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Autore: Taranim    01/09/2012    4 recensioni
Prima che potesse elaborare un qualunque pensiero coerente, un secondo urlo si levò dal budello di stradine che si dipanavano davanti a lei. Un brivido le corse lungo la schiena ammantata di nero, quando riconobbe una voce familiare tra le note del grido. La morsa puramente mentale, ma non illusoria, attorno alla sua gola si fece più stretta, ed un lieve sussurro rotolò dalle sue labbra rosse come il sangue:
"No." La sua voce, pura poesia arrochita dall’inquietudine, "Lui non può essere qui".
(Estratto del I capitolo)
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Questa è una long-fic, temporalmente collocata all'inizio dell'Ordine della Spada, scritta da un punti di vista esterno ai personaggi direttamente coinvolti: potrebbe sorprendervi la scelta del personaggio narrante.
Genere: Dark, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 I




"What came... the twilight shadow.
What one was lost in... the darkness of time.
What will meet... the gap between past and future". 





L’umidità era un velo di raso sulla sua pelle increspata dai brividi; si muoveva rapidamente, i passi svelti, quasi rabbiosi, colpivano il selciato della strada umida e viscida di pioggia. La fredda brezza della sera le venne incontro, sollevandole i ricci scuri come il giaietto dal perfetto ovale del suo viso, ed ella sbuffò, cercando di fermarli con una mano.
“Vento incivile” sibilò seccata, scavalcando a grandi falcate larghe pozzanghere fangose.
L’espressione decisa e innervosita impegnava gli occhi, anch’essi scuri, fissi ed attenti sulla strada davanti a sé, le sopracciglia erano piegate in un cipiglio, e le labbra chiuse in un broncio contrariato. Era seccante doversi recare alla sede dell’Ordine senza l’ausilio di una carrozza: quella che aveva noleggiato si era rotta a metà strada, e lei era già in imperdonabile ritardo, così aveva deciso di rimettersi al vecchio detto popolare “chi fa da sé fa per tre”, e si era incamminata a piedi, nonostante l’ora tarda.
Svoltò l’angolo, allontanandosi dalle vie principali, dove i grandi ed illustri palazzi della Cittadella vennero presto sostituiti da edifici meno imponenti e più modesti: un’ondata di profumo di fiori, in particolare di rose, le fece intuire di essersi addentrata nel Borgo di Altieres, famoso per i suoi giardini nascosti oltre le mura che circondavano le vie lungo la strada.
Il picchiettare dei suoi tacchi sembrava catturare l’attenzione delle lunghe e pesanti ombre o meglio, di ciò che si annidava tra di esse, ma la scholara pareva essere troppo presa dai propri pensieri per accorgersene. Sul volto crucciato il segno più evidente della sua irritazione era il labbro inferiore sporto leggermente verso l’esterno, un’abitudine fanciullesca che non aveva perso durante la gioventù, con un certo disappunto della sua balia.
Era nientemeno che la magistra ed era in ritardo di almeno mezz’ora: si sarebbe persa l’iniziazione degli aspiranti all’Ordine, oltre che ricoprirsi di vergogna per il comportamento frivolo. Il solo pensiero di dover sopportare i rimproveri cantati del proprio Praeceptor le fece torcere il naso in un’espressione disgustata e dovette reprimere l’impulso di tornare sui propri passi per far rimpiangere al vetturino la propria esistenza.
Volse lo sguardo alle proprie spalle, un gesto non necessario e distratto, calcolando quasi sovrappensiero che già da diversi minuti aveva oltrepassato la Cittadella, con i bagliori dei suoi locali storici e maschere di seta su visi troppo perfetti per essere umani. Era il centro cittadino, il luogo di ritrovo per eccellenza, ivi si svolgevano tutte le attività commerciali della Capitale e la vita non si interrompeva mai: le vie erano sempre trafficate, di giorno come anche la notte. Un sopracciglio scuro sulla pelle di miele s’inclinò, perplesso, scrutando la via con attenzione; una vaga sensazione di vuoto le sfiorò il ventre, mentre un interrogativo si faceva strada nei suoi pensieri. Percepiva qualcosa. No, era l’assenza di qualcosa ad aver destato la sua attenzione. Una discontinuità, un errore talmente sottile in ciò che la circondava che, inizialmente, non vi aveva neppure fatto caso.
Se aveva da poco oltrepassato le vie della Cittadella, com’era possibile che non avesse ancora incrociato nessuno?
La sera era illuminata solo da alcune lanterne ad olio, quelle poche che erano sopravvissute al temporale, e la tranquillità che regnava dopo la pioggia invitava dolcemente ad abbassare la guardia.
 
