Hello, bella gente! =)
Si, lo so, sono in ritardo.
Proprio dopo aver fieramente annunciato di avere un
ritmo settimanale e giorni di pubblicazione fissi da rispettare, sono di nuovo
in ritardo.
Ho già detto ad alcune di voi nelle risposte alle recensioni
vari motivi, quindi non sto qua ad elencarli, perché credo che i miei problemi
non interessino a nessuno. Sappiate però che mi dispiace veramente tanto e che
siete autorizzate a minacciarmi con il fucile di Burt.
Come al solito, ringrazio dal profondo del cuore chi
legge, segue e soprattutto, chi commenta. Grazie a tutte e grazie in
particolare a Tallutina, Itagnola, Illy91 e LoveMojito.
Detto anche questo, ho un avvertimento per il
capitolo.
Non è quello che credo vi sareste aspettate e sinceramente,
non è quello che avevo programmato. Questo capitolo doveva essere Kurt
–centrico e rispondere ad un po’ di questioni in sospeso: chi era al telefono,
la storia della cena e la giornata alla Parsons. È ancora Kurt - centrico e a
qualcosa risponde, ma come avete visto dal titolo, è solo una parte
dell’intero. Non chiedetemi come, ma ho scritto qualcosa di pantagruelico (vi
dico che solo questo sono 15 pagine di Word) e quindi, pur non apprezzando gli
spezzettamenti e le questioni in sospeso, ho dovuto dividerlo.
Spero sappiate essere pazienti: le risposte
arriveranno, fidatevi.
E arrivate le risposte, inizierà il vero divertimento
(= Kurtbastian)
Vi lascio alla lettura,
spero di sentire le vostre opinioni, specie vista la
scelta di dividere e di spiegare alcune cose.
Buona lettura,
Elle
I should tell you
Capitolo terzo:
“When blu skies fade to grey”
parte prima: vecchi ricordi
Kurt,
cercando di bilanciare tutto ciò che aveva in mano, uscì dalla caffetteria il
più velocemente possibile, consapevole di essersi lasciato dietro un Sebastian
più che confuso. Non appena la porta del locale gli si chiuse alle spalle, tirò
un sospiro di sollievo. Doveva andarsene subito. Non solo perché altrimenti
sarebbe arrivato tardi a lezione, ma anche perché in quel momento non era
dell’umore giusto per affrontare Smythe.
Di
fronte all’ex Usignolo si era sentito impotente, frustrato ed umiliato. Non
poteva restare lì senza sapere come rispondere alle provocazioni di Sebastian,
senza riuscire a controbattere con lo stesso livello di sicurezza e sarcasmo
che l’avevano sempre contraddistinto e che erano le armi migliori dell’altro.
Era
dovuto scappare, cosa che non aveva mai fatto, nemmeno di fronte a chi ne aveva
minacciato la vita.
Kurt,
in quel momento, si sentì vuoto. E soprattutto, per la prima volta dalla morte
di sua madre Elizabeth, perso.
Si
accorse solo in quel momento di essere bloccato, immobile, nel bel mezzo del
marciapiede altrimenti affollato di New Yorkesi che correvano frenetici verso
la fermata della metropolitana. Si era fermato a riflettere, ma non poteva
permetterselo. Non oggi. Non proprio quella mattina, quella mattina per cui aveva
aspettato tanto e per cui aveva lavorato fino allo sfinimento. Oggi doveva
arrivare a lezione puntuale, mostrare a tutti il suo talento e prendersi,
almeno per questa volta, almeno per i suoi studi, una rivincita. Lo doveva a
chi lo aveva sostenuto, lo doveva a suo padre e a Finn, lo doveva a Santana,
che aveva sopportato i suoi rantoli nell’ultima settimana, – anche se con molta
poca pazienza – ma soprattutto lo doveva a se stesso.
Mentalmente
prese nota di ripensare a Blaine e a tutti i loro problemi quella sera stessa,
dopo aver terminato le lezioni, e si diresse anch’egli di corsa verso la
fermata della metro. Fortunatamente la Parsons distava solo tre fermate di
linea dal suo quartiere, quindi sarebbe ancora riuscito ad arrivare puntuale.
Scese le scale della metropolitana e arrivò appena in tempo per infilarsi tra
le porte scorrevoli del treno in partenza. Con un sospiro di sollievo, si
appoggiò ad uno dei sostegni e si guardò intorno. Vide che proprio dall’altro
lato c’era ancora un posto a sedere libero. Un
piccolo miracolo – pensò. Non succedeva spesso a New York, di mattina,
quando la metro era più popolata, di trovare un posto libero. Sorrise tra sé e
sé, – sembrando probabilmente un ebete e forse anche un po’ pazzo - perché pensò che magari questo fosse un
piccolo segno che la fortuna non l’aveva ancora abbandonato del tutto.
Sempre
con quel sorrisetto sulle labbra, cercò nella borsa il cellulare per vedere chi
era la causa del suo incontro ravvicinato,
fin troppo ravvicinato, con Sebastian. Una volta trovato, ne sbloccò la
tastiera e vide che c’erano due chiamate perse ed un SMS, tutti e tre da
Rachel.
Kurt
sospirò profondamente, cancellò le chiamate perse e, preparandosi al peggio,
aprì il messaggio.
Da Rachel_BB:
Caro Kurt, so che ultimamente non ci siamo visti
spesso, ma volevo informarti che settimana prossima si terrà la serata di
apertura della NYADA. Non so se sai cos’è, ma per essere sintetica, si tratta
di uno spettacolo in cui l’accademia mostra i talenti migliori del nuovo anno.
Ovviamente io sono stata scelta come solista. Spero proprio di vederti lì. Con
affetto, Rachel.
Appena
finito di leggere, Kurt scosse la testa, come sempre divertito, irritato e
intenerito allo stesso momento di fronte al tono pomposo con cui Rachel si
esprimeva persino attraverso messaggio. Quando però lo rilesse, in particolare
la prima riga del testo, il sorriso gli si raggelò sulle labbra, trasformandosi
in una smorfia di dolore ed esasperazione.
Si
ricordò il motivo per cui aveva avuto delle riserve nell’aprire il messaggio
dopo che aveva visto che era di Rachel; si ricordò perché era vero che non si
erano visti negli ultimi mesi, pur abitando entrambi a New York; si ricordò
perché, tra le tante cose che aveva perso nell’ultimo periodo, poteva elencare
anche la sua migliore amica.
Aveva
sempre riconosciuto Rachel per quella che era. Era una ragazzina viziata, piena
di sé, fin troppo esuberante e pettegola. Aveva però un talento enorme e
splendente, era una persona caritatevole, era determinata e risoluta. Insomma,
Kurt, pur sapendo quanto potesse essere difficile digerire la sua presenza
talvolta, le aveva voluto bene, e tanto. Si erano trovati. Due voci perse nel
coro di chi non li ascoltava; due persone spesso sole, ma con una pienezza
interiore da colmare il vuoto che li circondava. Si erano riconosciuti come
simili, entrambi emarginati, con una gran voglia di fuggire da dove erano
partiti. Come li aveva definiti Rachel, erano anime gemelle.
