla bocca del nemico. Però mi colpì che si fosse esposta per un perfetto sconosciuto. Io non l’avrei fatto.
«Cosa stavi facendo?»
 
Cercavo di entrare nel database dei concorrenti. Pensavo che se ti dicevo cos’è successo a chi è stato portato qui con te, poi non saresti più impazzito...
 
Viva la sincerità!
«Ma...è così grave quello che hai fatto?»
Annuì guardando altrove, con le orecchie rosse come brace. Giocò nervosamente con una ciocca dei suoi capelli blu notte, e per la prima volta notai quanto fossero lunghi. Praticamente una cascata che ribolliva sulla branda.
Ricominciò a proiettare, ma me ne accorsi solo dopo qualche parola.
 
Però stavolta la guardia era brilla e ci è andata piano. Sono stata fortunata: di solito, quando me le danno, il mattino dopo sono incapace di muovermi.
 
E lo diceva così? Galassia, manco stesse parlando del tempo!
«Ma insomma, non ti senti male? Sei...sei piccola, non ti viene da piangere?»
 
Tanto mi picchiano lo stesso. Anzi, se piango li faccio solo divertire.
E comunque, se piango con la faccia tutta rotta mi fa più male. Ci ho fatto l’abitudine; il mio naso ormai è elastico.
 
Non seppi se quella frase mi scatenò più indignazione o più pietà. Di per certo mi mosse qualcosa dentro, tra cui la domanda Ma che razza di posto è?
 
C’era un monitor nella sala. Era esattamente nell’angolo sopra la porta e sulla schermata si vedeva un logo che girava su se stesso. Era lo stesso che il giorno prima avevo visto sulla tenuta di Lyra: rosso, triangolare, piuttosto bruttino. Senza che facessimo alcunché dalle casse partì una specie di squillo. La mia coinquilina si fece rigida come una lastra di marmo e si rimise giù come se stesse ancora dormendo. La schermata cambiò nel primo piano inquietante di uno slademan.
«Ehilà, cella 6-538. Spero che abbiate dormito bene.»
Non serviva un esperto per capire che quelle parole erano false. Ricambiai: essendo esattamente davanti al suo naso adunco non mi rimaneva che rispondere.
«Se vuoi farlo somigliare al Grand Hotel comincia a mettere i frigobar. Svegliarsi e non poter bere qualcosa di fresco è snervante.»
Lo slademan ridacchiò nervosamente: «Fammi guadagnare palate di bolt e vedrò cosa posso fare.» poi si fece tremendamente serio e alluse alla branda piena: «Tira quel ravatto giù dal letto.»
Sapevo di coprire la visuale del cuscino allo slademan, così finsi di chinarmi per svegliarla.
«È lui che ti spaventa?» sussurrai. Le scrollai una spalla per reggere il gioco. Lei annuì appena; mentre a mezza voce continuavo la recita invitandola a svegliarsi. Poi riabbassai il tono.
«Fingi di svegliarti. Non può farti niente. Andrà tutto bene.»
La vidi mordersi forte un labbro, poi annuì di nuovo. Gli occhi sembravano dire: Ti sbagli. Però si tirò a sedere con le gambe nel vuoto e si strofinò gli occhi.
«Oh, ma bene, la principessina si è svegliata...» ironizzò malevolmente lo slademan. «Todd ti ha trovato a frugare nel database dei concorrenti. Di nuovo.»
Lei denegò lentamente e scese dal letto. Mostrò il vambrace e scrisse:
 
Signore, era importante. Dovevo farlo. Dovevo sapere una cosa...
Per favore, la prego, non si arrabbi...
 