Perché non si sente alcun rumore?

Un grido squarciò il vellutato cielo notturno, brutale e assordante, inchiodando i suoi passi al suolo, mentre dentro di lei qualcosa si frantumava. Nient'altro che l'effimera e illusoria rassicurazione che, per quante malignità serpeggiassero tra le strade, non avrebbero mai colpito lei. In pochi attimi, il filo dei suoi pensieri s'interruppe, lasciando un vuoto nel caos della mente.
L'odore dell'umidità era mischiato a qualcos'altro, ma l'olfatto della ragazza era troppo rozzo per riuscire a riconoscere che cosa fosse; si guardò attorno, in un frusciare ansioso di lunghi boccoli corvini. La piccola piazza in cui si trovava, era solo parzialmente illuminata, e da essa partivano lingue di marmo più strette e pullulanti di ombre conducenti ai livelli inferiori della Cittadella; alti palazzi con gli scuri chiusi e i portoni inchiodati frettolosamente con assi e materiale di fortuna, le restituirono le occhiate fugaci e allarmate.
Irrigidita dalla sottile morsa di ansia che iniziò a comprimerle il petto, fu con la coda dell'occhio che si accorse di un luccichio lattiginoso strisciarle ai piedi. I suoi occhi scuri si abbassarono e furono attraversati da un guizzo di puro raccapriccio alla vista della nebbia impalpabile che le serrava le caviglie esili.
Prima che potesse elaborare un qualunque pensiero coerente, un secondo urlo si levò dal budello di stradine che si dipanavano davanti a lei.
Un brivido le corse lungo la schiena ammantata di nero, quando riconobbe una voce familiare tra le note del grido. La morsa puramente mentale, ma non illusoria, attorno alla sua gola si fece più stretta, ed un lieve sussurro rotolò dalle sue labbra rosse come il sangue:
"No." La sua voce, pura poesia arrochita dall’inquietudine, "Lui non può essere qui".
Se poco prima era impietrita, con le braccia lungo i fianchi ed un’espressione di pura angoscia sul volto color miele, le sue gambe si mossero rapidamente, impazienti, guidate dalla memoria del suo udito. Qualunque pensiero razionale era stato soppiantato dal semplice istinto, che la spinse sotto un porticato dalle esili colonne, il quale s’interrompeva all’angolo di uno dei vicoli stretti che sfociavano sulla piazza. I rumori tornarono all’improvviso, lasciandola stordita: la ragazza incespicò, e si adagiò contro il muro del palazzo; non badò al freddo del marmo che, superando la barriera dei vestiti, le penetrava nelle carne e nelle ossa, per ascoltare.
Gemiti soffocati e imprecazioni provenivano dal vicolo, ed un fragore vagamente familiare di ossa che si scontrano contro la carne. Con una certa riluttanza, la giovane si costrinse a piegarsi verso l’angolo arrotondato del palazzo per lanciare un’occhiata nel buio della viuzza.
Riuscì a distinguere cinque figure alla luce delle fiaccole: una di queste era stesa a terra, tenendo piegata contro di sé una gamba, e altre tre troneggiavano su di essa, inveendo con pesanti calci, mentre l’ultima delle cinque sostava con la schiena appoggiata ad una delle mura ed una voluta di fumo saliva verso l’alto in una spirale grigia e tetra.
Le salì un nodo alla gola quando, riportando lo sguardo sulla vittima, riconobbe la familiare chioma dorata: Vandemberg, pensò, stringendo senza riflettere le dita in un pugno.
“Dovreste imparare a portare più rispetto per gli studenti anziani, matricole. -una voce affilata e volutamente strascicata coprì i lamenti del giovane a terra- Sarebbe un peccato se, a causa di uno sfortunato incidente, quel tuo bel faccino si sfigurasse orribilmente…”.
Il respiro le morì in gola, sentendo l’altro ragazzo confermare e riconoscere Jordan nella figura stesa a terra, ansimante.
Non poteva lasciarlo lì e andare a chiamare la Guardia Cittadina: avrebbe impiegato troppo tempo e non voleva correre il rischio che quei disgraziati riuscissero a sfuggirle, impuniti; ma, mentre la sua mente elaborava, uno dei ragazzi ammantati di nero sferrò un calcio al costato del principe, strappandogli un grido soffocato.  Questo mise fine ai ragionamenti della ragazza. I suoi piedi si mossero verso il vicolo, la mente che lavorava febbrile e l’istinto le urlava di scappare.
Il rumore dei tacchi sulla pietra levigata sembrava assordante e parve mettere in allerta coloro che si nascondevano nelle ombre del vicolo; man mano che si avvicinava, la donna sentì una morsa di ansia chiudersi attorno alle sue viscere eppure, sbattendo violentemente i piedi per terra, riuscì ad accantonare quella sensazione.
Le fiaccole appese ai muri dei palazzi servivano a ben poco, ma il fato parve sorriderle scostando le pesanti e violacee nubi dalla luna; la luce pallida di quest’ultima illuminò la scena: i tre che circondavano il piccolo Vandemberg, vestiti con i mantelli dello Studium, avevano interrotto la barbarie ed ora la scrutavano con ostilità, mentre il quarto elemento, la fissava con occhi gelidi. Occhi familiari ed estranei al tempo stesso, grigi come il metallo attraversati da ombre più buie della notte: le bastò il suo sguardo per riconoscerlo; non era poi così diverso dai suoi fratelli, considerò la ragazza, tornando a osservare il giovane a terra.
Jordan, rannicchiato in posizione fetale, si mosse appena, grattando gambe e gomiti sulla pietra dura. Un gemito intriso di sofferenza e astio spirò dalle sue labbra, abbruttite da un grumo di sangue rappreso.
I tratti morbidi della giovane si indurirono in un’espressione furente, sentì la rabbia salirle alla gola: avrebbe voluto urlare, ma quello che uscì dalle sue labbra rosse fu una voce decisa e tagliente come uno schiocco di frusta.