Quando
però le loro strade avevano preso direzioni diverse da quelle che avevano
programmato insieme, Rachel era cambiata. O forse non era poi così diversa da
com’era stata durante gli anni del liceo e Kurt era cambiato. Chi fosse
diverso, chi fosse cambiato, chi avesse ferito l’altro ormai non importava più.
Kurt aveva perso la sua migliore amica, probabilmente in maniera definitiva.
*flashback*
Il
giorno della cerimonia del diploma Kurt era una palla di nervi. Una palla
modellata in esaltazione e felicità; come una piccola pallina magica,
saltellava qua e là, spargendo sorrisi e pacche sulle spalle. Finalmente,
sentiva che tutto si era sistemato. Gli sembrava che la sua vita avesse ripreso
la strada giusta, il senso che doveva avere, incastrandosi a perfezione
nell’equilibrio di tutte le cose. Era vero che Kurt era ateo. Non credeva in
Dio, né nel fato. In quel momento, però,
era quasi sicuro di vedere il destino sorridergli.
Il
Glee Club aveva vinto le Nazionali, ottenendo fondi per la scuola e anche un
riconoscimento dal resto del corpo studenti. Quando erano tornati da Chicago,
erano pronti a riprendere il loro posto nella scala sociale del McKinley. Anche
se per gli ultimi giorni, erano ormai rassegnati a sopportare insulti,
granitate e altri scherzi di pessimo gusto che invece erano esilaranti agli occhi del resto degli
studenti, specie degli atleti. Rimesso piede nei corridoi del liceo, però, si
accorsero che forse, almeno per quel ultimo periodo, le cose sarebbero andate
diversamente. Tornando con la coppa delle Nazionali, ricevettero applausi,
complimenti e sorrisi. Le granite le poterono bere dalla cannuccia, non
raccogliendole dai vestiti. I cassonetti li usarono solo per gettare i resti
del piccolo party che avevano tenuto in aula canto, gentilmente offerto dal
Signor Motta – che non è nella mafia. Nessuno sembrava intenzionato ad
insultarli perché sapevano cantare. E soprattutto, per la prima volta da quando
vi aveva messo piede, quattro anni prima, Kurt non ricevette nessuno spintone,
nessuna occhiataccia e nessun insulto a causa della sua sessualità. La nuova
atmosfera era rinfrescante, e come un gas esilarante, rendeva i ragazzi sorridenti,
energici e felici.
Sempre
in quei giorni Kurt aveva ricevuto anche il regalo per il diploma da suo padre.
Era stato l’ennesimo momento in cui il controtenore aveva avuto la conferma di
quanto suo padre fosse un uomo speciale.
Burt
era sempre stato un po’ originale, non tanto perchè si contraddistinguesse per
il modo di vestire, per un particolare stile di vita o perché fosse
particolarmente distante dalla definizione dell’uomo medio. Tutto il contrario,
in realtà.
Burt
era un uomo semplice, legato ai valori della famiglia e del lavoro. Indossava
camicie a scacchi e consunti berretti da baseball. Seguiva il notiziario ed il
football. Viveva in una piccola città e gestiva la sua attività. Burt Hummel,
insomma, era il classico esempio di stereotipo. L’originalità della sua
persona, però, stava nella sua mente e nel suo cuore. Se all’apparenza sembrava essere il classico
uomo appartenente al ceto medio, nato e cresciuto in Ohio; in realtà, Burt,
aveva imparato ad apprezzare la diversità e a diffidare degli stereotipi.
Forse non era sempre stato così, ma
amando fino alla follia il suo unico figlio, lui stesso aveva cercato di
cambiare e di distinguersi dalla massa. L’Ohio era uno stato conservativo,
nello spirito e nelle azioni. Lui, per amore di quel Kurt che aveva giurato di
proteggere a sua moglie ormai morente, si era spinto oltre le semplici parole
di conforto che tutti erano in grado di propinare ed era passato all’azione.
Aveva dimostrato la correttezza del suo punto di vista quando un preside
bigotto non voleva che il figlio si esibisse in una canzone scritta ed
interpretata da una donna. Aveva lottato
con le unghie e con i denti per proteggere la vita di suo figlio. Aveva
lavorato fino allo stremo per pagare una scuola privata dove Kurt potesse
essere libero di esprimere il suo vero io. Aveva persino deciso di candidarsi
al Senato per fare la differenza. Si, Burt Hummel personificava fisicamente
l’uomo tipico dell’Ohio, ma non ne aveva nulla intellettualmente. Non si
vergognava di sé, delle sue idee, di suo figlio o della sua nuova famiglia e
l’aveva dimostrato mettendosi in gioco in prima persona.
Aveva
chiesto aiuto ai cigni di Kurt e per lui si era esibito in una coreografia
imbarazzante; solo per dimostrargli quanto, pur essendo totalmente diversi, in
realtà lo capisse meglio di chiunque altro.
Kurt
si era emozionato di fronte a quello spettacolo a dir poco scioccante. Aveva
riso, aveva pianto e alla fine vi si era unito. Aveva ballato con suo padre,
dimentico di tutto ciò che aveva passato in quegli ultimi anni, proiettato di
già verso il futuro.
Oltretutto,
sempre durante quell’ultima settimana di scuola, Kurt e Blaine si erano
parlati, arrivando apparentemente ad un punto di incontro riguardo la loro
relazione. Avevano ancora tanta strada da fare, ma dopo essersi confrontati,
mantenere quella promessa di non dirsi mai addio non sembrava poi così utopico.
Kurt
sapeva anche che mancavano pochi giorni all’arrivo della lettera di risposta
della NYADA.
Aveva
spaccato durante la sua audizione. Aveva dominato la scena e, se voleva essere
un po’ alla Rachel Berry, esuberante, pieno di sé e forse anche un po’
arrogante, era piuttosto sicuro di aver ottime possibilità di entrare
nell’università dei suoi sogni.
Insomma,
quegli ultimi giorni di scuola erano stati indimenticabili per Kurt. Erano
stati una parentesi felice, un’oasi di ristoro. Dopo gli avvenimenti di quella
settimana, quando finalmente dovette salire sul palco per dire addio al liceo e
chiudere così quella parentesi di quattro anni della sua vita, Kurt si sentiva
completamente a proprio agio con se stesso e con gli altri. Aveva una nuova
energia in sé; guardava al passato con nostalgia ed affetto, ma era anche già
proiettato al futuro con eccitazione e brio.
Se
però c’era una cosa che Kurt Hummel aveva imparato nei suoi diciotto anni di
vita era che nulla dura in eterno. E così era stato.
Il
giorno dopo aver lanciato il suo tocco in aria ed essersi sfilato la sua toga,
tutto iniziò ad andare a rotoli.
Visti
i festeggiamenti della sera prima insieme a Blaine, che gli aveva organizzato
una sorpresa speciale per il diploma e la sua imminente partenza, Kurt quella
mattina aveva deciso di dormire un po’ di più. Erano già le undici e ancora
riposava beato, quando il suo cellulare iniziò a squillare ininterrottamente.
