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Autore: ElleX26    22/08/2012    7 recensioni
Kurt e Sebastian si rincontrano. Situazioni, luoghi, persone diverse. Anche loro sono un po’ differenti, pur essendo rimasti sempre uguali. Sebastian è ancora l’arrogante ragazzino pieno di sé che odora di sesso. Kurt sta ancora con Blaine, anche se il loro rapporto è ormai danneggiato, probabilmente in maniera definitiva.
Rachel è troppo piena di sé. Santana è sempre uguale, stronza e caliente. Anche Brittany è sempre lei: un gran cuore e una mente persa tra unicorni e delfini. Finn è lontano, parecchi fusi orari più in là. Burt è il solito padre affettuoso, anche se ormai è diventato un senatore molto impegnato. L’era del Glee Club sembra lontana anni luce per chi ormai è completamente proiettato verso una nuova avventura. New York è la cornice perfetta per lasciarsi il passato alle spalle.
Prima FF che scrivo. Kurbastian con un assaggio di Klaine. FutureFic!
Genere: Comico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Santana Lopez, Sebastian Smythe, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I SHOULD TELL YOU_3

Hello, bella gente! =)

 

Si, lo so, sono in ritardo.

Proprio dopo aver fieramente annunciato di avere un ritmo settimanale e giorni di pubblicazione fissi da rispettare, sono di nuovo in ritardo.

Ho già detto ad alcune di voi nelle risposte alle recensioni vari motivi, quindi non sto qua ad elencarli, perché credo che i miei problemi non interessino a nessuno. Sappiate però che mi dispiace veramente tanto e che siete autorizzate a minacciarmi con il fucile di Burt.

 

Come al solito, ringrazio dal profondo del cuore chi legge, segue e soprattutto, chi commenta. Grazie a tutte e grazie in particolare a Tallutina, Itagnola, Illy91 e LoveMojito.

 

Detto anche questo, ho un avvertimento per il capitolo.

Non è quello che credo vi sareste aspettate e sinceramente, non è quello che avevo programmato. Questo capitolo doveva essere Kurt –centrico e rispondere ad un po’ di questioni in sospeso: chi era al telefono, la storia della cena e la giornata alla Parsons. È ancora Kurt - centrico e a qualcosa risponde, ma come avete visto dal titolo, è solo una parte dell’intero. Non chiedetemi come, ma ho scritto qualcosa di pantagruelico (vi dico che solo questo sono 15 pagine di Word) e quindi, pur non apprezzando gli spezzettamenti e le questioni in sospeso, ho dovuto dividerlo.

Spero sappiate essere pazienti: le risposte arriveranno, fidatevi.

E arrivate le risposte, inizierà il vero divertimento (= Kurtbastian)

 

 

Vi lascio alla lettura,

spero di sentire le vostre opinioni, specie vista la scelta di dividere e di spiegare alcune cose.

 

Buona lettura,

Elle

 

 

 

 

I should tell you

 

 

Capitolo terzo:

 

“When blu skies fade to grey”

parte prima: vecchi ricordi

 

 

Kurt, cercando di bilanciare tutto ciò che aveva in mano, uscì dalla caffetteria il più velocemente possibile, consapevole di essersi lasciato dietro un Sebastian più che confuso. Non appena la porta del locale gli si chiuse alle spalle, tirò un sospiro di sollievo. Doveva andarsene subito. Non solo perché altrimenti sarebbe arrivato tardi a lezione, ma anche perché in quel momento non era dell’umore giusto per affrontare Smythe.

 

Di fronte all’ex Usignolo si era sentito impotente, frustrato ed umiliato. Non poteva restare lì senza sapere come rispondere alle provocazioni di Sebastian, senza riuscire a controbattere con lo stesso livello di sicurezza e sarcasmo che l’avevano sempre contraddistinto e che erano le armi migliori dell’altro.

 

Era dovuto scappare, cosa che non aveva mai fatto, nemmeno di fronte a chi ne aveva minacciato la vita.

 

Kurt, in quel momento, si sentì vuoto. E soprattutto, per la prima volta dalla morte di sua madre Elizabeth, perso.

 

Si accorse solo in quel momento di essere bloccato, immobile, nel bel mezzo del marciapiede altrimenti affollato di New Yorkesi che correvano frenetici verso la fermata della metropolitana. Si era fermato a riflettere, ma non poteva permetterselo. Non oggi. Non proprio quella mattina, quella mattina per cui aveva aspettato tanto e per cui aveva lavorato fino allo sfinimento. Oggi doveva arrivare a lezione puntuale, mostrare a tutti il suo talento e prendersi, almeno per questa volta, almeno per i suoi studi, una rivincita. Lo doveva a chi lo aveva sostenuto, lo doveva a suo padre e a Finn, lo doveva a Santana, che aveva sopportato i suoi rantoli nell’ultima settimana, – anche se con molta poca pazienza – ma soprattutto lo doveva a se stesso.

 

Mentalmente prese nota di ripensare a Blaine e a tutti i loro problemi quella sera stessa, dopo aver terminato le lezioni, e si diresse anch’egli di corsa verso la fermata della metro. Fortunatamente la Parsons distava solo tre fermate di linea dal suo quartiere, quindi sarebbe ancora riuscito ad arrivare puntuale. Scese le scale della metropolitana e arrivò appena in tempo per infilarsi tra le porte scorrevoli del treno in partenza. Con un sospiro di sollievo, si appoggiò ad uno dei sostegni e si guardò intorno. Vide che proprio dall’altro lato c’era ancora un posto a sedere libero. Un piccolo miracolo – pensò. Non succedeva spesso a New York, di mattina, quando la metro era più popolata, di trovare un posto libero. Sorrise tra sé e sé, – sembrando probabilmente un ebete e forse anche un po’ pazzo -  perché pensò che magari questo fosse un piccolo segno che la fortuna non l’aveva ancora abbandonato del tutto.

Sempre con quel sorrisetto sulle labbra, cercò nella borsa il cellulare per vedere chi era la causa del suo incontro ravvicinato, fin troppo ravvicinato, con Sebastian. Una volta trovato, ne sbloccò la tastiera e vide che c’erano due chiamate perse ed un SMS, tutti e tre da Rachel.

Kurt sospirò profondamente, cancellò le chiamate perse e, preparandosi al peggio, aprì il messaggio.

 

 

Da Rachel_BB:

Caro Kurt, so che ultimamente non ci siamo visti spesso, ma volevo informarti che settimana prossima si terrà la serata di apertura della NYADA. Non so se sai cos’è, ma per essere sintetica, si tratta di uno spettacolo in cui l’accademia mostra i talenti migliori del nuovo anno. Ovviamente io sono stata scelta come solista. Spero proprio di vederti lì. Con affetto, Rachel.

 

 

Appena finito di leggere, Kurt scosse la testa, come sempre divertito, irritato e intenerito allo stesso momento di fronte al tono pomposo con cui Rachel si esprimeva persino attraverso messaggio. Quando però lo rilesse, in particolare la prima riga del testo, il sorriso gli si raggelò sulle labbra, trasformandosi in una smorfia di dolore ed esasperazione.

