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Autore: Aya_Brea    18/08/2012    4 recensioni
“Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance.
Dagli occhi di Gin non trapela mai nulla, ma i ricordi si sa, non possono essere cancellati.
 
Fanfiction sul passato del più carismatico fra gli Uomini in Nero.
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Gin, Nuovo personaggio, Vermouth, Vodka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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5. Happy Birthday




Gin afferrò le chiavi del suo nuovo appartamento e se le infilò rapidamente in tasca: Vodka gli aveva procurato gli abiti che erano consentiti ai membri dell’Organizzazione, così, aveva deciso di indossarli subito per poi potersi recare presso la loro base operativa.
Non appena la porta si richiuse alle sue spalle venne colpito dalla presenza dell’omone con gli occhiali scuri, che sostava tranquillamente sul pianerottolo.
“Che ci fai tu qui?” Borbottò Gin, gelido.
“Ma come, Aniki? Devo accompagnarti.”
Il ragazzo trasse un sospiro seccato. “Ma per chi mi hai preso scusa?” Non era abituato a quel cappello nero calato sul capo, così afferrò la tesa fra l’indice ed il pollice per poterlo adagiare più comodamente sulla fronte, disseminata come sempre, da molteplici ciuffi biondastri.
“Sai, Gin. Questi vestiti ti donano parecchio.” Affettuosamente, Vodka gli diede una grande pacca sulla spalla.
“Piantala. Non è giornata.” Gin avanzò di qualche passo per potersi distanziare da quel bestione: non avrebbe potuto sostenere a lungo i suoi modi amichevoli.
“Ho capito. Va bene, va bene. Sto zitto.”
“Ecco.” Replicò l’altro. Avanzò fin quando non raggiunse il portone, poi premette la mano contro la maniglia e un fiotto di sole lo accecò momentaneamente. Quei raggi luminosi ebbero l’effetto di riscaldare in maniera inverosimile il suo vestiario: un lungo impermeabile nero lo avvolgeva, slanciandolo ulteriormente e ricadendo morbidamente ad ogni suo passo. Quasi dettato da un impulso meccanico, egli si sfilò dalla tasca il pacchetto delle sue adorate sigarette, poi se ne portò una fra le labbra.
“Credo che oggi conoscerai Vermouth.”
Mentre camminavano l’uno di fianco all’altro, il biondo diede una tirata carica di nicotina. “Che bella fantasia. Un branco di ubriachi.”
Vodka si lasciò andare ad una risata sguaiata. “Stai attento, sa’. Piuttosto che ad una donna, vai incontro ad una splendida serpe.” Il suo tono era divenuto più sommesso e confidenziale.
“Vermouth è una donna, dunque. Non credevo.”
“E della peggior specie, aggiungerei. Quando vuole, sa essere molto crudele. Inoltre è subdola.”
“Credo che avrà pane per i suoi denti. Vi fate mettere i piedi in testa da una donna?”
“E’ la preferita del Boss.”
“E con ciò?” Gin fece rotolare la sua sigaretta fra le dita. Il suo marcato maschilismo era evidenziato ancor di più da un velo di sottile sarcasmo. “Manca ancora tanto?” Borbottò poi, impaziente.
“No, siamo arrivati.”
I due uomini in Nero si addentrarono in una lunga galleria dal soffitto basso e logoro e qualche metro più avanti, Vodka si sfilò una chiave dalla tasca per poterla girare nella serratura della piccola porticina arrugginita che se ne stava incassata proprio nel bel mezzo di quel tunnel. Un clangore metallico riecheggiò cupamente, ma finalmente, Gin poté intravedere una lunga scalinata che si inoltrava in profondità.