“Gabriel Stuart spero vivamente che non conosciate l’identità della vittima della vostra viltà” esordì, arrestando i suoi passi a qualche metro da loro, il mantello leggero ondeggiò attorno alle sue caviglie sottili prima di arrestarsi, docile.
Un velo di silenzio parve posarsi su quel vicolo: nessuno dei presenti si mosse, l’attenzione dello Stuart era sulla donna ammantata, la quale scrutava i visi dei cinque figuri con espressione furente, la schiena irrigidita in un atteggiamento sicuro e le mani celate. I ragazzi, invece, si limitavano a guardarsi a vicenda, con gli occhi atterriti di chi è stato sorpreso a compiere un atto proibito.
Per qualche istante, ella sentì sulla lingua il dolce sapore della soddisfazione: amava le entrate ad effetto, e le loro espressioni erano una ricompensa al proprio ego.
Fu il giovane Gabriel a riaversi per primo, la sua voce di delicata impertinenza squarciò il silenzio:
“Chi sareste voi per darmi del vile?” domandò, lasciando la parete per muovere un passo verso di lei.
Lentamente, la ragazza alzò le mani avvolte in pizzo scuro e abbassò il cappuccio, accompagnandolo sulle spalle esili, e inchiodò l’erede degli Stuart con severi occhi scuri.

“Selina Kristian”.
 