Si ricordò il motivo per cui aveva avuto delle riserve nell’aprire il messaggio dopo che aveva visto che era di Rachel; si ricordò perché era vero che non si erano visti negli ultimi mesi, pur abitando entrambi a New York; si ricordò perché, tra le tante cose che aveva perso nell’ultimo periodo, poteva elencare anche la sua migliore amica.

 

Aveva sempre riconosciuto Rachel per quella che era. Era una ragazzina viziata, piena di sé, fin troppo esuberante e pettegola. Aveva però un talento enorme e splendente, era una persona caritatevole, era determinata e risoluta. Insomma, Kurt, pur sapendo quanto potesse essere difficile digerire la sua presenza talvolta, le aveva voluto bene, e tanto. Si erano trovati. Due voci perse nel coro di chi non li ascoltava; due persone spesso sole, ma con una pienezza interiore da colmare il vuoto che li circondava. Si erano riconosciuti come simili, entrambi emarginati, con una gran voglia di fuggire da dove erano partiti. Come li aveva definiti Rachel, erano anime gemelle.

 

Quando però le loro strade avevano preso direzioni diverse da quelle che avevano programmato insieme, Rachel era cambiata. O forse non era poi così diversa da com’era stata durante gli anni del liceo e Kurt era cambiato. Chi fosse diverso, chi fosse cambiato, chi avesse ferito l’altro ormai non importava più. Kurt aveva perso la sua migliore amica, probabilmente in maniera definitiva.

 

 

*flashback*

 

Il giorno della cerimonia del diploma Kurt era una palla di nervi. Una palla modellata in esaltazione e felicità; come una piccola pallina magica, saltellava qua e là, spargendo sorrisi e pacche sulle spalle. Finalmente, sentiva che tutto si era sistemato. Gli sembrava che la sua vita avesse ripreso la strada giusta, il senso che doveva avere, incastrandosi a perfezione nell’equilibrio di tutte le cose. Era vero che Kurt era ateo. Non credeva in Dio, né nel fato. In quel momento, però,  era quasi sicuro di vedere il destino sorridergli.

 

 

Il Glee Club aveva vinto le Nazionali, ottenendo fondi per la scuola e anche un riconoscimento dal resto del corpo studenti. Quando erano tornati da Chicago, erano pronti a riprendere il loro posto nella scala sociale del McKinley. Anche se per gli ultimi giorni, erano ormai rassegnati a sopportare insulti, granitate e altri scherzi di pessimo gusto che invece erano esilaranti agli occhi del resto degli studenti, specie degli atleti. Rimesso piede nei corridoi del liceo, però, si accorsero che forse, almeno per quel ultimo periodo, le cose sarebbero andate diversamente. Tornando con la coppa delle Nazionali, ricevettero applausi, complimenti e sorrisi. Le granite le poterono bere dalla cannuccia, non raccogliendole dai vestiti. I cassonetti li usarono solo per gettare i resti del piccolo party che avevano tenuto in aula canto, gentilmente offerto dal Signor Motta – che non è nella mafia. Nessuno sembrava intenzionato ad insultarli perché sapevano cantare. E soprattutto, per la prima volta da quando vi aveva messo piede, quattro anni prima, Kurt non ricevette nessuno spintone, nessuna occhiataccia e nessun insulto a causa della sua sessualità. La nuova atmosfera era rinfrescante, e come un gas esilarante, rendeva i ragazzi sorridenti, energici e felici.

 

 

Sempre in quei giorni Kurt aveva ricevuto anche il regalo per il diploma da suo padre. Era stato l’ennesimo momento in cui il controtenore aveva avuto la conferma di quanto suo padre fosse un uomo speciale.

 

Burt era sempre stato un po’ originale, non tanto perchè si contraddistinguesse per il modo di vestire, per un particolare stile di vita o perché fosse particolarmente distante dalla definizione dell’uomo medio. Tutto il contrario, in realtà.

Burt era un uomo semplice, legato ai valori della famiglia e del lavoro. Indossava camicie a scacchi e consunti berretti da baseball. Seguiva il notiziario ed il football. Viveva in una piccola città e gestiva la sua attività. Burt Hummel, insomma, era il classico esempio di stereotipo. L’originalità della sua persona, però, stava nella sua mente e nel suo cuore.  Se all’apparenza sembrava essere il classico uomo appartenente al ceto medio, nato e cresciuto in Ohio; in realtà, Burt, aveva imparato ad apprezzare la diversità e a diffidare degli stereotipi. Forse  non era sempre stato così, ma amando fino alla follia il suo unico figlio, lui stesso aveva cercato di cambiare e di distinguersi dalla massa. L’Ohio era uno stato conservativo, nello spirito e nelle azioni. Lui, per amore di quel Kurt che aveva giurato di proteggere a sua moglie ormai morente, si era spinto oltre le semplici parole di conforto che tutti erano in grado di propinare ed era passato all’azione. Aveva dimostrato la correttezza del suo punto di vista quando un preside bigotto non voleva che il figlio si esibisse in una canzone scritta ed interpretata da una donna.  Aveva lottato con le unghie e con i denti per proteggere la vita di suo figlio. Aveva lavorato fino allo stremo per pagare una scuola privata dove Kurt potesse essere libero di esprimere il suo vero io. Aveva persino deciso di candidarsi al Senato per fare la differenza. Si, Burt Hummel personificava fisicamente l’uomo tipico dell’Ohio, ma non ne aveva nulla intellettualmente. Non si vergognava di sé, delle sue idee, di suo figlio o della sua nuova famiglia e l’aveva dimostrato mettendosi in gioco in prima persona.

Aveva chiesto aiuto ai cigni di Kurt e per lui si era esibito in una coreografia imbarazzante; solo per dimostrargli quanto, pur essendo totalmente diversi, in realtà lo capisse meglio di chiunque altro.

Kurt si era emozionato di fronte a quello spettacolo a dir poco scioccante. Aveva riso, aveva pianto e alla fine vi si era unito. Aveva ballato con suo padre, dimentico di tutto ciò che aveva passato in quegli ultimi anni, proiettato di già verso il futuro.

 

 

Oltretutto, sempre durante quell’ultima settimana di scuola, Kurt e Blaine si erano parlati, arrivando apparentemente ad un punto di incontro riguardo la loro relazione. Avevano ancora tanta strada da fare, ma dopo essersi confrontati, mantenere quella promessa di non dirsi mai addio non sembrava poi così utopico.

 

 

Kurt sapeva anche che mancavano pochi giorni all’arrivo della lettera di risposta della NYADA.

Aveva spaccato durante la sua audizione. Aveva dominato la scena e, se voleva essere un po’ alla Rachel Berry, esuberante, pieno di sé e forse anche un po’ arrogante, era piuttosto sicuro di aver ottime possibilità di entrare nell’università dei suoi sogni.

 

 

Insomma, quegli ultimi giorni di scuola erano stati indimenticabili per Kurt. Erano stati una parentesi felice, un’oasi di ristoro. Dopo gli avvenimenti di quella settimana, quando finalmente dovette salire sul palco per dire addio al liceo e chiudere così quella parentesi di quattro anni della sua vita, Kurt si sentiva completamente a proprio agio con se stesso e con gli altri. Aveva una nuova energia in sé; guardava al passato con nostalgia ed affetto, ma era anche già proiettato al futuro con eccitazione e brio.