Sembrava che lo stesse pregando con gli occhi.
«No, deduco che ancora una volta tu non abbia capito il concetto. Beh, vorrà dire che sfrutterò l’occasione per spiegare al mio nuovo concorrente alcune regole del dietro le quinte.»
Concorrente? Dietro le quinte?
Smisi di farmi domande quando mi accorsi che la bambina era caduta a peso morto sul pavimento e si stava rotolando, come impazzita, tremando e battendo i pugni a terra. Si dimenava manco avesse le convulsioni: se non fosse stata muta, poco ma sicuro mi avrebbe stordito con gli urli.
Scesi a terra e cercai di fermarla, ma fu inutile. Anzi, fu peggio. Sentii i suoi muscoli tendersi e contrarsi e non potei fare a meno di rievocare com’ero stato io il giorno prima.
Non riuscii a nascondere che quella visione mi mandò nel panico. Non sapevo cosa stava succedendo, e non saperlo mi faceva sentire impotente. Odiosa situazione.
A distrarmi intervenne lo slademan, sebbene non riuscì a farmi voltare verso il video. Tenni gli occhi incollati sulla figura in contorsione, col cervello che girava a mille per cercare una soluzione.
«Mio caro concorrente, ecco le conseguenze per chi infrange le regole. Anche se la marmocchia è un caso speciale, puoi notare che siamo comunque affascinati dalle regole “vecchio stile”. Nel suo caso la cura si chiama cianoxyndaetil-18, ma posso assicurarti che la tua sarebbe quella standard. Giusto una scossetta dal tuo collare deadlock, nulla che non ti possa causare più di una paralisi temporanea.»
Quelle parole però sì che mi fecero voltare. «Cosa?»
Lui mi ignorò bellamente e proseguì: «Sei stato scelto perché questo programma ha bisogno di volti nuovi, ragazzo. Fammi guadagnare soldi a palate e riavrai la tua libertà; fammi arrabbiare sul serio e attivo l’esplosivo del collare. Chiaro e semplice, no?»
In effetti, era a prova di scemo.
«Sono felice che tu abbia accettato la collaborazione. Oggi vedrete i vostri aiutanti, poi vi inseriremo nel calendario di gioco. Tra due settimane comincerete la vostra scalata al successo: se tutto va bene tra un po’ potremo parlare di affari come si conviene. Benvenuto nel mondo dello spettacolo, capitano del Team Darkstar!»
«Aspetta!»
Lo fermai giusto in tempo, perché stava per staccare il collegamento. «Io e chi cominceremo a fare cosa, di preciso?»
Lo slademan ghignò. Mi chiesi dove avevo già visto quel muso inquietante.
«DreadZone è uno show di gladiatori. Proprio come nelle epoche più antiche c’è un imperatore che decide delle vostre vite, che sono io, un pubblico che schiamazza per voi e la vostra libertà in palio. Solo che rivive ai giorni nostri, quindi anziché quelle ridicole lame obsolete avrete a disposizione un arsenale di ottime armi targate Vox Industries, oltre che tutte le degne infrastrutture che abbiamo creato. Per un eroe del tuo calibro sarà come vivere la tua vita di tutti i giorni, credimi. Solo che non sarai da solo, ma avrai lei come spalla.» e indicò la mia coinquilina. Io sgranai gli occhi.
«Ma è una bambina!» protestai. «Non puoi aspettarti che - »
«Chissenefrega, è tutta audience che entra!»
Spense il video, e in contemporanea la bambina smise di comportarsi da pazza convulsionata. La sentii ansimare, mentre cercai di riordinare le idee.
DreadZone. Il nome mi fece tornare alla mente l’ultima conversazione con Sasha, e anche dove avevo già visto il brutto muso dello slademan in rosso. Gleeman Vox, ecco chi era.
Trattenni un’imprecazione a stento, quando sentii tirare la manica. Sullo schermo verdolino della bambina la scritta si resettò.
 
Per favore...mi aiuti a stare su?
 
«Al C-18 però non c’hai fatto l’abitudine, eh?» mi uscì mentre la giravo pancia all’aria. La tirai a sedere per le spalle; lei tossì un paio di volte e sorrise amaramente.
 
Questo fa più male delle botte. Per fortuna solo il direttore può usarlo.
 
«Ce la fai a stare in piedi?»
 
Solo...solo qualche secondo, poi penso di sì.
 
«Credo che dobbiamo ottimizzare il tempo.»
Non potevo sapere quando una cosa del genere sarebbe successa di nuovo, quindi mi passai un braccio della bambina dietro le spalle e la trascinai in piedi, trovandola perfino leggera per la sua stazza. Insomma, le arrivavo agli occhi, eppure potevo scommettere che lei non arrivasse al mio peso.
Guardandomi attorno adocchiai il tavolino. Chiamarlo tavolino era un eufemismo, tanto era piccolo, ma in quel momento non importava. L’accompagnai ad uno degli sgabelli e ce la lasciai sopra. Mentre io mi sedetti sull’altro, lei si riprese un po’.
Mi sentii un po’ in colpa per averle detto che sarebbe andato tutto bene. Non era andato bene niente, invece.
Lei sembrò non farci caso. Si passò una manica sugli occhi, per asciugarli, poi si morse un labbro e proiettò:
 
Senti, il direttore ha detto davvero che gareggio nell’arena? Non me lo sono immaginato?
 