“Dopo di te, Gin.” Disse Vodka, il quale si premunì di farlo entrare per primo. A quel punto il biondo gli rivolse un’occhiataccia di sottecchi e lo osservò come per volersi assicurare che quell’omone non gli stesse riservando qualche brutto scherzo. Ad ogni modo, se la sarebbe cavata ugualmente, anche se le loro intenzioni non fossero state delle migliori.
Lo scalpiccio delle loro scarpe risuonò ovattato per qualche secondo, fin quando entrambi non raggiunsero l’ennesima porta laminata in alluminio. Fu Vodka ad aprirla.
Non appena le due ante si dischiusero, un lungo corridoio dalle pareti bianche si stagliò di fronte ai loro occhi, in netto contrasto col tunnel che avevano percorso qualche attimo prima: sul soffitto erano disposte delle lunghe strisce di luce al neon, mentre lungo i muri vi erano numerose vetrate a specchio, che per il momento non avrebbero rivelato quel che si celava nelle stanze adiacenti. Sembravano tanti uffici dislocati in modo da affacciare tutti su quell’unico corridoio.
“Qui lavora la gran parte dei nostri scienziati.”
“Scienziati?” Gin spense la sua sigaretta sotto la suola della scarpa e prese a camminare: un silenzio quasi religioso aleggiava nell’aria. “Sembra di essere all’ospedale.”
“Le pareti sono insonorizzate. L’Organizzazione vanta un discreto numero di abili ricercatori, ma non so precisamente di cosa si occupino.”
“No? Avresti potuto chiedere.” Il biondo era intento a studiare ogni microscopico dettaglio che quel luogo potesse offrire, deciso più che mai a carpire il maggior quantitativo di informazioni: la voce di Vodka gli giungeva ovattata e lui si limitava a rispondergli distrattamente con degli atoni monosillabi.
“Certe volte è meglio non fare troppe domande. Imparerai presto quel che significa discrezione.”
“Io me ne infischio della discrezione. Dov’è Vermouth?”
Finalmente giunsero in fondo al corridoio, ove un grande incrocio permetteva al percorso di diramarsi in più direzioni. Non appena svoltarono l’angolo per poterne percorrere una, Gin notò che alla sua destra, premuta contro la parete, v’era una donna a braccia conserte: la sua figura slanciata e longilinea era costretta in uno stretto tailleur bordeaux, il cui tessuto tirava in più punti per via delle curve sinuose del suo corpo. Uno schianto, un viso sottile ed un paio di occhi azzurri da mozzare il fiato.
“Eccomi.” Proferì, languidamente. I capelli dorati le ricadevano sulle spalle senza alcun impedimento, fluenti. “Molto piacere, Gin.”
Gin moriva dalla voglia di lasciare che il suo viso venisse incorniciato da un tetro sorriso, ma per il momento preferì rimanere algido e distaccato. “Tu devi essere Vermouth.”
La donna rise sommessamente, poi si scansò dal muro. “Ottima deduzione, caro.” Quegli appellativi erano stucchevoli da far schifo. Ticchettando con le sue scarpe vertiginose, Vermouth si avvicinò ad entrambi, ma la sua attenzione ricadde immediatamente sul biondo, che, stranamente, non aveva mosso ciglio e non sembrava essere minimamente colpito dalla sua bellezza. Quel ragazzo era incredibilmente alto.