Grugnendo, ancora con un occhio chiuso, si trascinò fuori dal letto per vedere
chi stesse disturbando il suo sonno di bellezza. Per l’ennesima volta Rachel
Barba Berry era stata la solita guastafeste. Sospirando e strofinandosi gli
occhi nel vano tentativo di avere almeno la parvenza di una persona sveglia,
Kurt prese il cellulare e accettò la telefonata della sua migliore amica.
“Rachel,
fa che sia importante. Hai disturbato le mie otto ore di sonno e sai che sono
il minimo necessario per ristorare la bellezza. Non posso permettermi di avere
rughe a venticinque anni, quando riceverò il mio primo Tony.”
“KURT! KURT! Oh mio Dio! Kurt, hai controllato la posta?”
“No,
perché dovrei?” Kurt era confuso. Perché sarebbe dovuto importargli di
controllare la posta il giorno dopo aver ricevuto il suo diploma? Voleva
solamente comportarsi pigramente, come qualsiasi altro adolescente che ha
appena terminato la scuola. Passò un secondo di silenzio, quando finalmente gli
unici due neuroni già svegli riuscirono a fare una sinapsi.
“NO!
Oh mio Dio! La lettera della NYADA?”
“Si,
si e ancora si! Kurt, riesci a crederci? È arrivata! Oddio, e se non mi hanno
preso? Oddio, cosa faccio? Oddio, non riuscirò mai e poi mai ad aprirla da
sola. Kurt, ti prego, fa’ qualcosa.”
Kurt,
sentendo i rantoli dell’amica, fece ruotare gli occhi, esasperato – sempre la solita esagerata – pensò tra
sé e sé. Poi, però, ne ebbe pena e la consolò.
“Rachel,
ti prego, respira. Non puoi iperventilare proprio adesso. Mi servi viva. Forza,
respiri profondi. Dentro e fuori, e ancora” Neanche
stesse partorendo – pensò Kurt, che ormai si stupiva difficilmente di
fronte all’estrema drammaticità di Rachel. Sentendo all’altro capo del telefono
che l’amica stava seguendo i suoi consigli, Kurt si rilassò e si lasciò cadere
sulla poltroncina a fianco della scrivania. “Adesso ascoltami bene. Non dovrai
aprire la lettera da sola. Mi vesto, vado a controllare se è già arrivata anche
la mia e poi, in caso, ci incontriamo e le apriamo insieme, ok? Niente panico.”
“Kurt
sei un angelo!”
“Dimmi
qualcosa che non so. Adesso mi preparo e poi ti faccio sapere, ok?”
“Va
bene, ma fa presto, non so se riuscirò a resistere!”
“Si,
certo, Rachel, come vuoi tu.” Sospirò, sempre più esasperato e poi aggiunse:
“Ti richiamo tra poco.”
“Ok,
a dopo!”
Chiuse
la telefonata e gettò con poca cura il telefono sul letto. Corse nel bagno
della sua camera, preparandosi ad una velocità che non credeva avrebbe mai
potuto raggiungere se si parlava di routine di idratazione. Sempre in fretta e
furia, scelse un outfit dall’armadio, abbinando tutti i suoi capi alla sua
camicia porta fortuna. Sapeva di comportarsi da sciocco sentimentalista, ma
aveva una camicia a cui aveva riservato un posto speciale nel suo cuore. Era
una camicia che riteneva portasse fortuna. L’aveva indossata sotto il suo
maglione rosso quando suo padre si era finalmente risvegliato, uscendo dal
coma. La stessa camicia bianca, semplicissima, l’aveva sotto il blazer della
Dalton quando Blaine gli aveva confessato di avere dei sentimenti per lui,
emozionandosi ed emozionandolo. Infine, la stessa camicia, l’aveva sotto la
giacca che indossava al Prom in cui era stato eletto Reginetta. È vero, era
stata una della serate più umilianti della sua vita e probabilmente se fosse
stato qualcun altro, avrebbe già bruciato quel pezzo di stoffa che innescava
tali ricordi. Per Kurt, però, il Prom non era solo stato vergogna e rabbia, ma
anche amore e accettazione. Aveva accettato di essere diverso. Aveva accettato
di essere trattato diversamente, solo perché non si conformava alla massa.
Aveva capito quanto Blaine tenesse a lui e quanto lui si stesse innamorando di
Blaine. Quella camicia rappresentava anche il coraggio che aveva dimostrato
salendo sul palco per accettare la corona, e poi ballando con il suo ragazzo di
fronte a tutti. Insomma, se mai Kurt avesse creduto nella fortuna, quel
semplice pezzo di stoffa bianco, ne sarebbe stato l’emblema per lui.
Non
poteva non metterlo proprio il giorno in cui, molto probabilmente, avrebbe
aperto la lettera che poteva cambiare il suo futuro.
Scese
le scale, prese un bicchier d’acqua in cucina e mise a preparare il caffè.
Sistemato tutto, fece un respiro profondo ed uscì di casa. Percorse il breve
vialetto della residenza degli Hudmel ed arrivò di fronte alla buchetta delle
lettere. Con le mani che gli tremavano per l’agitazione e l’emozione, l’aprì,
rivelandone il contenuto. Al suo interno c’erano quattro buste chiuse, un
volantino pubblicitario ed una cartolina. Kurt si voltò di nuovo verso casa e
vi rientrò; andò in cucina e lasciò cadere la cartolina –per Carole, da una
collega in vacanza – e il volantino pubblicitario sul tavolo. Ora in mano
teneva solo quattro lettere. Le girò: due erano conti da pagare indirizzati a
suo padre, mentre le altre due – bè, le altre due erano sicuramente ben più
importanti.
“Finn,
muovi quel culo, esci dal letto e scendi di corsa. Dobbiamo parlare.”
Kurt
si rigirò tra le mani quelle due buste. Egualmente bianche ed egualmente
spesse, avevano però due differenti mittenti e soprattutto due differenti
destinatari.
La
prima lettera aveva impresso in alto a sinistra il simbolo degli Actor Studios;
sotto il francobollo che apportava il timbro dell’ufficio postale di New York
vi era stampato in semplice Times New Romans il nome Finn Hudson e l’indirizzo di casa loro.
La
seconda lettera nelle mani di Kurt era
come una pietra preziosa: rara, di estremo valore, da maneggiare con cura, ma
che anche titillava terribilmente la sua curiosità. Anch’essa era una semplice
busta bianca, abbastanza sottile – in quel momento Kurt non si ricordava se era
positivo o meno che la busta non fosse spessa, merda! – con stampato sul bordo sinistro il logo della NYADA. A
destra vi era anche su essa un francobollo con apportato il timbro New Yorkese.
L’unica differenza rispetto all’altra lettera era il destinatario. Al centro, a
destra, in una bella calligrafia in corsivo, vi era scritto Alla cortese attenzione del Sig. Hummel,
Kurt e sotto l’indirizzo di casa Hudmel.
Mentre
Kurt si perdeva a contemplare il valore inestimabile di una semplice busta,
Finn scendeva le scale gemendo. “Kurt, che c’è da urlare? Ieri sera ho fatto
tipo tardissimo per una maratona di Halo con i ragazzi. Non puoi svegliarmi
così presto – con i pugni chiusi si strofinava gli occhi come un bambino
piccolo e ogni due parole, sbadigliava – cosa ci sarà poi di così importante
proprio stamattina. Dimmi almeno che hai preparato la colazione…”
“Finn
–“ tentò Kurt, ma l’altro persisteva.