 

 

Se però c’era una cosa che Kurt Hummel aveva imparato nei suoi diciotto anni di vita era che nulla dura in eterno. E così era stato.

 

Il giorno dopo aver lanciato il suo tocco in aria ed essersi sfilato la sua toga, tutto iniziò ad andare a rotoli.

 

 

Visti i festeggiamenti della sera prima insieme a Blaine, che gli aveva organizzato una sorpresa speciale per il diploma e la sua imminente partenza, Kurt quella mattina aveva deciso di dormire un po’ di più. Erano già le undici e ancora riposava beato, quando il suo cellulare iniziò a squillare ininterrottamente. Grugnendo, ancora con un occhio chiuso, si trascinò fuori dal letto per vedere chi stesse disturbando il suo sonno di bellezza. Per l’ennesima volta Rachel Barba Berry era stata la solita guastafeste. Sospirando e strofinandosi gli occhi nel vano tentativo di avere almeno la parvenza di una persona sveglia, Kurt prese il cellulare e accettò la telefonata della sua migliore amica.

 

“Rachel, fa che sia importante. Hai disturbato le mie otto ore di sonno e sai che sono il minimo necessario per ristorare la bellezza. Non posso permettermi di avere rughe a venticinque anni, quando riceverò il mio primo Tony.”

 

“KURT! KURT! Oh mio Dio! Kurt, hai controllato la posta?”

 

“No, perché dovrei?” Kurt era confuso. Perché sarebbe dovuto importargli di controllare la posta il giorno dopo aver ricevuto il suo diploma? Voleva solamente comportarsi pigramente, come qualsiasi altro adolescente che ha appena terminato la scuola. Passò un secondo di silenzio, quando finalmente gli unici due neuroni già svegli riuscirono a fare una sinapsi.

 

“NO! Oh mio Dio! La lettera della NYADA?”

 

“Si, si e ancora si! Kurt, riesci a crederci? È arrivata! Oddio, e se non mi hanno preso? Oddio, cosa faccio? Oddio, non riuscirò mai e poi mai ad aprirla da sola. Kurt, ti prego, fa’ qualcosa.”

 

Kurt, sentendo i rantoli dell’amica, fece ruotare gli occhi, esasperato – sempre la solita esagerata – pensò tra sé e sé. Poi, però, ne ebbe pena e la consolò.

 

“Rachel, ti prego, respira. Non puoi iperventilare proprio adesso. Mi servi viva. Forza, respiri profondi. Dentro e fuori, e ancora” Neanche stesse partorendo – pensò Kurt, che ormai si stupiva difficilmente di fronte all’estrema drammaticità di Rachel. Sentendo all’altro capo del telefono che l’amica stava seguendo i suoi consigli, Kurt si rilassò e si lasciò cadere sulla poltroncina a fianco della scrivania. “Adesso ascoltami bene. Non dovrai aprire la lettera da sola. Mi vesto, vado a controllare se è già arrivata anche la mia e poi, in caso, ci incontriamo e le apriamo insieme, ok? Niente panico.”

 

“Kurt sei un angelo!”

 

“Dimmi qualcosa che non so. Adesso mi preparo e poi ti faccio sapere, ok?”

 

“Va bene, ma fa presto, non so se riuscirò a resistere!”

 

“Si, certo, Rachel, come vuoi tu.” Sospirò, sempre più esasperato e poi aggiunse: “Ti richiamo tra poco.”

 

“Ok, a dopo!”

 

Chiuse la telefonata e gettò con poca cura il telefono sul letto. Corse nel bagno della sua camera, preparandosi ad una velocità che non credeva avrebbe mai potuto raggiungere se si parlava di routine di idratazione. Sempre in fretta e furia, scelse un outfit dall’armadio, abbinando tutti i suoi capi alla sua camicia porta fortuna. Sapeva di comportarsi da sciocco sentimentalista, ma aveva una camicia a cui aveva riservato un posto speciale nel suo cuore. Era una camicia che riteneva portasse fortuna. L’aveva indossata sotto il suo maglione rosso quando suo padre si era finalmente risvegliato, uscendo dal coma. La stessa camicia bianca, semplicissima, l’aveva sotto il blazer della Dalton quando Blaine gli aveva confessato di avere dei sentimenti per lui, emozionandosi ed emozionandolo. Infine, la stessa camicia, l’aveva sotto la giacca che indossava al Prom in cui era stato eletto Reginetta. È vero, era stata una della serate più umilianti della sua vita e probabilmente se fosse stato qualcun altro, avrebbe già bruciato quel pezzo di stoffa che innescava tali ricordi. Per Kurt, però, il Prom non era solo stato vergogna e rabbia, ma anche amore e accettazione. Aveva accettato di essere diverso. Aveva accettato di essere trattato diversamente, solo perché non si conformava alla massa. Aveva capito quanto Blaine tenesse a lui e quanto lui si stesse innamorando di Blaine. Quella camicia rappresentava anche il coraggio che aveva dimostrato salendo sul palco per accettare la corona, e poi ballando con il suo ragazzo di fronte a tutti. Insomma, se mai Kurt avesse creduto nella fortuna, quel semplice pezzo di stoffa bianco, ne sarebbe stato l’emblema per lui.

Non poteva non metterlo proprio il giorno in cui, molto probabilmente, avrebbe aperto la lettera che poteva cambiare il suo futuro.

 

Scese le scale, prese un bicchier d’acqua in cucina e mise a preparare il caffè. Sistemato tutto, fece un respiro profondo ed uscì di casa. Percorse il breve vialetto della residenza degli Hudmel ed arrivò di fronte alla buchetta delle lettere. Con le mani che gli tremavano per l’agitazione e l’emozione, l’aprì, rivelandone il contenuto. Al suo interno c’erano quattro buste chiuse, un volantino pubblicitario ed una cartolina. Kurt si voltò di nuovo verso casa e vi rientrò; andò in cucina e lasciò cadere la cartolina –per Carole, da una collega in vacanza – e il volantino pubblicitario sul tavolo. Ora in mano teneva solo quattro lettere. Le girò: due erano conti da pagare indirizzati a suo padre, mentre le altre due – bè, le altre due erano sicuramente ben più importanti.

 

“Finn, muovi quel culo, esci dal letto e scendi di corsa. Dobbiamo parlare.”

 

Kurt si rigirò tra le mani quelle due buste. Egualmente bianche ed egualmente spesse, avevano però due differenti mittenti e soprattutto due differenti destinatari.

 

La prima lettera aveva impresso in alto a sinistra il simbolo degli Actor Studios; sotto il francobollo che apportava il timbro dell’ufficio postale di New York vi era stampato in semplice Times New Romans il nome Finn Hudson e l’indirizzo di casa loro.

 

La seconda lettera  nelle mani di Kurt era come una pietra preziosa: rara, di estremo valore, da maneggiare con cura, ma che anche titillava terribilmente la sua curiosità. Anch’essa era una semplice busta bianca, abbastanza sottile – in quel momento Kurt non si ricordava se era positivo o meno che la busta non fosse spessa, merda! – con stampato sul bordo sinistro il logo della NYADA. A destra vi era anche su essa un francobollo con apportato il timbro New Yorkese. L’unica differenza rispetto all’altra lettera era il destinatario. Al centro, a destra, in una bella calligrafia in corsivo, vi era scritto Alla cortese attenzione del Sig. Hummel, Kurt e sotto l’indirizzo di casa Hudmel.