Istintivamente, ella allungò una mano verso il suo viso, ma con sua grande sorpresa, si vide avvolgere il polso da una presa salda e vigorosa. Gli occhi di Vermouth si spalancarono per l’estemporaneo stupore: non si sarebbe mai aspettata quel tipo di reazione: per pochi, brevi istanti, Gin le fece sperimentare tutta la freddezza che emanava dal suo sguardo. Come disorientata, lei ritirò immediatamente la mano, scioltasi con difficoltà dalle dita di Gin.
“Sei un bel ragazzo. Spero che tu sarai altrettanto in gamba.” La donna proferì quelle parole con fare altezzoso, decisamente contrita per quell’affronto. “Seguitemi.”
Gin ghignò fra sé, consapevole di essersi finalmente liberato dell’atteggiamento mellifluo che quell’arpia aveva creduto di potergli riservare. Nessuno doveva prendersi tutta quella confidenza. Infilò le mani in tasca e proseguì lungo l’ennesimo corridoio, esattamente identico a quel che avevano percorso poco prima.
Vermouth li condusse all’interno di una stanza in penombra: sul fondo vi era una grande scrivania in mogano e dietro di essa troneggiava un’enorme cartina topografica, disseminata di croci rosse e di segnacci apparentemente privi di significato. La luce da tavolo emanava una flebile luce giallognola. “Allora, Gin. Il gran colpo è previsto per stasera.” La donna aggirò elegantemente la scrivania e vi posò entrambi i palmi delle mani, standosene ritta in piedi di fronte alla carta geografica. “I punti che vedi indicati qui sono i luoghi dove è possibile appostarsi e sparare. Si vocifera, o meglio, mi hanno detto che sei un abile cecchino.”
“Me la cavo.” Rispose Gin, con le mani riparate nelle tasche dell’impermeabile: i suoi occhi non osavano distogliere lo sguardo da quella donna.
“Bene. Il nostro target è un uomo piuttosto giovane, una stella nascente della politica, ma con alle spalle una serie illimitata di processi e di cause sospese o rinviate a giudizio. Il problema è che noi, figuriamo in una di quelle cause. Uno dei nostri si è incautamente fatto coinvolgere e ci ha fatti finire nei guai. Così, ora ci tocca rimediare.”
Vodka inspirò. “Dobbiamo ucciderlo, dunque.”
“No, Vodka. Ho intenzione di mandare qualcun altro al suo fianco. Per metterlo alla prova.”
Gin sollevò le sopracciglia: quanto sarebbe durato ancora, quel teatrino? Sentiva un prurito corrergli lungo le dita. Doveva fumare.
“Per le modalità di movimento ti metterai d’accordo col tuo compagno, ok, Gin? Vi incontrerete per la prima volta alle otto di questa sera, qui.” La donna premette il polpastrello dell’indice su una delle tante ‘x’ rosse.
“D’accordo. Tutto chiaro.” Gin ruotò i tacchi e fece per dileguarsi; se solo la voce di Vermouth non avesse nuovamente infranto il silenzio calato in quella stanza.
“Ricorda, tesoro. Evita contatti ravvicinati: meno sanno, meglio è. Massima discrezione.” L’ultima parola non mancò di infastidirlo, così, il biondo si limitò a fare un lieve cenno col capo, poi finalmente riuscì a congedarsi. Vodka lo osservò fin quando non fu giunto all’uscita e vedendolo accendersi un’altra sigaretta gli sfuggi un sorriso: non capiva se quel suo viziaccio fosse dovuto al nervosismo oppure al semplice bisogno di soddisfare i propri desideri.
 