“No,
nemmeno la colazione? Non è proprio da te, Kurt –“
“Finn…”
“No,
adesso lasci rantolare un po’ me. Prima mi svegli con un urlo da banshee – e
si, non fare quella faccia, so cosa sono. Poi scendo, non mi dici cosa volevi e
nemmeno c’è la colazione pronta? Non ti riconosco –“
“Finn
Hudson!” Kurt questa volta aveva urlato, e ciò sembrava aver attirato
l’attenzione del fratellastro.
“Eh?!”
chiese con tono esasperato Finn.
“Sono
arrivate!”
“No
– grugnì il più alto – Non mi dire che mi hai svegliato, per l’ennesima volta,
solo per mostrarmi qualche strano paio di scarpe che hai ordinato su E-Bay. Mi
sembrava di essere stato chiaro l’ultima volta: NON MI INTERESSA e
oltretutto – “
“TACI,
FINN!” Kurt ormai era ben oltre il livello da Banshee. Aveva alzato talmente
tanto il tono di voce da poter essere sentito solo da cani e delfini. “Sono
arrivate le lettere da New York, dalle nostre università. Prima mi ha chiamato
Rachel, è arrivata anche la sua. Potremmo aprirle insieme, magari?”
“Oh.
Sono veramente arrivate?”
“Si,
veramente.”
“Oh,
oh, oh – il tono di Finn cresceva, sempre più emozionato, mentre lui quasi
saltellava sul posto – Fantastico! Posso vederle? Oddio, è proprio come quando
spedivo la letterina a Babbo Natale, con la differenza che in quel caso la
spedivo, non la ricevevo. Fa niente, però, è emozionante lo stesso. Ti prego,
fammele toccare!”
Detto
questo, con la sua solita grazia da elefante in una cristalleria, Finn si
avvicinò al tavolo della cucina, afferrando le lettere in questione e nel
mentre, quasi rovesciando Kurt dalla sedia.
Kurt
sbuffò e alzò gli occhi al cielo, alzandosi e allontanandosi dall’adorante
ragazzone che in quel momento stava letteralmente baciando la sua lettera.
Ormai era più che abituato alla goffaggine del fratellastro e dopo averne visti
gli effetti sul bel viso di Rachel, aveva imparato a starne lontano.
“Allora, - si fece notare Kurt, dopo avergli concesso
un minuto di contemplazione – le apriamo insieme? Devo dare una risposta a
Rachel. Credo che le farebbe molto piacere se fossi presente anche tu.”
“Cosa?
Ah, si, Rachel. Si, va bene. Dille che le apriamo insieme. In aula canto tra
un’ora?”
“Va
bene. Vado ad avvertirla. Vedi di non far colare troppa bava su quella povera
busta o non riuscirai più a leggere la tua ammissione.” Kurt sorrise a Finn e
poi risalì le scale per andare ad aggiornare Rachel sugli ultimi sviluppi.
Esattamente
cinquantanove minuti dopo, Finn, Rachel e Kurt erano in aula canto al McKinley.
Avevano posizionato le loro lettere sopra uno sgabello, intorno al quale si
erano poi sistemati in una specie di cerchio. Sembrava quasi volessero proteggere quelle buste, come se fossero
delle reliquie.
Il
primo a parlare fu Finn. “Vorrei aspettare ancora.”
“Per
quanto?” gli chiese Kurt. Non sapeva se sarebbe riuscito a trattenersi ancora
per molto dallo strappare in malo modo quella busta e leggerne il contenuto.
“Per
sempre. – poi scrollò le spalle, e aggiunse – O almeno solo un paio di secondi,
perché è l’ultimo momento prima delle risposte. Dopo che avremo aperto quelle
lettere, le nostre vite cambieranno. Indipendentemente da quello che c’è
scritto. Volevo solo un altro momento qui con voi, così.”
Kurt
era agitatissimo, continuava a tormentarsi le mani, ma il discorso del
fratellastro lo colpì. Era vero. Dopo aver aperto quelle buste, tutto sarebbe
cambiato. In che modo, ancora non lo sapeva, ma comunque lui, la sua vita, i
suoi due amici, non sarebbero stati più gli stessi. Tutt’ad un tratto non
sapeva più se voleva veramente leggere quella risposta. Se voleva veramente
chiudere quella parentesi della sua vita. Un’ondata di panico lo attaccò, ma
alla fine la curiosità e la sicurezza vinsero su di essa, facendogli chiedere:
“Allora, chi comincia?”
*********
Come
si trovò raggomitolato sotto il lenzuolo del suo letto, di sera, con Blaine che
mormorava vuote parole di consolazione nel suo orecchio, ancora adesso non
saprebbe spiegarlo.
Aveva
smesso di singhiozzare almeno un’ora prima. Ora, tutto ciò che sentiva, era vuoto.
Un
buco nero, una voragine, un tuffo, un lancio in paracadute. Non sentiva più
nulla. Dentro di sé non c’era più tumulto, non c’erano più sentimenti vibranti
che gli riempivano il cuore. C’era solo il nero, il buio, il niente. Era come
annichilito; scontratosi contro qualcosa troppo grande da reggere.
Riusciva
lo stesso a sentire Blaine che cercava di consolarlo, di coccolarlo. Sentiva le
voci preoccupate e piene di sconcerto di Burt e Carole, mentre bisbigliavano
proprio fuori dalla porta di camera sua. Sentiva la musica rock sparata a tutto
volume proveniente dalla stanza di Finn. Solo che tutto gli sembrava come una
nuvola, una nube di vapore indistinta, pronta a scomparire. Quelle voci a lui
care, al momento, gli sembravano solo echi lontani.
Decise
che non voleva sentire. Doveva mettere a tacere quel silenzio che lo stava
tormentando dall’interno. Così, si rigirò su un fianco e richiuse gli occhi,
lasciandosi cullare da Morfeo in un sonno pesante e per niente ristoratore.
Quando
riaprì gli occhi, era già mattino; vedeva filtrare dalla tende qualche raggio
di sole che entrava ad illuminare la stanza. Aveva dormito col volto girato
verso la parete, probabilmente nel vano tentativo di allontanarsi da Blaine.
Non voleva vederlo in quel momento, e soprattutto, non voleva essere visto
così. Sembrava che il suo piano avesse funzionato, perché quando si girò
sull’altro fianco, si accorse di essere solo in camera. Blaine se n’era andato,
lasciando dietro di sé solo un bigliettino.
Riposa, amore mio,
vedrai che ti sentirai meglio. Ti chiamo domani.
Ti amo. Tuo,
Blaine.
Normalmente,
un dolce pensiero di Blaine l’avrebbe fatto sorridere, mettendolo
immediatamente di buon umore. Quel giorno, però, la sua bocca non disegnò un
sorriso, ma una smorfia. Con un grugnito, Kurt appallottolò il foglietto e lo
gettò a terra, poi si stese supino e prese a fissare il soffitto. Era bianco e
vuoto, proprio come il suo sguardo. Una lacrima gli sfuggì dall’angolo
dell’occhio destro. Se la asciugò strofinandosi la guancia, poi, non sapendo
che altro fare e non volendo alzarsi e incontrare nessuno, decise di rimettersi
a dormire.