 

Mentre Kurt si perdeva a contemplare il valore inestimabile di una semplice busta, Finn scendeva le scale gemendo. “Kurt, che c’è da urlare? Ieri sera ho fatto tipo tardissimo per una maratona di Halo con i ragazzi. Non puoi svegliarmi così presto – con i pugni chiusi si strofinava gli occhi come un bambino piccolo e ogni due parole, sbadigliava – cosa ci sarà poi di così importante proprio stamattina. Dimmi almeno che hai preparato la colazione…”

 

“Finn –“  tentò Kurt, ma l’altro persisteva.

 

“No, nemmeno la colazione? Non è proprio da te, Kurt –“

 

“Finn…”

 

“No, adesso lasci rantolare un po’ me. Prima mi svegli con un urlo da banshee – e si, non fare quella faccia, so cosa sono. Poi scendo, non mi dici cosa volevi e nemmeno c’è la colazione pronta? Non ti riconosco –“

 

“Finn Hudson!” Kurt questa volta aveva urlato, e ciò sembrava aver attirato l’attenzione del fratellastro.

 

“Eh?!” chiese con tono esasperato Finn.

 

“Sono arrivate!”

 

“No – grugnì il più alto – Non mi dire che mi hai svegliato, per l’ennesima volta, solo per mostrarmi qualche strano paio di scarpe che hai ordinato su E-Bay. Mi sembrava di essere stato chiaro l’ultima volta: NON MI INTERESSA  e oltretutto – “

 

“TACI, FINN!” Kurt ormai era ben oltre il livello da Banshee. Aveva alzato talmente tanto il tono di voce da poter essere sentito solo da cani e delfini. “Sono arrivate le lettere da New York, dalle nostre università. Prima mi ha chiamato Rachel, è arrivata anche la sua. Potremmo aprirle insieme, magari?”

 

“Oh. Sono veramente arrivate?”

 

“Si, veramente.”

 

“Oh, oh, oh – il tono di Finn cresceva, sempre più emozionato, mentre lui quasi saltellava sul posto – Fantastico! Posso vederle? Oddio, è proprio come quando spedivo la letterina a Babbo Natale, con la differenza che in quel caso la spedivo, non la ricevevo. Fa niente, però, è emozionante lo stesso. Ti prego, fammele toccare!”

 

Detto questo, con la sua solita grazia da elefante in una cristalleria, Finn si avvicinò al tavolo della cucina, afferrando le lettere in questione e nel mentre, quasi rovesciando Kurt dalla sedia.

Kurt sbuffò e alzò gli occhi al cielo, alzandosi e allontanandosi dall’adorante ragazzone che in quel momento stava letteralmente baciando la sua lettera. Ormai era più che abituato alla goffaggine del fratellastro e dopo averne visti gli effetti sul bel viso di Rachel, aveva imparato a starne lontano.

 

“Allora,  - si fece notare Kurt, dopo avergli concesso un minuto di contemplazione – le apriamo insieme? Devo dare una risposta a Rachel. Credo che le farebbe molto piacere se fossi presente anche tu.”

 

“Cosa? Ah, si, Rachel. Si, va bene. Dille che le apriamo insieme. In aula canto tra un’ora?”

 

“Va bene. Vado ad avvertirla. Vedi di non far colare troppa bava su quella povera busta o non riuscirai più a leggere la tua ammissione.” Kurt sorrise a Finn e poi risalì le scale per andare ad aggiornare Rachel sugli ultimi sviluppi.

 

 

Esattamente cinquantanove minuti dopo, Finn, Rachel e Kurt erano in aula canto al McKinley. Avevano posizionato le loro lettere sopra uno sgabello, intorno al quale si erano poi sistemati in una specie di cerchio. Sembrava quasi volessero proteggere quelle buste, come se fossero delle reliquie.

 

Il primo a parlare fu Finn. “Vorrei aspettare ancora.”

 

“Per quanto?” gli chiese Kurt. Non sapeva se sarebbe riuscito a trattenersi ancora per molto dallo strappare in malo modo quella busta e leggerne il contenuto.

 

“Per sempre. – poi scrollò le spalle, e aggiunse – O almeno solo un paio di secondi, perché è l’ultimo momento prima delle risposte. Dopo che avremo aperto quelle lettere, le nostre vite cambieranno. Indipendentemente da quello che c’è scritto. Volevo solo un altro momento qui con voi, così.”

 

Kurt era agitatissimo, continuava a tormentarsi le mani, ma il discorso del fratellastro lo colpì. Era vero. Dopo aver aperto quelle buste, tutto sarebbe cambiato. In che modo, ancora non lo sapeva, ma comunque lui, la sua vita, i suoi due amici, non sarebbero stati più gli stessi. Tutt’ad un tratto non sapeva più se voleva veramente leggere quella risposta. Se voleva veramente chiudere quella parentesi della sua vita. Un’ondata di panico lo attaccò, ma alla fine la curiosità e la sicurezza vinsero su di essa, facendogli chiedere: “Allora, chi comincia?”

 

*********

 

Come si trovò raggomitolato sotto il lenzuolo del suo letto, di sera, con Blaine che mormorava vuote parole di consolazione nel suo orecchio, ancora adesso non saprebbe spiegarlo.

 

Aveva smesso di singhiozzare almeno un’ora prima. Ora, tutto ciò che sentiva, era vuoto.

 

Un buco nero, una voragine, un tuffo, un lancio in paracadute. Non sentiva più nulla. Dentro di sé non c’era più tumulto, non c’erano più sentimenti vibranti che gli riempivano il cuore. C’era solo il nero, il buio, il niente. Era come annichilito; scontratosi contro qualcosa troppo grande da reggere.

 

Riusciva lo stesso a sentire Blaine che cercava di consolarlo, di coccolarlo. Sentiva le voci preoccupate e piene di sconcerto di Burt e Carole, mentre bisbigliavano proprio fuori dalla porta di camera sua. Sentiva la musica rock sparata a tutto volume proveniente dalla stanza di Finn. Solo che tutto gli sembrava come una nuvola, una nube di vapore indistinta, pronta a scomparire. Quelle voci a lui care, al momento, gli sembravano solo echi lontani.

 

Decise che non voleva sentire. Doveva mettere a tacere quel silenzio che lo stava tormentando dall’interno. Così, si rigirò su un fianco e richiuse gli occhi, lasciandosi cullare da Morfeo in un sonno pesante e per niente ristoratore.

 

Quando riaprì gli occhi, era già mattino; vedeva filtrare dalla tende qualche raggio di sole che entrava ad illuminare la stanza. Aveva dormito col volto girato verso la parete, probabilmente nel vano tentativo di allontanarsi da Blaine. Non voleva vederlo in quel momento, e soprattutto, non voleva essere visto così. Sembrava che il suo piano avesse funzionato, perché quando si girò sull’altro fianco, si accorse di essere solo in camera. Blaine se n’era andato, lasciando dietro di sé solo un bigliettino.