«No, ha detto che io sono un concorrente e tu la mia spalla.»
Studiai la sua reazione: dapprima sbiancò, poi si morse nuovamente il labbro e osservò intensamente la sua mano, finché non riuscì a ricoprirla di piccole scintille elettriche. Chinò la testa e si asciugò nuovamente gli occhi.
 
Ti vogliono proprio morto, allora. Con le armi sono inutile. Con i mezzi tanto tanto, ma con le armi...
Ti sarò solo di peso.
 
Mi guardai nervosamente intorno. Detto con la sicurezza con cui l’aveva detto, quello era decisamente no buono.
E non avevo capito un granché di tutto il circo che avevo intorno.
«Ascolta, dopo questa ho bisogno davvero di capire partendo da zero. Puoi ridirmi dove sono?»
 
Galassia Solana, Settore Ombra, stazione spaziale DreadZone, Padiglione Sei, livello cinque, stanza numero 38. In altre parole: cella di contenimento 6-538.
 
Settore Ombra, bene. Proprio come aveva detto Sasha.
«E sono qui da solo?»
A quella domanda scosse la testa.
 
Due tuoi colleghi sono stati portati qui con te.
 
Mi portai una mano al petto, laddove mi aveva centrato il taser, e risposi amaramente: «Clank e Al. Quindi hanno preso anche loro.»
 
Di solito si procurano tutti i membri necessari per mettere insieme una squadra.
 
«Perché, chi serve?»
 
Due gladiatori (tre se sono due robot e un organico), un navigatore e un tecnico.
 
«E come funzionano i ruoli?»
 
I gladiatori devono combattere nell’arena, che può essere quella della stazione oppure un percorso su qualche pianeta. Il navigatore e il tecnico rimangono sempre su una nave appartata, e hanno un contatto con i gladiatori solo via radio. Il navigatore vede il percorso su una mappa e può descrivere ai gladiatori cosa li aspetta, o può indicargli strade e scorciatoie. Il tecnico invece si occupa dei dati sulle armi e le armature.
Loro due hanno a disposizione un mucchio di radar e tutti i dati inviati dalle armature.
 
«Okay, allora siamo a cavallo.»
Sapere che nessuno dei due avrebbe calcato un campo di battaglia mi rincuorò. Al non era capace, e conoscendolo da così tanto tempo...beh, mi avrebbe fatto ribollire il sangue vederlo in una situazione di fuoco incrociato. Clank, invece...non era per mancanza di fiducia, ma preferivo mille volte di più essere io a combattere, se proprio era necessario. Sapere che avrebbero fatto da supporto mi fece sentire meglio, quasi più sicuro.
«Sono i migliori, vedrai. Sono sicuro che insieme troveremo una soluzione anche al tuo problema di voce. Quei due smanettano peggio di me, magari ti faranno un collare o qualcosa di utile.»
Lei arrossì di nuovo. Decisi di passare oltre: «Piuttosto, di ieri che mi dici?»
Con la domanda sembrò riprendersi, e si affrettò a rispondere:
 
Nanobot.
Normalmente devono curare, ma qui le loro funzioni vengono cambiate. Hai dovuto adattarti, e come hai visto non è stato molto bello. Ma sei stato fortunato: a certa gente ci sono voluti tre o quattro giorni.
 
Grazie al cielo mi erano bastate ventiquattr’ore. Non esagero nel dire che era come avere l’inferno dentro.
«Quindi ora come lavorano?»
 
Quando entri nell'arena vengono fatti diventare dannosi, così che se rimani ferito continui a sanguinare come una fontana. Ritornano normali solo se arrivi alla fine del percorso.
 
«Okay, ci sono.»
Ed ecco che una fetta di dubbi si era dissipata. Per fortuna che Lyra capiva al volo quello che volevo sentire!
A quel punto non mi restava che fare luce sulle parole del direttore e sulla pargola.
«Che mi sai dire del collare?»
 