La
seconda volta che si svegliò non fu pacifica come la prima, niente luce soffusa
che entrava dalle finestre, né profondo silenzio. Degli urli provenivano dal piano di sotto e
sembrava che i toni stessero crescendo nel giro di pochi secondi. Kurt si scrollò
le coperte di dosso, e ancora solo in boxer e canotta e con i capelli arruffati
dal lungo sonno, scese a vedere cos’era successo. Era talmente intorpidito,
scosso, con la mente ancora in tutt’altri posti che non si preoccupò nemmeno di
farsi vedere in quelle condizioni. Per una fashion victim come lui, era tutto
meno che un buon segno.
Quando
arrivò sulla soglia del salotto, vide suo padre Burt seduto sulla poltrona che
era stata del padre di Finn. Si teneva la testa tra le mani, scuotendola e
quando l’alzò, Kurt vide che il suo sguardo era afflitto e corrucciato. Carole
era in piedi di fianco al divano, le mani sui fianchi e il viso rosso. Era
arrabbiata, e si vedeva. Finn era di fronte a lei, in piedi, lo sguardo basso e
gli occhi puntati sul pavimento.
“Stai
facendo una sciocchezza, Finn! Questa idea è malsana, completamente folle. “
Carole aveva preso a camminare avanti e indietro, scuotendo il capo e agitando
le braccia, per dare ancor più enfasi al suo discorso. “Di idee idiote ne hai
maturate tante nel corso degli anni, ma questa è di gran lunga la peggiore che
io abbia mai sentito.”
Anche peggio che
sposare Rachel a soli diciott’anni? – si chiese Kurt – Stavolta Finn doveva averla combinata proprio grossa.
“Mamma,
ti prego ascoltami.”
“No,
ascoltami tu, Finn Hudson. Se credi che ti permetterò di gettare via la tua
vita così, e quando parlo di vita intendo letteralmente, non parlo di metafore,
ti sbagli di grosso. Sono sempre stata una madre comprensiva e molto liberale.
Hai sempre fatto ciò che volevi. Questa volta, però, mi sono stufata.”
“Mamma,
fammi parlare. Per favore.” Finn aveva alzato il viso, mostrando qualche
lacrima a rigarglielo.
Burt
si alzò dalla poltrona ed andò ad abbracciare sua moglie, cercando di calmarla.
“Prova almeno ad ascoltarlo. Discutetene da persone adulte.”
“Va
bene, ti ascolto.” Carole ormai non sembrava più agitata, nervosa, o
arrabbiata. Il suo sguardo era quasi triste, rassegnato, come se fosse
preparata al peggio.
“Io
devo farlo. Lo devo fare per me, per Rachel, per voi.” Prese un respiro
profondo e chiuse gli occhi. “Lo devo fare per papà.”
“Finn,
ne abbiamo già parlato. Ti ho già spiegato che – “
“Fammi
finire.” Quando Carole annuì, Finn continuò. “Rachel ha deciso di non partire
per New York per aspettarmi.”
“Che
cosa?” Kurt praticamente gridò, attirando l’attenzione degli altri, che ancora
non si erano accorti dell’ultimo arrivato, su di sé. Aveva gli occhi sgranati e
la bocca leggermente aperta. Era stupito, completamente scioccato. Era anche
terribilmente arrabbiato. Come si permetteva, lei che era riuscita a realizzare
il suo sogno, di gettare un’opportunità del genere al vento? Per cosa, poi? Un
amore adolescenziale? Se Kurt fino ad un minuto prima pensava di non provare
più emozioni, di non avere più sentimenti, in quel momento sentiva qualcosa
ribollire nel suo stomaco. Era una sensazione di calore, che lo stava
travolgendo completamente, accecandolo. Kurt era furioso.
“Cosa
diavolo le passa per la testa?” il suo tono
era glaciale.
“Kurt
– “ Finn cercò di interromperlo, ma l’altro era pronto ad esplodere. In quel
momento, tutto ciò che pensava di aver perso, ma che invece aveva solo
imbottigliato in un angolino remoto della sua mente, cercando di dimenticare, iniziò
a ribollire. Tutti quei sentimenti che aveva finto di non provare nelle ultime
ventiquattro ore, pur di non soffrire, ora erano giunti al culmine e stavano
cercando una forma di rilascio.
“No.
Non provarci nemmeno. Siete due idioti. Siete due grandissimi idioti. Come
diavolo si permette, Rachel Berry, di rinunciare all’occasione della sua vita,
di buttare i suoi sogni al vento? Per cosa, poi? Anzi, forse dovrei dire per chi? – Kurt ormai stava fumando. Il
suo tono di voce si era alzato di parecchie ottave e in quel momento non c’era
modo di calmarlo. Fissò Finn dritto negli occhi – Come vi viene in mente di
gettare alle ortiche l’unica cosa buona accadutale nella sua misera e triste
vita solo per giocare a marito e moglie? Sapete cosa significa lottare con le
unghie e con i denti per un sogno, per un futuro? Certo che no. Tu non hai
ambizioni, sei pronto a baciare il tappeto rosso su cui si poseranno le suole
di tua moglie. Lei, invece, ha sempre avuto tutto ciò che voleva. Le basta
schioccare le dita, mettere su il broncio o fare un piantino e tutti sono
pronti a realizzare i suoi desideri. Bé, lascia che ti sveli un segreto, Frankenteen, il mondo, là fuori, non è
il McKinley. Non c’è il signor Schuester pronto a regalarvi il duetto che non
meritate. Non ci sono i professori che pur di non ascoltare le lamentele di
Rachel o le sue minacce sui diritti civili, le regalano voti in più. La vita,
là fuori, fa schifo. Devi sudartele le cose. E quando le hai ottenute, visto
che c’è anche chi non riesce mai ad ottenere nulla, ti conviene tenertele
strette.”
Kurt
ormai aveva il fiatone, tanto si era agitato. Sapeva che a mente fredda,
razionalmente, non si sarebbe mai permesso di dire certe cose. Non avrebbe mai
insultato l’ingenuità di Finn, né l’innegabile talento di Rachel. In quel
momento, però, era il risentimento, la rabbia e forse anche un po’ di invidia
che l’avevano fatto scattare.
“Kurt.
Ti prego. Non ti ci mettere anche tu. Fatemi spiegare.”
Burt,
per la seconda volta quella mattina, decise di fare da paciere. “Adesso basta!
Finn deve parlarci e noi, come la famiglia comprensiva che siamo, lo
ascolteremo.”
Finn
lanciò uno sguardo colmo di gratitudine al patrigno e ricominciò a parlare.