 

Riposa, amore mio, vedrai che ti sentirai meglio. Ti chiamo domani.

Ti amo. Tuo, Blaine.

 

Normalmente, un dolce pensiero di Blaine l’avrebbe fatto sorridere, mettendolo immediatamente di buon umore. Quel giorno, però, la sua bocca non disegnò un sorriso, ma una smorfia. Con un grugnito, Kurt appallottolò il foglietto e lo gettò a terra, poi si stese supino e prese a fissare il soffitto. Era bianco e vuoto, proprio come il suo sguardo. Una lacrima gli sfuggì dall’angolo dell’occhio destro. Se la asciugò strofinandosi la guancia, poi, non sapendo che altro fare e non volendo alzarsi e incontrare nessuno, decise di rimettersi a dormire.

 

La seconda volta che si svegliò non fu pacifica come la prima, niente luce soffusa che entrava dalle finestre, né profondo silenzio.  Degli urli provenivano dal piano di sotto e sembrava che i toni stessero crescendo nel giro di pochi secondi. Kurt si scrollò le coperte di dosso, e ancora solo in boxer e canotta e con i capelli arruffati dal lungo sonno, scese a vedere cos’era successo. Era talmente intorpidito, scosso, con la mente ancora in tutt’altri posti che non si preoccupò nemmeno di farsi vedere in quelle condizioni. Per una fashion victim come lui, era tutto meno che un buon segno.

 

Quando arrivò sulla soglia del salotto, vide suo padre Burt seduto sulla poltrona che era stata del padre di Finn. Si teneva la testa tra le mani, scuotendola e quando l’alzò, Kurt vide che il suo sguardo era afflitto e corrucciato. Carole era in piedi di fianco al divano, le mani sui fianchi e il viso rosso. Era arrabbiata, e si vedeva. Finn era di fronte a lei, in piedi, lo sguardo basso e gli occhi puntati sul pavimento.

 

“Stai facendo una sciocchezza, Finn! Questa idea è malsana, completamente folle. “ Carole aveva preso a camminare avanti e indietro, scuotendo il capo e agitando le braccia, per dare ancor più enfasi al suo discorso. “Di idee idiote ne hai maturate tante nel corso degli anni, ma questa è di gran lunga la peggiore che io abbia mai sentito.”

 

Anche peggio che sposare Rachel a soli diciott’anni? – si chiese Kurt – Stavolta Finn doveva averla combinata proprio grossa.

 

“Mamma, ti prego ascoltami.”

 

“No, ascoltami tu, Finn Hudson. Se credi che ti permetterò di gettare via la tua vita così, e quando parlo di vita intendo letteralmente, non parlo di metafore, ti sbagli di grosso. Sono sempre stata una madre comprensiva e molto liberale. Hai sempre fatto ciò che volevi. Questa volta, però, mi sono stufata.”

 

“Mamma, fammi parlare. Per favore.” Finn aveva alzato il viso, mostrando qualche lacrima a rigarglielo.

 

Burt si alzò dalla poltrona ed andò ad abbracciare sua moglie, cercando di calmarla. “Prova almeno ad ascoltarlo. Discutetene da persone adulte.”

 

“Va bene, ti ascolto.” Carole ormai non sembrava più agitata, nervosa, o arrabbiata. Il suo sguardo era quasi triste, rassegnato, come se fosse preparata al peggio.

 

“Io devo farlo. Lo devo fare per me, per Rachel, per voi.” Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi. “Lo devo fare per papà.”

 

“Finn, ne abbiamo già parlato. Ti ho già spiegato che – “

 

“Fammi finire.” Quando Carole annuì, Finn continuò. “Rachel ha deciso di non partire per New York per aspettarmi.”

 

“Che cosa?” Kurt praticamente gridò, attirando l’attenzione degli altri, che ancora non si erano accorti dell’ultimo arrivato, su di sé. Aveva gli occhi sgranati e la bocca leggermente aperta. Era stupito, completamente scioccato. Era anche terribilmente arrabbiato. Come si permetteva, lei che era riuscita a realizzare il suo sogno, di gettare un’opportunità del genere al vento? Per cosa, poi? Un amore adolescenziale? Se Kurt fino ad un minuto prima pensava di non provare più emozioni, di non avere più sentimenti, in quel momento sentiva qualcosa ribollire nel suo stomaco. Era una sensazione di calore, che lo stava travolgendo completamente, accecandolo. Kurt era furioso.

 

“Cosa diavolo le passa per la testa?”  il suo tono era glaciale.

 

“Kurt – “ Finn cercò di interromperlo, ma l’altro era pronto ad esplodere. In quel momento, tutto ciò che pensava di aver perso, ma che invece aveva solo imbottigliato in un angolino remoto della sua mente, cercando di dimenticare, iniziò a ribollire. Tutti quei sentimenti che aveva finto di non provare nelle ultime ventiquattro ore, pur di non soffrire, ora erano giunti al culmine e stavano cercando una forma di rilascio.

 

“No. Non provarci nemmeno. Siete due idioti. Siete due grandissimi idioti. Come diavolo si permette, Rachel Berry, di rinunciare all’occasione della sua vita, di buttare i suoi sogni al vento? Per cosa, poi? Anzi, forse dovrei dire per chi? – Kurt ormai stava fumando. Il suo tono di voce si era alzato di parecchie ottave e in quel momento non c’era modo di calmarlo. Fissò Finn dritto negli occhi – Come vi viene in mente di gettare alle ortiche l’unica cosa buona accadutale nella sua misera e triste vita solo per giocare a marito e moglie? Sapete cosa significa lottare con le unghie e con i denti per un sogno, per un futuro? Certo che no. Tu non hai ambizioni, sei pronto a baciare il tappeto rosso su cui si poseranno le suole di tua moglie. Lei, invece, ha sempre avuto tutto ciò che voleva. Le basta schioccare le dita, mettere su il broncio o fare un piantino e tutti sono pronti a realizzare i suoi desideri. Bé, lascia che ti sveli un segreto, Frankenteen, il mondo, là fuori, non è il McKinley. Non c’è il signor Schuester pronto a regalarvi il duetto che non meritate. Non ci sono i professori che pur di non ascoltare le lamentele di Rachel o le sue minacce sui diritti civili, le regalano voti in più. La vita, là fuori, fa schifo. Devi sudartele le cose. E quando le hai ottenute, visto che c’è anche chi non riesce mai ad ottenere nulla, ti conviene tenertele strette.”

 

Kurt ormai aveva il fiatone, tanto si era agitato. Sapeva che a mente fredda, razionalmente, non si sarebbe mai permesso di dire certe cose. Non avrebbe mai insultato l’ingenuità di Finn, né l’innegabile talento di Rachel. In quel momento, però, era il risentimento, la rabbia e forse anche un po’ di invidia che l’avevano fatto scattare.

 

“Kurt. Ti prego. Non ti ci mettere anche tu. Fatemi spiegare.”

 

Burt, per la seconda volta quella mattina, decise di fare da paciere. “Adesso basta! Finn deve parlarci e noi, come la famiglia comprensiva che siamo, lo ascolteremo.”