Ha una funzione punitiva e una esplosiva. Tutti i concorrenti ce l’hanno.
Se non sei un elettrocinetico la funzione punitiva rilascia una scossa paralizzante, mentre quella esplosiva viene attivata se il concorrente diventa noioso, o se prova a scappare.
 
«Suppongo che esploderebbe anche se provassi a togliermelo.»
La bambina annuì.
Era immaginabile, dal momento che quello doveva essere il modo per tenere a freno un certo numero di persone.
«Vox però con te non ha usato la scossa.» buttai lì.
 
Maneggio l’elettricità. La scossa su di me non ha effetto.
 
«Quindi ha usato quell’altro impiastro.» conclusi. Conoscevo il C-18, era un mezzo di tortura usato nella Via Lattea. Si depositava sulle terminazioni nervose e le sollecitava, inducendo il fisico ad una reazione violenta. Si poteva arrivare anche al collasso dell’organismo, o almeno, avevo sentito parlare di carcerati che erano collassati.
«Elettrocineta? Forte!»
Al ché arrossì di nuovo, più intensamente di prima. Cominciava a piacermi vedere le sue orecchie tingersi di rosso: facevano tanto “cucciolo colto in fallo”.
«Quanti anni hai?»
 
Undici.
 
’Sti cazzi!
La mia faccia dovette parlare da sola, perché anche la piccola si avvilì.
 
Troppo pochi, lo so.
È che...mi dispiace davvero, ma non posso dirti cosa ci faccio io qui. Diciamo che ci sono per punizione.
 
«Per punizione?» domandai, scettico. Lei annuì.
Certo che doveva aver fatto incazzare di brutto qualche dio, se era lì per quello. E anch’io dovevo aver irritato qualcuno, perché ero in una melma non dissimile.
 
Per favore, parliamo d’altro. Queste cose sono pericolose.
 
«Come vuoi, per ora
Sottolineai l’ultima parte perché di sicuro ci sarei tornato sopra. Per il momento passai oltre: «Hai mai sparato, almeno?»
 
Due volte, ma si può dire di no.
Per questo ho detto che con le armi sono inutile. Cioè: le conosco tutte, le so smontare, ripulire e rimontare, ma non le so usare.
 
Ed ecco anche perché si considerava un peso.
Dovevo ammettere che, con quelle premesse, io stesso non avrei puntato un solo bolt sul nostro team. Eppure mi rifiutavo di credere che non avrei potuto realizzare un colpo di scena. Che diamine, io ero un Eroe con la maiuscola! Non potevo vedere le cose solo in negativo.
«Okay, dobbiamo rimediare in qualche modo. Non si aspetteranno che io badi a te e agli avversari!»
 
Loro si aspettano solo che gli portiamo soldi con l’audience.
Più soldi una squadra porta nelle casse del programma, migliori saranno i compensi dei suoi membri e maggiori possibilità ci saranno di sopravvivere, perché è coi compensi che si comprano le munizioni e le armi.
 
Non passavano neanche le munizioni? Che tirchi!
«Quindi cominciamo a mani nude?»
 
C’è una specie di prova prima di entrare nell’arena. Se guadagni abbastanza punti, hai diritto a una o addirittura due armi. Se non ne guadagni abbastanza, o muori o cominci a mani nude.
 
Incoraggiante, davvero.
Beh, io ero pronto a farli ricredere sulle mie abilità. Quanto alla bambina...
«Okay, io so di potercela fare a ottenere delle armi, ma tu? Non credo che avresti le mie chance.» dissi. «Se non sai proprio niente, l’unica è insegnarti le basi. Poi però dovrai dimostrare da sola di essere all’altezza della situazione: le armi non perdonano da questo punto di vista.»
Mi guardò con gli occhi sgranati e la bocca socchiusa, incredula.
 
Sul serio lo faresti?
 
«Tu vorresti perdere il compagno al primo turno?»
Denegò.
«Nemmeno io.» e le strizzai l’occhiolino. La piccola arrossì di nuovo: se non altro, pareva che addomesticarla sarebbe stato molto più facile del previsto.
«Vedrai, saremo la sorpresa della stagione.»

 

   
 
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