 
 
 
 
Era ormai sera, il grande orologio digitale troneggiava su di un alto edificio nel centro di Tokyo: con precisione meticolosa, il dispositivo segnava le otto meno cinque. Ai piedi del gran colosso in calcestruzzo vi era un ampio incrocio e nonostante l’ora, il luogo pullulava ancora di gente intenta ad ultimare gli acquisti domenicali: la grande città Giapponese era ancora sveglia e lo si poteva evincere dalle molteplici vetrine, dai minuscoli quadratini gialli sui grattacieli, dal gran via vai di persone cariche delle loro buste, dai ragazzi e dalle ragazze dal passo decisamente più svelto per potersi ritirare in fretta. Pian piano quella calca informe cominciò a diradarsi, fin quando le strade divennero finalmente sgombre, libere. Soltanto qualche macchina circolava a quell’ora.
Gin costeggiò l’enorme edificio dell’orologio con passo rapido ma con fare disinvolto e distinto, stando attento a non dare troppo nell’occhio: il suo vestiario nero gli permetteva di agire indisturbato, dato che quegli abiti erano come una sorta di seconda pelle che consentiva loro di confondersi con l’oscurità della notte. Come corvi.
Il biondo camminò ancora per qualche metro, poi la sua attenzione fu immediatamente rapita dall’uomo che se ne stava al di là della strada, premuto contro la sua automobile nera e con le braccia robuste incrociate presso il petto. Doveva essere il suo compagno. Si avvicinò cautamente e con l’accorgimento di mantenere sempre la dovuta distanza e riservatezza, prese a scrutarlo analiticamente, con quei suoi occhi vigili e freddi.
“Irish. Giusto?”
L’uomo si scansò dalla sua macchina e sciolse le braccia, dapprima conserte: era alto, muscoloso e slanciato. Si poteva dire che lui e Gin sfiorassero la stessa altezza. Irish aveva una maglietta grigia a maniche lunghe e il tessuto, per via della sua aderenza, evidenziava quanto quel tipo dovesse faticare per mantenersi così in forma. Il biondo riuscì a facilmente a decifrare la personalità criptica ed autoritaria di Irish: bastava guardarlo negli occhi, per poter capire di che pasta fosse fatto. Ligio al dovere, capace di sostenere qualsiasi sforzo e stress, sia psicologico che fisico.
“Già.” Quest’ultimo assunse immediatamente un’espressione seccata, come se occuparsi di quella missione con Gin gli procurasse non pochi grilli per la testa. “Mettiamo subito in chiaro una cosa. E’ la prima e l’ultima volta che lavoro con un ragazzino.” Effettivamente Irish era più grande di Gin e fra loro correvano approssimativamente quindici anni di esperienze, di vita, ma anche di sangue e di morte. Nonostante questo, però, il biondo fu alquanto contrariato da quell’affermazione: per lui la differenza di età era semplicemente una formalità. Lo sapeva bene: gli bastava pensare al suo defunto padre.
“Sta tranquillo. Non appena questo incarico sarà concluso avrò modo di far sì che non si verifichi più questa spiacevole eventualità.” Il biondo si avvicinò: una lieve sferzata di vento si sollevò da terra, infilandosi prepotentemente nel suo impermeabile nero e facendolo gonfiare ritmicamente: gli occhi di ghiaccio di Irish e di Gin si scontrarono nuovamente e improvvisamente calò il gelo.
“E allora, biondino? Che hai da guardare?”
“La prossima volta che ti rivolgi a me con questo tono ti ammazzo.” Replicò Gin, sprezzante. Quel loro sguardo si prolungò per qualche frazione di secondo, anche se ad entrambi quel tempo parve durare un’eternità. Alla fine fu Irish a lasciar perdere: era molto più ‘anziano’ per poter dar credito alle parole di un moccioso, oltretutto non poteva permettersi di fallire a causa di un simile disguido. Si passò una mano fra i capelli di platino e aggirò l’automobile. “Sali in macchina.”
Il biondo aprì lo sportello ed entrambi entrarono nell’abitacolo: non appena si chiusero entrambe le portiere, piombò nuovamente il silenzio: uno di quei silenzi in cui è meglio tacere, piuttosto che aprir bocca. La tensione era palpabile, l’aria intensamente rarefatta e pesante da tagliarsi con la lama di un coltello.