 

Finn lanciò uno sguardo colmo di gratitudine al patrigno e ricominciò a parlare. “Come stavo dicendo, Rachel ha deciso di non partire per la NYADA. Vuole aspettarmi, e vuole aspettare te, Kurt. E Blaine. – si rivolse direttamente a Kurt, come a volerlo rimproverare per ciò che aveva detto prima riguardo ad una persona che invece teneva moltissimo a lui. -  Ha deciso di rimanere a Lima un altro anno. Vuole che ci sposiamo e andiamo a vivere insieme. Poi, l’anno prossimo, quando tutti saranno pronti ad andare a New York, partiremo insieme.”  Prima che riprese, passò un momento di silenzio. “ Vuole esserci per noi. E vuole aspettare noi per iniziare il college insieme. All’inizio ero felicissimo di questa sua decisione. Ci saremmo sposati, avremmo vissuto insieme e io avrei avuto un altro anno per capire cosa fare. Poi, però, mi è tornato in mente un discorso che mi ha fatto Puck. Mi ha chiesto di sognare in grande, per me e anche per lui. Tutti stanno sognando in grande. Lui e Mercedes se ne vanno a Los Angeles, Mike a Chicago. Sono tutti pronti a vivere il loro futuro. Rachel è pronta a vivere il suo da quando ha due anni e ha iniziato a studiare canto. Come posso, io, la persona che dovrebbe amarla di più al mondo, essere anche la stessa persona ad impedirglielo? Non posso. Vorrei, perché la voglio con me, perché voglio sposarla. Perché lei è il mio sogno. Non è giusto per lei, però. Io non sono ambizioso, è vero. Il mio sogno è quello di avere una famiglia, quella famiglia che non ho avuto per sedici anni, prima di incontrare voi. I sogni di Rachel sono tanti, ed è giusto che lei abbia la possibilità di decidere quali inseguire. Devo lasciarla libera, non posso tarparle le ali. È per questo che le ho prenotato un biglietto per New York. Sono già d’accordo con i suoi papà, le prepareranno la valigia e con la scusa del matrimonio io la passerò a prendere. Invece di dirigerci alla sala comunale, la porterò in stazione. Tutte le Nuove Direzioni, Blaine incluso – e con questo guardò Kurt per un attimo – hanno acconsentito di venire a salutarla. Dopo che sarà partita, io sarò qui ancora per due giorni, poi andrò a cercare di capire cosa voglio veramente. Non posso capire chi sono e cosa voglio diventare se sto intrappolato a Lima per un altro anno. Devo andarmene, e se nel frattempo riesco anche a redimere il nome di mio padre, tanto meglio. È per questo che ho deciso di partire per la Georgia. C’è un campo di preparazione militare.  Ho un appuntamento per una visita medica e un check up completo per domattina. Se mi riterranno idoneo, potrò partire.”

 

Nel salotto era calato il silenzio più totale. Carole si era rassegnata di fronte all’idea di vedere il figlio partire e piangeva silenziosamente, abbracciata a Burt. Sapeva che presa la sua decisione, non sarebbe stato possibile fargli cambiare idea. Finn era sì ingenuo, un bambinone, ma era anche testardo come un mulo. Burt cercava di consolare la moglie, e nello stesso momento di osservare con occhio critico il figlio. Voleva vedere come stava reagendo. Aveva pianto, si era chiuso in se stesso e poi era esploso. Ora era arrivato il momento di reagire.

 

Kurt fissava il muro con occhi sgranati. Non riusciva ancora a credere che nel giro di qualche giorno tutto fosse cambiato così drasticamente. Stava però accettando il fatto di non poter farci niente. Non poteva cambiare come erano andate le cose. Non più.

 

“Verrò anch’io a salutare Rachel. E scusa per ciò che ho detto prima. Ero incazzato, e me la sono presa con te. Sono convinto che questa storia dell’esercito non sia il massimo, ma se è la tua scelta, la rispetto. E soprattutto rispetto le motivazioni che ti hanno spinto in quella direzione.”

 

Finn scrollò le spalle e sorrise sghembamente, come a dire che era tutto a posto. “Vado di sopra a prepararmi. Tra un’ora devo essere a casa di Rachel.” Passò oltre Kurt e senza guardarsi indietro, salì le scale verso la sua stanza.

 

Burt sentì Carole rilassarsi nel suo abbraccio. Sapeva che non avrebbe mai accettato la scelta di Finn, ma avrebbe imparato a conviverci. Ora lui, però, doveva pensare a suo figlio.

 

“Kurt, come stai?”

 

“Bene.”

 

“Kurt –“ lo rimproverò Burt – “Non mentirmi, per favore.”

 

“Sto di merda. Francamente non so come altro definire ciò che provo in questo momento. Mi sento svuotato e debole,  ma allo stesso tempo sono anche pieno di sensazioni ed emozioni. La più grande è la paura. Cosa faccio adesso?”  l’ultima domanda fu a malapena sussurrata, come se solo chiederlo ad alta voce spaventasse Kurt.

 

Kurt entrò in salotto e si sedette delicatamente sul divano. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e il volto sulle mani.

 

“Dipende. Cosa vuoi fare?”

 

Kurt rise, amaramente e sarcasticamente. “Direi che ho poca scelta. Sia io che Rachel per scaramanzia avevamo fatto domanda solo alla NYADA, quindi… Direi che riesumo il vecchio piano di Rach: sto qui un anno con Blaine e ci riprovo l’anno prossimo.”

 

“O forse, potresti valutare qualche altra opzioni.”

 

“Non ne ho.”

 

Con un sospiro, Burt sciolse l’abbraccio della moglie e si alzò. Uscì dal salotto e vi tornò dopo qualche minuto con delle buste in mano.

 

“Un uccellino estremamente goffo e terribilmente alto mi ha avvertito per tempo della tua scelta, non ritenendola molto saggia. Così ho pensato di rubare l’idea a Tina – mi è sempre piaciuta quella ragazza – e ho spedito per te qualche domanda in più.” Così dicendo, gli allungò almeno cinque buste di cinque università diverse.

 

Kurt era senza parole. Finn, nonostante i suoi problemi e le sue indecisioni, aveva pensato anche al suo futuro? E suo padre si era fatto carico anche del problema college, nonostante i suoi impegni lavorativi? A volte Kurt si chiedeva cosa avesse fatto per meritare persone così nella sua vita. Erano loro e le loro azioni e le loro parole a ripagare tutto lo schifo che aveva passato e che passava tutt’ora.

Carole, osservando l’espressione sorpresa, ma compiaciuta di Kurt, sorrise. Voleva vedere il suo figliastro, suo figlio, felice.

 

“Prendi queste buste.  Leggi le lettere e pensaci. Parlane con Blaine o con Finn, chiedi consiglio alle tue amiche, a me, a Carole. Insomma, prenditi del tempo per valutare la tua prossima mossa. Che tu scelga di restare qui un altro anno, che tu voglia andare ad un’università qui in Ohio, o a New York o dall’altra parte del mondo, non importa. Ciò di cui mi importa è la tua felicità. Voglio che tu stia bene, te lo meriti, Kurt. E per essere contento e soddisfatto della tua vita, la scelta deve essere tua, e tua soltanto. Hai ancora qualche giorno prima che scadano i termini per le iscrizioni.”