Le palpebre socchiuse di lui ebbero un fremito nel riconoscerla, ed ella sentì il suo respiro interrompersi per qualche attimo. Se lo avesse schiaffeggiato, forse avrebbe ottenuto lo stesso effetto, pensò. Eppure, Selina aveva maturato abbastanza esperienza con gli Stuart da sapere che il suo stupore non sarebbe durato per più di qualche minuto: quasi poteva intuire le macchinazioni della sua mente laboriosa all’opera, e lei non aveva intenzione di fornirgli il tempo necessario per elaborare alcunché.
Spostò lo sguardo su uno dei suoi scagnozzi, che ancora circondavano Jordan: “Tu, trovami una carrozza. Se entro dieci minuti non sei di ritorno con essa, stai pur certo che passerai due settimane nella Prigione a riflettere sulla tua prestanza fisica”.
Senza avergli fatto un gesto di congedo, il ragazzo partì di corsa, con un’espressione allarmata in volto e sparì oltre il vicolo, sollevando piccole gocce dalle pozzanghere.
Gli occhi neri di lei saettarono nuovamente in quelli di Gabriel, il quale flesse lentamente il busto in avanti eseguendo un inchino.
“Perdonatemi lady Kristian, non vi avevo riconosciuto” pronunciò con voce strascicata, melliflua, abbassando educatamente lo sguardo.
Lei non parve nemmeno sentirlo: “Le scuse le farete domattina al Tribunale degli studenti per il vostro comportamento deplorevole”.
In pochi passi fu accanto a Vandemberg, e si chinò su di lui, sotto gli sguardi astiosi degli altri aggressori. Selina chiamò il suo nome scostando le ciocche di capelli, che i raggi lattiginosi della luna tingevano d’argento, dal viso pallido, deturpato dai lividi gonfi e sanguinanti; la mano guantata e affusolata della giovane ebbe un tremito nell’incontrare gli occhi cerulei di lui, incastonati in un volto magro e sofferente.
Un suono cupo uscì dalle labbra di Jordan, più simile ad un grugnito che ad una parola sensata, eppure quel semplice gesto parve costargli un grande sforzo. Sembrava volerle indicare qualcosa nell’ombra del palazzo, più avanti nel vicolo, dal modo in cui muoveva gli occhi e il braccio.
Un suono soffocato giunse dalle ombre e poi dei passi strascicati e pesanti. Selina si portò una mano al petto, e si dimenticò di respirare: sentiva il rumore di qualcosa che si trascinava sulla strada nella pozza scura del vicolo. Perfino il freddo e distaccato Gabriel si irrigidì e la sua mano scivolò sotto il mantello cupo.

Un’ombra strisciò via dall’angolo, e si avvicinò a loro con una lentezza che le fece gelare fin dentro le ossa. L’incedere affaticato e pesante ricordò a Selina quello delle creature mostruose, spauracchi per bambini. Essa venne raggiunta dai rivoli di luce delle fiaccole affisse alle pareti e la scholara potè riconoscere una figura umana, un ragazzo, il cui viso era imbrattato di sangue. Un'altra vittima del temperamento violento di Gabriel.
 
“Aiutateli a mettersi in piedi” ordinò in tono imperioso, la sua voce assunse improvvisamente un tono basso e freddo.
 
Non era inusuale che avvenissero risse tra studenti, ma dubitava che quella fosse stato un semplice e casuale diverbio manesco. Era più propensa a pensare che fosse un regolamento di conti, un fatto non raro e grave; inoltre, il fatto che delle matricole stessero bighellonando per le strade della Cittadella dopo l’orario del coprifuoco, era un fatto abbastanza grave da rischiare l’espulsione dallo Studium e lei, Selina, aveva l’autorità sufficiente per suggerire il provvedimento al Tribubale studentesco.
Il più giovane degli Stuart sembrava seguire i suoi stessi pensieri dallo sguardo con cui la scrutava nella penombra della luce lattiginosa, mentre i suoi compagni eseguivano gli ordini.
Stessa pasta dei fratelli, pensò la ragazza, con una lieve smorfia.
Uno scalpiccio di passi frettolosi e scostanti la fece sussultare e, con movimento fluido, tornò a erigersi in tutta la sua altezza: il rumore era stato talmente rapido e improvviso che temette di averlo solo immaginato. Con le viscere contratte nella stretta dell’ansia, scandagliò le ombre della strada stretta, senza poter vedere attraversò l’oscurità; brividi di freddo le attraversarono la schiena, ed un altro rumore colpì il suo udito, affinato e teso: zoccoli al trotto, una carrozza in avvicinamento.
  Poteva sentire lo sguardo di gelida calma dello Stuart su di sé e, infastidita dal quella quieta insistenza, ripeté l’ordine accennando al ragazzo sanguinante a qualche metro da loro, e con un ampio gesto del braccio gli fece segno di precederla verso l’imbocco del vicolo. Il giovane si avvicinò con una lentezza quasi esasperante, gli occhi grigi impermeabili ad ogni emozione, si sistemò il braccio dell’altra matricola attorno alle spalle e lo tirò bruscamente in piedi, strappando al ferito un gemito.
“Stuart, non avrai dimenticato la gentilezza a Maderian, mi auguro -lo riprese, bruciandogli la nuca scoperta con un’occhiata furiosa- Perché potrei dimenticarmene anche io, domani, al Tribunale”.
 
 
   
 
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