Il rombo del motore proruppe impetuoso, degradando poi d’intensità e lasciando spazio al canto solitario dell’acceleratore.
Gin allungò il proprio sguardo oltre il finestrino: la città mutava velocemente ed i grattacieli della Tokio moderna si tramutavano lentamente in dei complessi non più così adiacenti, ma più ampi e lontani gli uni dagli altri. La zona industriale era molto più curata e altolocata, tanto che solo i più grandi magnati della finanza o del commercio decidevano di costruire in quei terreni. Gli bastò sollevare il capo per notare un cielo tremendamente bigio e nuvoloso.
Le luci correvano di fronte ai suoi occhi verdi, tanto veloci da non poterne cogliere neanche il minimo bagliore. Ad un tratto sentì distintamente il cellulare vibrare nella tasca. Lo sfilò e prese a fissare il display. Un messaggio. Spinse il tasto verde, incurante di Irish che, seppur stesse guidando, gli lanciava delle fugaci occhiatacce.
“Jake, mi trovo a doverti scrivere un messaggio per una cosa così orribile, ma purtroppo non ho avuto altri modi. Sei sparito, ma spero che tu stia bene. Ho saputo di tua madre. Non doveva andarsene così giovane. La vita a volte fa schifo. E’ tutto uno schifo … Non pretendo di comprendere il tuo dolore, ma voglio aiutarti. Ti prego Jake, fatti sentire … Sto male.”
Gin lesse ancora quel nome: “Jake”. Un sorriso amaro gli si dipinse sul viso. Era come se quella ragazza si stesse rivolgendo ad un morto. Era terribilmente assurdo aver appreso della morte della madre tramite un messaggio di Lily. Tutto fu incomprensibile in quel momento: sua madre era morta? Non sapeva neanche che era malata, non sapeva nulla di nulla. Eppure bruciava ancora, quella ferita che aveva sul cuore, come uno squarcio palpitante, come una bruciatura esposta ad un fiotto di alcol. Strinse il cellulare fra le dita e guardò nuovamente fuori dalla finestra.
“Che c’è, Gin? Qualcosa non va? Non è che ci hai ripensato?” Avrebbe dovuto uccidere un uomo, magari era stato colto dai sensi di colpa.
“Fatti gli affari tuoi, non è cosa che ti riguardi. Non ci ho ripensato.” Gin tentò di scacciar via quei pensieri e una volta infilatosi nuovamente il cellulare nella tasca, ripensò alla sua missione. Doveva uccidere. Voleva uccidere.
“Meglio per te allora. Siamo arrivati.” Irish parcheggiò la sua auto affianco a tutte le altre. Dal cruscotto si intravedeva un grande edificio dalla pianta a ferro di cavallo e un magnifico giardino pieno di pini. Alla loro destra vi era una sottospecie di torrione più antico la cui superficie mostrava profonde crepe e numerosi punti in cui la struttura era cedevole: una lunghissima scalinata si arrampicava tutt’intorno al complesso, come un nastro avvolto più volte intorno ad esso.
“Vedi quel palazzo? Trovati un posticino tranquillo e aspetta me. Io entrerò nel complesso e recupererò un paio di documenti importanti. Ci sentiremo tramite questi microfoni.” Irish aprì il bauletto incassato nel cruscotto e poi ne diede uno al biondo. “Sui sedili posteriori c’è il tuo fucile di precisione. Non sprecare munizioni.”
Gin ispirò profondamente: Dio, avrebbe voluto spaccargli la faccia. Sentiva tutti i muscoli tesi e vibranti di rabbia, il suo respiro cominciava a divenire più sostenuto ed artificiale. “Cristo, ma per chi mi hai preso?” Strinse il pugno e quasi istintivamente gli afferrò il colletto della maglia. Sembrava che nuovamente si fosse parato un muro fra i due.
“Vuoi far saltare tutto, novellino?”
“Sta’ zitto. Vecchio.” Gin lasciò la presa con un forte strattone, poi scese dall’auto sbattendo la portiera: si sbrigò a prendere quel dannato fucile e a trovarsi un posto da cui poter sparare liberamente, qualora fosse giunto il momento. Alla fine lo trovò, proprio in cima a quel torrione che avevano visto poc’anzi.
 
