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Autore: Destin_Lop    03/09/2012    0 recensioni
Questa non è una storia come tante altre, forse non ci crederete ma mi è successo davvero. Abito ad Oslo, una città fantastica fino a qualche tempo fa. So soltanto che una forza esteriore mi è entrata dentro, dandomi dei poteri ai quali ancora non riesco a credere.
Mi chiamo Rupert ho 17 anni e questa è la mia storia.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Davvero quel posto mi sorprendeva sempre di più! 
Tra tutti i piccoli elfi io ero un piccolo gigante; tutti mi guardavano con paura, e nella mia mente pensavo “Perché hanno paura di me?”. Hirpor mi rispose che assomigliavo al “problema” e quindi tutti pensavano che fossi lì per provocare qualche catastrofe.
Stavo iniziando a capire. Hirpor mi condusse in un piccolo gazebo, dove si trovava una decina di elfi.
“chi sono?”- chiesi.
“Sono i membri dell’assemblea della kat’ah”- Non riuscivo a credere alle mie orecchie; Assemblea, kat’ah, ma che diavolo stava succedendo?
Hirpor mi rassicurò dicendomi che mi avrebbe spiegato tutto con calma.
Il piccolo elfo dagli occhi di ghiaccio occupò posto su una delle dieci poltroncine. Io ero troppo alto per entrare nel piccolo gazebo, quindi dovetti rimanere fuori.
Mi sedetti sull’erba soffice e fresca e rimasi sconcertato nel sentire parlare i piccoli elfi. Parlavano elfico, mi aspettavo di capirci qualcosa, d'altronde era tutto così strano, non mi sarei meravigliato di capire l’elfico. Rimasi un po’ deluso, in effetti, ma subito Hirpor mi disse: “Dovrà passare del tempo ragazzo mio, non ci vorrà molto prima che tu apprenda le nostre usanze.”
Mi misi il cuore in pace, infondo mi fidavo di lui.
Tutti gli elfi mi guardavano con disprezzo, non mi sorprese; che cosa avrei fatto io se mi fossi trovato nella stessa situazione e mi avessero portato un ragazzo che è simile al mio “problema”.
Ero in ansia, che cosa stavano dicendo? Quando avrei conosciuto il “problema”? Ero così curioso ma allo stesso tempo agitato; e se non fossi stato all’altezza del mio compito?
M’imposi di non pensare più, allora mi ricordai le parole che mi disse Hirpor “ Sei speciale Rupert, sappilo; lo scoprirai presto il perché”.
L’assemblea andò avanti per ore, senza che io capissi niente, ma quando fu il momento di conoscere il “problema”, mi svegliai.
Incredulo di quanto mi fosse successo, controllai l’orario sulla mia sveglia di topolino, (caspita la possiedo da quando avevo sette anni!) le 11.45.
“Caspita!”- esclamai buttandomi giù dal letto.
Dovevo passare questi ultimi giorni d’estate con papà e non volevo avere altro cui pensare.
Cercai in tutta casa, ma di mio padre nemmeno l’ombra.
Mi affacciai sul balcone nella speranza di trovarlo lì, ma senza successo.
Che diavolo stava succedendo, papà non mi aveva mai lasciato da solo senza dirmi nulla.
Non ci feci troppo caso, infatti, andai subito a fare colazione, quando sul tavolo c’era un bigliettino:
Chiamami quando ti svegli, è urgente. Papà.
Non aspettai un secondo di più, afferrai il telefono e chiamai subito mio padre.
“Rupert, è urgente, tua madre ha avuto un grave incidente con la sua auto, adesso è ricoverata" Siamo al The National Hospital University, sbrigati, le sue condizioni sono gravi.
Non riuscii a rispondere a mio padre, la paura e l’angoscia presero il controllo del mio corpo.
Presi il primo autobus che trovai, avevo paura, paura di perderla. Non mi ero mai sentito così. In questi momenti ti senti in colpa, sì in colpa, per non aver sfruttato al meglio tutti i momenti con la persona che adesso rischi di perdere. E con la musica al massimo nelle orecchie andai all’ospedale, con la speranza che la musica mi facesse sentire meglio.
L’ospedale distava tre quarti d’ora da casa mia; ogni minuto era frustrante, l’unica cosa che volevo era arrivarci il più presto possibile.
 
Varcai la soglia dell’ospedale, il cuore in gola, le mani sudate, non riuscivo nemmeno a parlare.
“Scusi, dov’è ricoverata Tiffany Tyler?”- domandai all’infermiera al banco informazioni.
“E’ nella stanza 384, al secondo piano, terza porta a destra.”
“Grazie”- mi affrettai a rispondere.
Presi le scale, l’ansia mi stava divorando. Trovai facilmente la stanza, mi fermai sulla soglia; mio padre era in lacrime che stringeva la mano a mia madre.
Da quando tempo non li vedevo così vicini, pensai.
Entrai in camera, mio padre si asciugò gli occhi e disse:
“ Un ubriaco andava a 180 chilometri orari, non ha visto Tiffany, e l’ha travolta.” – Si limitò a dire mio padre.
Gli accarezzai il braccio in segno del “tranquillo-andrà-tutto-bene”, ma infondo guardando la mamma, sapevo anch’io che non sarebbe tornata la stessa.
Aveva il viso sfregiato, era piena di lividi e raschi, e i medici non sapevano se avrebbe ripreso coscienza.
 
 
Rimanemmo tutto il pomeriggio con la mamma, in attesa di un miglioramento, che purtroppo non arrivò.
Il medico entrò, guardò mio padre, e insieme andarono a parlare fuori dalla stanza.
In quel momento scoppiai a piangere, avevo una fottutissima paura di perdere quella che fino in quel momento della mia vita, era stata la donna più importante, che c’era sempre stata, e che mi aveva sempre coccolato troppo.
Le parlai, sperando che lei mi sentisse, le chiesi di svegliarsi, e di non lasciarmi solo; sarei stato perso senza di lei.
Dopo cinque minuti, papà rientrò in stanza e mi disse le cinque parole che mi sconvolsero l’esistenza: Tua madre è in coma.
  
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