“Come stavo dicendo, Rachel ha deciso di non partire per la NYADA. Vuole aspettarmi,
e vuole aspettare te, Kurt. E Blaine. – si rivolse direttamente a Kurt, come a
volerlo rimproverare per ciò che aveva detto prima riguardo ad una persona che
invece teneva moltissimo a lui. - Ha
deciso di rimanere a Lima un altro anno. Vuole che ci sposiamo e andiamo a
vivere insieme. Poi, l’anno prossimo, quando tutti saranno pronti ad andare a
New York, partiremo insieme.” Prima che
riprese, passò un momento di silenzio. “ Vuole esserci per noi. E vuole aspettare
noi per iniziare il college insieme. All’inizio ero felicissimo di questa sua
decisione. Ci saremmo sposati, avremmo vissuto insieme e io avrei avuto un
altro anno per capire cosa fare. Poi, però, mi è tornato in mente un discorso
che mi ha fatto Puck. Mi ha chiesto di sognare in grande, per me e anche per
lui. Tutti stanno sognando in grande. Lui e Mercedes se ne vanno a Los Angeles,
Mike a Chicago. Sono tutti pronti a vivere il loro futuro. Rachel è pronta a
vivere il suo da quando ha due anni e ha iniziato a studiare canto. Come posso,
io, la persona che dovrebbe amarla di più al mondo, essere anche la stessa
persona ad impedirglielo? Non posso. Vorrei, perché la voglio con me, perché
voglio sposarla. Perché lei è il mio sogno. Non è giusto per lei, però. Io non
sono ambizioso, è vero. Il mio sogno è quello di avere una famiglia, quella
famiglia che non ho avuto per sedici anni, prima di incontrare voi. I sogni di
Rachel sono tanti, ed è giusto che lei abbia la possibilità di decidere quali
inseguire. Devo lasciarla libera, non posso tarparle le ali. È per questo che
le ho prenotato un biglietto per New York. Sono già d’accordo con i suoi papà,
le prepareranno la valigia e con la scusa del matrimonio io la passerò a
prendere. Invece di dirigerci alla sala comunale, la porterò in stazione. Tutte
le Nuove Direzioni, Blaine incluso – e con questo guardò Kurt per un attimo –
hanno acconsentito di venire a salutarla. Dopo che sarà partita, io sarò qui
ancora per due giorni, poi andrò a cercare di capire cosa voglio veramente. Non
posso capire chi sono e cosa voglio diventare se sto intrappolato a Lima per un
altro anno. Devo andarmene, e se nel frattempo riesco anche a redimere il nome
di mio padre, tanto meglio. È per questo che ho deciso di partire per la
Georgia. C’è un campo di preparazione militare.
Ho un appuntamento per una visita medica e un check up completo per
domattina. Se mi riterranno idoneo, potrò partire.”
Nel
salotto era calato il silenzio più totale. Carole si era rassegnata di fronte
all’idea di vedere il figlio partire e piangeva silenziosamente, abbracciata a
Burt. Sapeva che presa la sua decisione, non sarebbe stato possibile fargli
cambiare idea. Finn era sì ingenuo, un bambinone, ma era anche testardo come un
mulo. Burt cercava di consolare la moglie, e nello stesso momento di osservare
con occhio critico il figlio. Voleva vedere come stava reagendo. Aveva pianto,
si era chiuso in se stesso e poi era esploso. Ora era arrivato il momento di
reagire.
Kurt
fissava il muro con occhi sgranati. Non riusciva ancora a credere che nel giro
di qualche giorno tutto fosse cambiato così drasticamente. Stava però accettando
il fatto di non poter farci niente. Non poteva cambiare come erano andate le
cose. Non più.
“Verrò
anch’io a salutare Rachel. E scusa per ciò che ho detto prima. Ero incazzato, e
me la sono presa con te. Sono convinto che questa storia dell’esercito non sia
il massimo, ma se è la tua scelta, la rispetto. E soprattutto rispetto le
motivazioni che ti hanno spinto in quella direzione.”
Finn
scrollò le spalle e sorrise sghembamente, come a dire che era tutto a posto.
“Vado di sopra a prepararmi. Tra un’ora devo essere a casa di Rachel.” Passò
oltre Kurt e senza guardarsi indietro, salì le scale verso la sua stanza.
Burt
sentì Carole rilassarsi nel suo abbraccio. Sapeva che non avrebbe mai accettato
la scelta di Finn, ma avrebbe imparato a conviverci. Ora lui, però, doveva
pensare a suo figlio.
“Kurt,
come stai?”
“Bene.”
“Kurt
–“ lo rimproverò Burt – “Non mentirmi, per favore.”
“Sto
di merda. Francamente non so come altro definire ciò che provo in questo
momento. Mi sento svuotato e debole, ma
allo stesso tempo sono anche pieno di sensazioni ed emozioni. La più grande è
la paura. Cosa faccio adesso?” l’ultima
domanda fu a malapena sussurrata, come se solo chiederlo ad alta voce
spaventasse Kurt.
Kurt
entrò in salotto e si sedette delicatamente sul divano. Appoggiò i gomiti sulle
ginocchia e il volto sulle mani.
“Dipende.
Cosa vuoi fare?”
Kurt
rise, amaramente e sarcasticamente. “Direi che ho poca scelta. Sia io che
Rachel per scaramanzia avevamo fatto domanda solo alla NYADA, quindi… Direi che
riesumo il vecchio piano di Rach: sto qui un anno con Blaine e ci riprovo
l’anno prossimo.”
“O
forse, potresti valutare qualche altra opzioni.”
“Non
ne ho.”
Con
un sospiro, Burt sciolse l’abbraccio della moglie e si alzò. Uscì dal salotto e
vi tornò dopo qualche minuto con delle buste in mano.
“Un
uccellino estremamente goffo e terribilmente alto mi ha avvertito per tempo
della tua scelta, non ritenendola molto saggia. Così ho pensato di rubare
l’idea a Tina – mi è sempre piaciuta quella ragazza – e ho spedito per te
qualche domanda in più.” Così dicendo, gli allungò almeno cinque buste di
cinque università diverse.
Kurt
era senza parole. Finn, nonostante i suoi problemi e le sue indecisioni, aveva
pensato anche al suo futuro? E suo padre si era fatto carico anche del problema
college, nonostante i suoi impegni lavorativi? A volte Kurt si chiedeva cosa
avesse fatto per meritare persone così nella sua vita. Erano loro e le loro
azioni e le loro parole a ripagare tutto lo schifo che aveva passato e che
passava tutt’ora.
Carole,
osservando l’espressione sorpresa, ma compiaciuta di Kurt, sorrise. Voleva
vedere il suo figliastro, suo figlio,
felice.
“Prendi
queste buste. Leggi le lettere e
pensaci. Parlane con Blaine o con Finn, chiedi consiglio alle tue amiche, a me,
a Carole. Insomma, prenditi del tempo per valutare la tua prossima mossa. Che
tu scelga di restare qui un altro anno, che tu voglia andare ad un’università
qui in Ohio, o a New York o dall’altra parte del mondo, non importa. Ciò di cui
mi importa è la tua felicità. Voglio che tu stia bene, te lo meriti, Kurt. E
per essere contento e soddisfatto della tua vita, la scelta deve essere tua, e
tua soltanto. Hai ancora qualche giorno prima che scadano i termini per le
iscrizioni.”