 
 
 
 
Trascorse un’ora dal loro arrivo, ma di Irish, nessuna traccia. Non si era ancora fatto sentire.
Gin se ne stava chinato sul bordo di un muretto, a quasi cinquanta metri da terra: il vento era ancora più freddo là sopra. Teneva gli avambracci appoggiati sul cemento freddo e sul polso poggiava morbidamente la canna del suo fucile, puntato ormai da più di trenta minuti. Si manteneva immobile, come il più abile dei cecchini: sapeva che era così che si comportavano i professionisti. Fermi come sassi, vigili, concentrati oltre ogni limite, oltre ogni barriera che l’organismo potesse imporre ad ogni singolo organo. La sua visuale non si spostava neanche per un istante, poiché sapeva che da un momento all’altro, oltre quel crocicchio, avrebbe potuto avvistare la testolina del loro politico. E in quel momento avrebbe trattenuto il fiato, si sarebbe riempito i polmoni di quell’aria glaciale e solo allora, avrebbe spinto delicatamente l’indice sul grilletto.
Nel più placido silenzio di quella notte, Gin sentì sfrigolare il suo auricolare.
“Ehi, ragazzo. Ci siamo. Fa’ attenzione.”
Era giunto il momento tanto atteso. Inizialmente fu convinto quasi di aver percepito i suoi neuroni attivarsi per mandare tanti segnali elettrici al cuore, per far sì che pompasse più sangue e che lo sostenesse in quel frangente così delicato. Mandò giù la saliva e fece un profondo respiro: oltre le lenti dell’ottica osservò la porta dell’edificio aprirsi: sembrava incredibilmente vicino, quel piccolo uomo, ignaro della presenza dell’assassino che gli avrebbe fatto schizzare le cervella. Era incredibile: le distanze parevano ora così relative. Un po’ come la sua nuova vita.
Gin spostò con precisione millimetrica la canna del fucile, poi compì le dovute manovre: i ricordi di quando sparava con Lily gli trapassarono la mente. Strinse l’arma e lasciò che il dito indice scivolasse lungo il grilletto e che il proiettile appena sparato facesse il suo naturale corso. Era fatta.
Con un gesto repentino, il biondo abbassò nuovamente il fucile: gli sembrò di non muovere i muscoli da una settimana, ma perlomeno quando riuscì a sporgersi oltre il muretto, vide l’uomo steso a terra, immerso in una pozza scura del suo stesso sangue caldo. Concluso l’affare, Gin si portò il microfono alle labbra: “E’ a terra.”
“Ok. Bel colpo. Andiamocene …”
Gin strinse gli occhi in una fessura e da quell’altezza riuscì ad intravedere chiaramente delle volanti della polizia sfrecciare nella loro direzione: subito spiegarono le sirene all’inseguimento.
“Merda, Gin! I piedipiatti. Questo non era previsto. Dannazione. Andiamocene.”
Il biondo rise sommessamente e nuovamente imbracciò il fucile fra le braccia: non più freddo e metallico come lo aveva stretto la prima volta, ma caldo e maneggevole come se l’avesse sempre utilizzato, come se in poco tempo avesse guadagnato la fiducia di un amico. Subito, quello strumento di morte divenne parte di sé. Era tutto così, fottutamente divertente.
“Lasciami fare.”
“Ma sei impazzito?! Gin.” Lo richiamò inutilmente, Irish, oramai uscito dall’edificio.
Le auto della polizia sgommarono proprio di fronte al parcheggio e una serie quasi interminabile di agenti si riversò fuori dalle proprie vetture. Nel frattempo era accorsa anche l’ambulanza.
Gin intravide Irish attraverso il mirino del suo fucile. “Irish. Allontanati. Non voglio guai con l’Organizzazione.”
“Maledizione, che diavolo vuoi fare?” Urlò questi, agitato. Non sopportava la sfrontatezza di quel giovane.
“Farli saltare in aria. Togliti di mezzo, mi intralci.”
Irish serrò i denti e con essi, il calcio della sua pistola: era incredibile come quel tizio si fosse tramutato nel protagonista indiscusso di quel teatrino. “Tu sei pazzo.”
Il biondo rise semplicemente, poi si strappò di dosso quell’auricolare. Se il suo compagno avesse afferrato il senso delle sue azioni si sarebbe riparato, altrimenti, avrebbe fatto soltanto la figura dell’idiota.
Gin sparò un paio di colpi e fece crollare due agenti vicini al cadavere del politico, poi iniziò a far fuoco contro la parte posteriore di una di quell’auto parcheggiate là sotto. Sentiva gli spari sibilare contro la sua spalla; uno lo ferì nei pressi della spalla e gli strappò letteralmente un lembo dell’impermeabile e di pelle. Digrignò i denti come una bestia e decisamente incollerito, scaricò tutti i colpi che aveva sul medesimo obiettivo: inaspettatamente, al penultimo colpo che gli rimaneva in canna, l’automobile emise un lampo di luce, poi esplose con un boato indescrivibile. I fumi e i resti della deflagrazione svilupparono un incendio doloso di grande portata.
Si, decisamente, Gin era un pazzo. Ma ne era consapevole.
 