 

Detto questo, fece con un cenno a Carole, che si alzò e lo seguì fuori dal salotto dopo aver lasciato un bacio sulla guancia di un Kurt sempre più sconvolto.  Ancora una volta suo padre l’aveva stupito. Aveva pensato a lui, al suo futuro, senza nemmeno doverglielo chiedere, senza che fosse Kurt a cercare aiuto.

 

Kurt osservò le lettere che teneva strette in mano e iniziò a leggerne le intestazioni, per capire da che università provenissero. La prima busta era stata spedita dall’OSU, l’Ohio State University. Con una leggera smorfia di disappunto, Kurt la mise da parte e osservò la seconda. Questa proveniva dal Michigan, dall’università statale. Sapeva che aveva un ottimo corso di musica; sorrise, pensando che questa scelta dovesse essere un consiglio di Carole. La terza busta portava il logo dell’NYU, e Kurt la valutò con un sorriso più rilassato. Del resto New York era la città dei suoi sogni. La quarta lettera aveva come mittente una piccola università locale, decisamente poco conosciuta. Kurt la mise da parte insieme a quella dell’OSU. Non era un grande fan dell’Ohio. Quando prese in mano l’ultima busta, trattenne il fiato. Veniva da New York, dalla Parsons University New School for Design. Guidato dall’istinto, Kurt decise di non mettere da parte anche questa busta, ma di aprirla subito, eccitato di leggere la risposta all’interno. Dalla soglia del salotto, Burt sorrise. Suo figlio aveva appena trovato la sua strada.

 

 

*********

 

Era passato ormai un mese dal diploma. Era passato un mese dall’ultima volta che Kurt aveva visto il fratellastro Finn o Rachel. Il primo era in Georgia, e non aveva nemmeno il permesso di tenere un telefono cellulare. Poteva chiamare ogni sera per dieci minuti dal telefono del campo e di solito chiamava Carole, così Kurt non ci parlava da almeno una settimana. Rachel si era ormai sistemata nel campus della NYADA e aveva frequentato tutti i pre-corsi estivi. Si erano ripromessi di scriversi e di sentirsi, ma non erano riusciti a mantenere la parola data. Kurt provava quasi ogni giorni a scriverle, ma lei era sempre troppo impegnata per parlarci. Si erano sentiti solo due volte, ed entrambe le telefonate erano state un fiasco.

 

Kurt e Rachel in passato potevano avere avuto tanti problemi di comprensione, potevano aver litigato spesso, fatto a gara a chi urlava di più, ma mai si erano dovuti confrontare con silenzi imbarazzati.

 

“Rachel, finalmente! Come stai?”

 

“Oh, benissimo, Kurt! La NYADA è fantastica, ti sarebbe piaciuta da morire!”

 

Kurt si accigliò e non sapendo come rispondere, optò per non parlare proprio. Rachel sembrò essersi accorta della gaffe fatta e cercò di recuperare.

 

“No, Kurt, oddio, scusa. Non volevo dire quello. Quello che intendevo era che qui si sta veramente bene. I corsi di preparazione sono stati super interessanti. Oh, e poi il campus è veramente bello. Sai, mi ero sempre immaginata l’esperienza universitaria con il mio appartamento, perché vivere insieme a così tante persone, in stanze anonime  - “

 

Rachel stava continuando a parlare, ma ciò che diceva arrivava sempre più sfumato alle orecchie di Kurt. Sapeva che non era colpa di Rachel, ma non poteva far altro che pensare che sentirla discutere delle positività della NYADA lo stesse infastidendo, e molto. Non era mai stato un tipo geloso o invidioso, ma in quel momento provava dei sentimenti decisamente contrastanti nei confronti dell’amica.

 

Accortasi del silenzio all’altro capo della linea, Rachel smise di rantolare sulle bellezze del campus e con tono concitato chiamò Kurt. “Kurt? Kurt, ci sei ancora? È caduta la linea? Kuuuuurt?”

 

“Sono qui, Rach. Ci sono. Adesso però devo andare.” Non vedeva l’ora di mettere fine a quella telefonata, e anche se non riusciva a capacitarsene – amava le lunghe telefonate con Rachel e Mercedes – sentiva che non avrebbe retto ancora molto senza rispondere in maniera poco carina.

Ci fu un altro silenzio pregno di significato e imbarazzo. Kurt poteva sentire Rachel sospirare e poteva immaginarsela nella sua mente, mentre accigliata si chiedeva cosa aveva sbagliato questa volta.

 

“Tesoro, non è per te, veramente. – bugia- È che devo uscire per delle commissioni e sono già in ritardo.”

 

“Si, Kurt, non ti preoccupare. Capisco perfettamente.” Altro silenzio. Kurt sospirò – come erano arrivati a questo punto? Perché doveva esserci imbarazzo tra di loro? Erano migliori amici. Non era giusto.

 

“Va bene, allora vado. Ciao Rach.” “Ok, ciao Kurt!”

 

 

La seconda telefonata era stata due settimane dopo. Kurt era finalmente approdato a New York e si stava abituando alla sua nuova vita, alla sua nuova città e alla sua nuova convivenza. Una sera della settimana prima, lui e Rachel avevano organizzato un’uscita a cena e Kurt era riuscito a trascinarsi dietro anche una borbottante Santana. Rachel, però, all’ultimo minuto aveva mandato un messaggino, dicendo di non riuscire ad andare a causa di una lezione protratta fino a tardi. Kurt ne era rimasto deluso, ma aveva capito.

Da quella sera – che aveva procurato a Rachel qualche anno di accidenti da parte di una latina piuttosto scocciata – non si erano più sentiti, nemmeno per messaggio. Così, quando Kurt, mentre faceva spese per la cucina del nuovo appartamento, aveva ricevuto una telefonata dall’amica, ne era rimasto piacevolmente sorpreso.

 

“Pronto?”

 

“Ciao Kurt, sono Rachel!”

 

“Ehi, Rach. Come va?”

 

“Benissimo!” Kurt conosceva l’amica e sapeva che il tono usato era quello eccitato per una qualche novità. Sentendola così esaltata sapeva che doveva essere qualcosa di grosso.

 

“Sto bene anche io, Rach, grazie,” aggiunse in tono ironico “Comunque, che mi racconti? Si sente dalla tua voce che stai morendo dalla voglia di raccontarmi qualcosa.”

 

“Oh si, Kurt, scusa. È che è fantastico!” “Racconta, allora.”

 

“Abbiamo iniziato le lezioni con la Tibidaux. Non sai quanto sia brava”  No, infatti non lo so e non lo potrò mai sapere – pensò con rammarico Kurt. “È geniale. È un talento naturale. Le sue lezioni sono le migliori. L’altro giorno abbiamo lavorato sui solfeggi e mi ha fatto anche un complimento, cosa che non fa mai, quindi direi che ho ottime chance di essere scelta come solista per la serata d’inaugurazione del nuovo anno accademico.” Per l’ennesima volta la sola cosa di cui Rachel era capace di parlare era se stessa e il suo talento. “Oh, poi mi è appena venuta in mente una cosa. Sicuramente l’anno prossimo, quando riproverai ad entrare alla NYADA, perché parliamoci chiaro, Kurt: il tuo destino è la NYADA e Broadway, sicuramente non andare a fare il galoppino per qualche donna in menopausa che dirige una qualsiasi rivista di moda. Comunque, dicevo che l’anno prossimo, quando rifarai il provino per la NYADA, sicuramente avrai ottime chance di farcela. Proprio l’altro giorno la Tibidaux diceva quanto le mancassero voci maschili alte, che avessero un range vocale esteso. Ha detto esattamente che sono anni che cerca un controtenore all’altezza della scuola, ma che ancora non l’ha trovato. Insomma, è perfetto, rifarai il provino e – “

 

“Rachel,” Kurt dovette fermarsi e respirare profondamente. Sapeva che probabilmente Rachel non si era nemmeno accorta di ciò che aveva detto, ma feriva ugualmente.