Detto
questo, fece con un cenno a Carole, che si alzò e lo seguì fuori dal salotto
dopo aver lasciato un bacio sulla guancia di un Kurt sempre più sconvolto. Ancora una volta suo padre l’aveva stupito.
Aveva pensato a lui, al suo futuro, senza nemmeno doverglielo chiedere, senza
che fosse Kurt a cercare aiuto.
Kurt
osservò le lettere che teneva strette in mano e iniziò a leggerne le
intestazioni, per capire da che università provenissero. La prima busta era
stata spedita dall’OSU, l’Ohio State University. Con una leggera smorfia di
disappunto, Kurt la mise da parte e osservò la seconda. Questa proveniva dal
Michigan, dall’università statale. Sapeva che aveva un ottimo corso di musica;
sorrise, pensando che questa scelta dovesse essere un consiglio di Carole. La
terza busta portava il logo dell’NYU, e Kurt la valutò con un sorriso più
rilassato. Del resto New York era la città dei suoi sogni. La quarta lettera
aveva come mittente una piccola università locale, decisamente poco conosciuta.
Kurt la mise da parte insieme a quella dell’OSU. Non era un grande fan
dell’Ohio. Quando prese in mano l’ultima busta, trattenne il fiato. Veniva da
New York, dalla Parsons University New School for Design. Guidato dall’istinto,
Kurt decise di non mettere da parte anche questa busta, ma di aprirla subito,
eccitato di leggere la risposta all’interno. Dalla soglia del salotto, Burt
sorrise. Suo figlio aveva appena trovato la sua strada.
*********
Era
passato ormai un mese dal diploma. Era passato un mese dall’ultima volta che
Kurt aveva visto il fratellastro Finn o Rachel. Il primo era in Georgia, e non
aveva nemmeno il permesso di tenere un telefono cellulare. Poteva chiamare ogni
sera per dieci minuti dal telefono del campo e di solito chiamava Carole, così
Kurt non ci parlava da almeno una settimana. Rachel si era ormai sistemata nel
campus della NYADA e aveva frequentato tutti i pre-corsi estivi. Si erano
ripromessi di scriversi e di sentirsi, ma non erano riusciti a mantenere la
parola data. Kurt provava quasi ogni giorni a scriverle, ma lei era sempre
troppo impegnata per parlarci. Si erano sentiti solo due volte, ed entrambe le
telefonate erano state un fiasco.
Kurt
e Rachel in passato potevano avere avuto tanti problemi di comprensione,
potevano aver litigato spesso, fatto a gara a chi urlava di più, ma mai si
erano dovuti confrontare con silenzi imbarazzati.
“Rachel,
finalmente! Come stai?”
“Oh, benissimo,
Kurt! La NYADA è fantastica, ti sarebbe piaciuta da morire!”
Kurt si accigliò e
non sapendo come rispondere, optò per non parlare proprio. Rachel sembrò
essersi accorta della gaffe fatta e cercò di recuperare.
“No, Kurt, oddio,
scusa. Non volevo dire quello. Quello che intendevo era che qui si sta
veramente bene. I corsi di preparazione sono stati super interessanti. Oh, e
poi il campus è veramente bello. Sai, mi ero sempre immaginata l’esperienza
universitaria con il mio appartamento, perché vivere insieme a così tante
persone, in stanze anonime - “
Rachel stava
continuando a parlare, ma ciò che diceva arrivava sempre più sfumato alle
orecchie di Kurt. Sapeva che non era colpa di Rachel, ma non poteva far altro
che pensare che sentirla discutere delle positività della NYADA lo stesse
infastidendo, e molto. Non era mai stato un tipo geloso o invidioso, ma in quel
momento provava dei sentimenti decisamente contrastanti nei confronti
dell’amica.
Accortasi del
silenzio all’altro capo della linea, Rachel smise di rantolare sulle bellezze
del campus e con tono concitato chiamò Kurt. “Kurt? Kurt, ci sei ancora? È
caduta la linea? Kuuuuurt?”
“Sono qui, Rach. Ci
sono. Adesso però devo andare.” Non vedeva l’ora di mettere fine a quella
telefonata, e anche se non riusciva a capacitarsene – amava le lunghe
telefonate con Rachel e Mercedes – sentiva che non avrebbe retto ancora molto
senza rispondere in maniera poco carina.
Ci fu un altro
silenzio pregno di significato e imbarazzo. Kurt poteva sentire Rachel
sospirare e poteva immaginarsela nella sua mente, mentre accigliata si chiedeva
cosa aveva sbagliato questa volta.
“Tesoro, non è per
te, veramente. – bugia- È che devo uscire per delle commissioni e sono già in
ritardo.”
“Si, Kurt, non ti
preoccupare. Capisco perfettamente.” Altro silenzio. Kurt sospirò – come erano
arrivati a questo punto? Perché doveva esserci imbarazzo tra di loro? Erano
migliori amici. Non era giusto.
“Va bene, allora
vado. Ciao Rach.” “Ok, ciao Kurt!”
La
seconda telefonata era stata due settimane dopo. Kurt era finalmente approdato
a New York e si stava abituando alla sua nuova vita, alla sua nuova città e
alla sua nuova convivenza. Una sera della settimana prima, lui e Rachel avevano
organizzato un’uscita a cena e Kurt era riuscito a trascinarsi dietro anche una
borbottante Santana. Rachel, però, all’ultimo minuto aveva mandato un
messaggino, dicendo di non riuscire ad andare a causa di una lezione protratta
fino a tardi. Kurt ne era rimasto deluso, ma aveva capito.
Da
quella sera – che aveva procurato a Rachel qualche anno di accidenti da parte
di una latina piuttosto scocciata – non si erano più sentiti, nemmeno per
messaggio. Così, quando Kurt, mentre faceva spese per la cucina del nuovo
appartamento, aveva ricevuto una telefonata dall’amica, ne era rimasto piacevolmente
sorpreso.
“Pronto?”
“Ciao Kurt, sono
Rachel!”
“Ehi, Rach. Come
va?”
“Benissimo!” Kurt
conosceva l’amica e sapeva che il tono usato era quello eccitato per una
qualche novità. Sentendola così esaltata sapeva che doveva essere qualcosa di grosso.
“Sto bene anche io,
Rach, grazie,” aggiunse in tono ironico “Comunque, che mi racconti? Si sente
dalla tua voce che stai morendo dalla voglia di raccontarmi qualcosa.”
“Oh si, Kurt,
scusa. È che è fantastico!” “Racconta, allora.”
“Abbiamo iniziato
le lezioni con la Tibidaux. Non sai quanto sia brava” No, infatti non lo so e non lo potrò mai
sapere – pensò con rammarico Kurt. “È
geniale. È un talento naturale. Le sue lezioni sono le migliori. L’altro giorno
abbiamo lavorato sui solfeggi e mi ha fatto anche un complimento, cosa che non
fa mai, quindi direi che ho ottime chance di essere scelta come solista per la
serata d’inaugurazione del nuovo anno accademico.” Per l’ennesima volta la sola
cosa di cui Rachel era capace di parlare era se stessa e il suo talento. “Oh,
poi mi è appena venuta in mente una cosa. Sicuramente l’anno prossimo, quando
riproverai ad entrare alla NYADA, perché parliamoci chiaro, Kurt: il tuo
destino è la NYADA e Broadway, sicuramente non andare a fare il galoppino per
qualche donna in menopausa che dirige una qualsiasi rivista di moda. Comunque,
dicevo che l’anno prossimo, quando rifarai il provino per la NYADA, sicuramente
avrai ottime chance di farcela. Proprio l’altro giorno la Tibidaux diceva
quanto le mancassero voci maschili alte, che avessero un range vocale esteso.