 
 
 
 
Il fumo si levava lento nell’aria rarefatta: si ritrovò a tossire, sbattuta al suolo freddo nel bel mezzo di un inferno di fuoco e sangue: sollevò il viso sporco di terra e vide soltanto corpi carbonizzati attorno a lei. A quel tripudio di urla disperate e spari era subentrato un silenzio quasi irreale. Era un’atmosfera tremendamente opprimente. Le veniva da piangere, ma si limitò ad alzarsi in piedi. In fondo aveva avuto fortuna a rimanere illesa: forse aveva soltanto respirato del monossido di carbonio, ma nulla che l’avrebbe uccisa.
Un poliziotto le si avvicinò furtivamente. “Agente Kirara. Si sente bene?”
La ragazza annuì flebilmente: la sua divisa da poliziotta era sporca, sembrava che fosse scivolata nella tromba di un camino.
“Io si. Ma i nostri uomini …” Era piuttosto eloquente, inutile proseguire.
Il collega dell’agente Kirara trasse un sospiro ricolmo di rassegnazione. “Credo che abbiamo a che fare con qualcosa di molto più grande, stavolta.”
Ma la ragazza dai lunghi capelli corvini era assorta, anche il suo sguardo era rivolto altrove, come se stesse guardando presso un punto indefinito di quella tabula rasa. “Non importa, Agente. Questi bastardi non l’avranno vinta.” Serrò i denti, ancora rapita da qualcosa: probabilmente era soltanto catturata dalle immagini di vendetta che si stavano inoltrando nella sua mente. “Gli farò mangiare la polvere a quei brutti stronzi.”
 
 
 
 
 
Gin socchiuse le palpebre stanche e lasciò che l’acqua calda gli distendesse le membra: una bel bagno era quel che ci voleva per portare a termine quella giornata. Il getto della doccia non era particolarmente intenso, quasi come se volesse farsi accarezzare dall’acqua che gli scorreva lungo la schiena nuda. Qualche minuto più tardi uscì dalla doccia e si infilò un paio di pantaloni scuri, poi tornò nuovamente in balcone con i capelli completamente bagnati. Non era il tipo da prendersi una polmonite per così poco.
Aveva due cellulari in mano. Uno apparteneva a Jake, l’altro, era quello dell’Organizzazione. Su quest’ultimo c’era un messaggio, ma decise di aprirlo successivamente. Utilizzò prima l’altro. Compose in pochi minuti un breve sms.
“Sono andato a vivere a Londra. Mi dispiace, ma non potremo vederci più. Addio”
 Inserì il destinatario. Lily. Spedì senza troppe manfrine. L’ultima cosa che fece fu quella di sfilare la scheda sim: l’avrebbe bruciata più tardi.
Poco dopo decise di leggere anche l’altro messaggio: era decisamente più curioso. Chissà, magari si sarebbe trattato di Irish, indispettito per quel suo ultimo spettacolo pirotecnico.
“Buonasera dolcezza. Il Boss è stranamente colpito dall’esito dell’operazione di oggi. Non volendo hai coperto qualsiasi tipo di prova di cui avrebbe potuto disporre la Scientifica. I miei complimenti Gin. Ti auguro buona notte.”
In fondo al messaggio, il biondo scorse un post scriptum: “Ops, che sbadata. Quasi dimenticavo. Buon diciottesimo compleanno, my dear.
Vermouth.”







Eccomi!!! Oddio, scusatemi tantissimo per il ritardo con cui posto..
E' stato ed è, ahimè, un Agosto all'insegna dello studio! Spero che vi sia piaciuto questo capitolo >.< è quasi impossibile scrivere decentemente ed in tranquillità qui in campagna con 3 cugini piccoli, pappagalli al seguito e galline e polli che proseguono per la tangente XD ahahahaha... 
Ringrazio tutti i miei fedelissimi lettori *.* Quanto vi amo?? Ahahahaa, troppo! Grazie di tutto, siete fantastici u.u 
Una nuova new entry si affaccia nel piccolo mondo degli uomini in nero... chi mai sarà???
Lo scopriremo nella prossima puntata!
To be continued! XD

Aya_Brea

  
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