 

“Che c’è? Ti sto dando la notizia migliore della tua giornata e non mi fai nemmeno finire.”

 

“Rachel, ti sei ascoltata? Prova a ripensare a cos’hai detto.”

 

“Che l’anno prossimo,”

 

“No, prima.”

 

“Che la Tibidaux cerca da anni un controtenore.”

 

“Esatto.”

 

“Appunto. Lo cerca e non lo trova, quando ti incontrerà – “

 

“Rachel, lo cerca da anni e non l’ha ancora trovato. Io ho già fatto il provino. E sono un controtenore.”

 

“Oh,”

 

“Appunto – oh.”

 

“Oddio, Kurt, scusa, sai che non è quello che intendevo.”

 

“No, quello che intendevi era insultare la mia nuova carriera universitaria, distruggendo nel frattempo qualsiasi mio sogno a riguardo. Nella stessa frase sei riuscita ad insultare me, la mia università e la mia voce. Il tutto sottolineando quanto invece tu sia felice e quanto la NYADA e la Tibidaux, la stessa professoressa che mi ha scartato, siano meravigliose. Direi che mi hai proprio dato la notizia della giornata.”

 

Rachel rimase in silenzio per un momento – miracolo – poi capendo di aver oltrepassato il limite per l’ennesima volta, tagliò corto. “Mi dispiace, Kurt. Non me ne ero accorta. Sai che socialmente sono imbranata ed imbarazzante. Direi che per il momento è meglio se ci salutiamo, magari.”

 

“Si, magari.” Il suo tono era uscito più acido di quel che volesse, ma era veramente infastidito dal comportamento dell’amica. Non la sentiva praticamente da secoli. Non si vedevano da più di un mese. Ora lo chiama, pensando di dargli una gran notizia e sbattendogli in faccia la sua nuova vita, finendo solo ad insultarlo. Come poteva non essere quantomeno scocciato?

Era vero che Kurt apprezzava la sua nuova scelta ed era emozionato di iniziare presto la sua università, ma la sconfitta della NYADA ancora bruciava, e molto, e sentire certi discorsi faceva ancora male.

 

“Senti, Kurt, prima che vada, volevo dirti che… che mi dispiace e che mi manchi. Non è la stessa cosa qua senza di te. Il mio sogno era venire a New York ed entrare alla NYADA, insieme e si è realizzato solo in parte. Mi manchi da morire, Kurt.”

 

Kurt sentiva gli occhi inumidirsi. Anche a lui mancava Rachel e i loro sogni insieme, ma aveva già sofferto abbastanza per entrambi e sentire queste parole da parte di Rachel invece che fargli piacere e scaldargli il cuore per l’affetto dell’amica, lo fecero indispettire e sbottò come aveva fatto con Finn e come aveva cercato di non fare per tutta la telefonata.

 

“Rachel, io ti voglio bene e tutto, ma al momento non so cosa tu pretenda. Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che pianga al telefono su ciò che ho perso? Vuoi che rantoli su quanto mi manchi, su quanto mi manca la mia migliore amica? Vuoi che singhiozzi quanto vorrei essere con te? O magari vuoi un’altra gonfiatina al tuo ego e vuoi i complimenti perché tu ci sei riuscita e io no? Vuoi sentirti dire che ti invidio, così potrai gongolare per l’ennesima cosa che mi hai portato via? Non succederà, e se hai chiamato per questo puoi anche chiudere qui la telefonata.” Nemmeno Kurt stesso sapeva da dove provenisse tutto questo risentimento, sapeva solo che ora che l’aveva sfogato si era tolto un peso dallo stomaco, anche se farlo gli aveva lasciato un’amara sensazione in bocca.

 

Rachel stava tirando su col naso, era evidente anche senza vederla che stesse trattenendo un pianto.

“Io volevo solo dire al mio migliore amico che mi manca. Non so cosa ti sia preso, ma credo anch’io sia meglio chiudere qui la telefonata. Spero di risentirti presto.” Tu.tu.tu.

 

Kurt osservò lo schermo del cellulare spegnersi, ad indicare che la chiamata era terminata. Che cavolo aveva combinato?

 

Dopo quella telefonata, non si erano più sentiti.

 

*flashback*

 

 

Ripensare a quei giorni grigi, ancora adesso faceva male a Kurt. Lo lasciava con un peso sullo stomaco, la mente che turbinava in confusione e gli occhi lucidi. Perso, per l’ennesima volta quella mattina, nei suoi ricordi, si accorse a malapena in tempo di essere arrivato alla sua fermata. Scese al volo dal treno e salì freneticamente le scale, uscendo dalla metropolitana. Svoltò a destra e camminò a ritmo sostenuto lungo la 5th Avenue, finché non arrivò di fronte al numero civico 66 e si trovò davanti il palazzo sede della Parsons University.

 

Si soffermò un attimo ad osservarlo. Non diede peso ai dettagli architettonici. Non notò le grandi finestre in vetro, che allagavano di luce le aule. Non si fermò a guardare il grande portone, anche questo in vetro, con un’enorme maniglia in ottone. Non badò alla tinteggiatura fresca degli alti muri esterni, né a come i colori chiari e delicati dell’intera struttura risaltavano nell’altrimenti grigio contorno metropolitano.

 

Osservò l’Università per imprimere bene nella mente ogni dettaglio di quella giornata, per ricordarsi le sensazione che provava in quel momento. Aveva dovuto sopprimere tutto il fastidio, il risentimento e la tristezza provocatogli da Sebastian prima, facendogli pensare a Blaine, e da Rachel poi, la quale aveva risvegliato in lui ricordi di un periodo ben poco piacevole. Aveva dovuto farlo per lasciare spazio alla determinazione e alla sicurezza che gli sarebbero serviti per affrontare quella mattinata.

 

Oggi poteva essere il giorno in cui la sua vita, quantomeno in ambito professionale, avrebbe preso una nuova piega. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe ottenuto, solo dopo due mesi di studio, una posizione ambita da tutti gli studenti del suo anno.

 

Chiuse per un momento gli occhi, prese un respiro profondo e sistemandosi la camicia, in realtà perfettamente stirata, alla ricerca di pieghe inesistenti, spinse con forza la pesante porta d’entrata e si incamminò verso la sua aula.

 

 

P.S. mi sono accorta che c'è qualche problema di layout. Io non ho messo tutti questi spazi bianchi. Non so perché ci siano, spero sia comunque leggibile senza difficoltà! =)
  
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