Ha detto esattamente che sono anni che cerca un controtenore all’altezza della
scuola, ma che ancora non l’ha trovato. Insomma, è perfetto, rifarai il provino
e – “
“Rachel,” Kurt
dovette fermarsi e respirare profondamente. Sapeva che probabilmente Rachel non
si era nemmeno accorta di ciò che aveva detto, ma feriva ugualmente.
“Che c’è? Ti sto
dando la notizia migliore della tua giornata e non mi fai nemmeno finire.”
“Rachel, ti sei
ascoltata? Prova a ripensare a cos’hai detto.”
“Che l’anno
prossimo,”
“No, prima.”
“Che la Tibidaux
cerca da anni un controtenore.”
“Esatto.”
“Appunto. Lo cerca
e non lo trova, quando ti incontrerà – “
“Rachel, lo cerca
da anni e non l’ha ancora trovato. Io ho già fatto il provino. E sono un
controtenore.”
“Oh,”
“Appunto – oh.”
“Oddio, Kurt,
scusa, sai che non è quello che intendevo.”
“No, quello che
intendevi era insultare la mia nuova carriera universitaria, distruggendo nel
frattempo qualsiasi mio sogno a riguardo. Nella stessa frase sei riuscita ad
insultare me, la mia università e la mia voce. Il tutto sottolineando quanto
invece tu sia felice e quanto la NYADA e la Tibidaux, la stessa professoressa
che mi ha scartato, siano meravigliose. Direi che mi hai proprio dato la
notizia della giornata.”
Rachel rimase in
silenzio per un momento – miracolo – poi capendo di aver oltrepassato il limite
per l’ennesima volta, tagliò corto. “Mi dispiace, Kurt. Non me ne ero accorta.
Sai che socialmente sono imbranata ed imbarazzante. Direi che per il momento è
meglio se ci salutiamo, magari.”
“Si, magari.” Il
suo tono era uscito più acido di quel che volesse, ma era veramente infastidito
dal comportamento dell’amica. Non la sentiva praticamente da secoli. Non si
vedevano da più di un mese. Ora lo chiama, pensando di dargli una gran notizia
e sbattendogli in faccia la sua nuova vita, finendo solo ad insultarlo. Come
poteva non essere quantomeno scocciato?
Era vero che Kurt
apprezzava la sua nuova scelta ed era emozionato di iniziare presto la sua
università, ma la sconfitta della NYADA ancora bruciava, e molto, e sentire
certi discorsi faceva ancora male.
“Senti, Kurt, prima
che vada, volevo dirti che… che mi dispiace e che mi manchi. Non è la stessa
cosa qua senza di te. Il mio sogno era venire a New York ed entrare alla NYADA,
insieme e si è realizzato solo in parte. Mi manchi
da morire, Kurt.”
Kurt sentiva gli
occhi inumidirsi. Anche a lui mancava Rachel e i loro sogni insieme, ma aveva
già sofferto abbastanza per entrambi e sentire queste parole da parte di Rachel
invece che fargli piacere e scaldargli il cuore per l’affetto dell’amica, lo
fecero indispettire e sbottò come aveva fatto con Finn e come aveva cercato di
non fare per tutta la telefonata.
“Rachel, io ti
voglio bene e tutto, ma al momento non so cosa tu pretenda. Cosa vuoi che ti
dica? Vuoi che pianga al telefono su ciò che ho perso? Vuoi che rantoli su
quanto mi manchi, su quanto mi manca la mia migliore amica? Vuoi che singhiozzi
quanto vorrei essere con te? O magari vuoi un’altra gonfiatina al tuo ego e
vuoi i complimenti perché tu ci sei riuscita e io no? Vuoi sentirti dire che ti
invidio, così potrai gongolare per l’ennesima cosa che mi hai portato via? Non
succederà, e se hai chiamato per questo puoi anche chiudere qui la telefonata.”
Nemmeno Kurt stesso sapeva da dove provenisse tutto questo risentimento, sapeva
solo che ora che l’aveva sfogato si era tolto un peso dallo stomaco, anche se
farlo gli aveva lasciato un’amara sensazione in bocca.
Rachel stava
tirando su col naso, era evidente anche senza vederla che stesse trattenendo un
pianto.
“Io volevo solo
dire al mio migliore amico che mi manca. Non so cosa ti sia preso, ma credo
anch’io sia meglio chiudere qui la telefonata. Spero di risentirti presto.”
Tu.tu.tu.
Kurt osservò lo
schermo del cellulare spegnersi, ad indicare che la chiamata era terminata. Che
cavolo aveva combinato?
Dopo
quella telefonata, non si erano più sentiti.
*flashback*
Ripensare
a quei giorni grigi, ancora adesso faceva male a Kurt. Lo lasciava con un peso
sullo stomaco, la mente che turbinava in confusione e gli occhi lucidi. Perso,
per l’ennesima volta quella mattina, nei suoi ricordi, si accorse a malapena in
tempo di essere arrivato alla sua fermata. Scese al volo dal treno e salì
freneticamente le scale, uscendo dalla metropolitana. Svoltò a destra e camminò
a ritmo sostenuto lungo la 5th Avenue, finché non arrivò di fronte al numero
civico 66 e si trovò davanti il palazzo sede della Parsons University.
Si
soffermò un attimo ad osservarlo. Non diede peso ai dettagli architettonici.
Non notò le grandi finestre in vetro, che allagavano di luce le aule. Non si
fermò a guardare il grande portone, anche questo in vetro, con un’enorme maniglia
in ottone. Non badò alla tinteggiatura fresca degli alti muri esterni, né a
come i colori chiari e delicati dell’intera struttura risaltavano
nell’altrimenti grigio contorno metropolitano.
Osservò
l’Università per imprimere bene nella mente ogni dettaglio di quella giornata,
per ricordarsi le sensazione che provava in quel momento. Aveva dovuto
sopprimere tutto il fastidio, il risentimento e la tristezza provocatogli da
Sebastian prima, facendogli pensare a Blaine, e da Rachel poi, la quale aveva
risvegliato in lui ricordi di un periodo ben poco piacevole. Aveva dovuto farlo
per lasciare spazio alla determinazione e alla sicurezza che gli sarebbero
serviti per affrontare quella mattinata.
Oggi
poteva essere il giorno in cui la sua vita, quantomeno in ambito professionale,
avrebbe preso una nuova piega. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe
ottenuto, solo dopo due mesi di studio, una posizione ambita da tutti gli
studenti del suo anno.
Chiuse
per un momento gli occhi, prese un respiro profondo e sistemandosi la camicia,
in realtà perfettamente stirata, alla ricerca di pieghe inesistenti, spinse con
forza la pesante porta d’entrata e si incamminò verso la sua aula.