Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: Cali F Jones    09/09/2012    4 recensioni
Nel 1985 Arthur Kirkland è giovane uomo d'affari inglese che ricorda la sua esistenza da punk apatico nella Belfast degli anni '60 e l'incontro con Alfred, un ragazzo americano trasferitosi nell'Irlanda del Nord. Ricorderà i momenti più belli, ma anche i più dolorosi rivangando un passato fatto di ombre, rimpianti e peccati mai confessati.
[Avvertenza! Arthur è in versione punk]
Più avanti con i capitoli ci sarà una scena lemon. A tempo debito alzerò il rating.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
{Chapter 2: And the violence caused such silence ~


Chissà perché quella storia non cambiava mai.
Ero entrato in camera di Darren senza bussare. Lo avevo visto seduto sul letto, con una rivista sulle ginocchia, di quelle che, a suo tempo, gli comprava sempre papà, quelle con le donne nude, impegnato a masturbarsi. Un'orrenda visione, a dire il vero. Così Darren pensò bene di risolvere anche quel problema piazzandomi un pugno in un occhio. Mi spinse a terra e prese a riempirmi di calci nelle costole. Ormai avevo perso il conto di quante me ne aveva rotte nel corso degli anni. Mi mollò una pedata in bocca. Quando iniziai a sputare sangue si fermò. Mi afferrò per un braccio e mi sbattè fuori dalla sua stanza, ordinandomi, da oltre la porta già chiusa, di darmi una pulita.
Mamma era seduta in salotto. Televisione a tutto volume, una cicca fumante tra le dita e lo sguardo perso nel vuoto. Mi scorse arrivare dal corridoio. Mi squadrò, poi tornò a guardare la tv. Credo che, in qualche modo, lei stessa avesse troppa paura di Darren per dargli una strigliata.
Mi diressi verso la porta d'ingresso, quando sentii la sua voce assonnata: "Cosa ti sei fatto?"
"Niente".
"È stato Darren?"
"Sì".
"Cosa gli hai fatto?"
"Sono entrato in camera sua senza bussare".
Mamma aspirò la sigaretta, lo sguardo ancora sulla televisione dove trasmettevano una di quelle odiose televendite.
"Ora hai imparato la lezione?" riprese.
Non risposi. Annuii con un cenno del capo, indi presi la porta ed uscii. Vaffanculo. Era quello il modo di insegnarmi una lezione? Avevo solo quindici anni, ma sapevo riconoscere la differenza tra violenza ed educazione. Mia madre no, evidentemente.
A pensarci bene, all'epoca non odiai Darren. Non potevo odiarlo. D'altronde, a lui, cos'altro era stato insegnato se non la violenza fine a se stessa? Volevano che apprendessi anch'io un tale insegnamento. Ogni volta che mi picchiava, sentivo Darren intimarmi di reagire. "Reagisci! Combatti! Sii uomo!" urlava, sferrandomi calci e pugni. Poi mi diceva che ero una femminuccia, un finocchio, che non ero nemmeno in grado di sostenere una rissa e che, per questo, meritavo di essere picchiato. Perché il più forte vince sempre sul più debole. Era la regola del gioco. E io stavo in silenzio e le prendevo. Semplicemente perché era così che doveva andare. Lui era forte, io ero debole. Lui vinceva, io perdevo. Elementare, Watson!
Mi misi a sedere sul gradino all'ingresso, con la testa fra le mani. Osservai quello che, in teoria, si sarebbe potuto chiamare giardino: era un ammasso informe di sterpaglia e fango. Pioveva spesso, in Irlanda, così come in Inghilterra. Anche in quel momento, il cielo era grigio, coperto da pesanti nuvole. Non mi piaceva la pioggia, non mi è mai piaciuta, l'ho sempre detestata. Avrei voluto vivere in un luogo pieno di sole, di persone sorridenti, allegre. Magari con una bella famiglia, in una bella casa e...e...
Stava cominciando a piovere o quella che ora mi bagnava la guancia era una lacrima? Dannazione! Non dovevo piagere, se Darren mi avesse visto...
Ma, in un attimo, Darren mi passò di mente. Lui, quella gran troia di mia madre, mio padre, i miei altri fratelli, la mia vita di merda. Avevo così tante cose per piangere, eppure non avevo nulla. Con i palmi mi asciugai gli occhi. Ma le lacrime non cessavano nemmeno per un istante di cadere. Basta basta basta piangere! Darren sarebbe potuto uscire dal un momento all'altro. Dovevo trattenermi, basta! Merda...
Sentivo il petto gonfiarsi. Poi scoppiavo in singhiozzi. Ancora piangevo. Non riuscivo davvero a fermarmi, stavo esagerando. Ma...ma...perché doveva essere tutto così fottutamente difficile? Perché proprio io?
"Hey, tutto bene?"
Una voce squillante davanti a me mi ridestò. Alzai lo sguardo, incrociando il suo. Era un ragazzino; non riuscii ad inquadrare subito la sua età perché, se di viso sembrava più piccolo di me, in altezza mi superava alla grande. Aveva capelli biondi, con un ciuffo ribelle sparato per aria che sfidava arrogante la forza di gravità. I suoi occhi erano azzurrissimi, di quell'azzurro...beh, forse avrei detto azzurro cielo, se mai avessi visto il cielo di un colore che non fosse il grigio topo-di-fogna. Portava un paio di occhiali dalla montatura trasparente.
"Va tutto bene, amico? Oh..."
Mi osservò con un sorriso stampato sul volto, un sorriso che, a primo impatto avrei definito assolutamente idiota, ma che poi avrei invidiato. Poi il sorriso si tramutò in uno sguardo preoccupato. Che cosa...ah, già, l'occhio nero e il sangue dal naso. A quanto pare, Darren si era sbizzarrito con i cazzotti sul naso quella volta.
"Zia Ethel! Zia! Vieni!" chiamò a gran voce il ragazzo, voltandosi all'indietro verso una donna che solo in quel mentre notai. Era la mia vicina di casa, la signora Ethel Doyle, viveva in quella piccola villetta dall'altra parte della strada. Era una signora sulla sessantina, un po' bassa e tarchiata, ma di una gentilezza unica. Non mancava mai di salutarmi ogni volta che passavo di lì e, quando mi vedeva tornare a casa stanco da scuola, mi chiamava, regalandomi qualche manciata di biscotti fatti in casa.
La signora superò la staccionata e si avvicinò.
"Oh cielo, Arthur! Cosa hai fatto alla faccia?"
"Ah...no, no, questo...non è niente...non si preoccupi, signora Doyle".
"Oh no, non va per niente bene, vieni da me, che medichiamo queste brutte ferite".
E, senza darmi il tempo di obiettare, mi afferrò per un polso e mi trascinò oltre la strada, nella sua casa. Era una donna incredibilmente forte, dovevo ammetterlo.
La sua dimora era la tipica casetta inglese, arredata con ninnoli, soprammobili e centrini. A casa mia, quelle cose non venivano mai nemmeno nominate. Credo che mia madre neanche sapesse cosa fossero.
Nonostante le mie obiezioni neanche tanto convinte, la signora Doyle mi fece sedere sul suo divano. Era morbido e comodo, a differenza del mio.
Mentre ella andò a prendere disinfettante e garze, il ragazzo, che nel frattempo ci aveva seguiti, si sedette accanto a me.
"Come hai fatto a ridurti così?"
"Sono...ehm...sono caduto...giocando a calcio..." bofonchiai. Quella era la scusa che inventavo tutte le volte che qualcuno mi chiedeva cosa fosse successo. Non volevo mettere nei guai mia madre e tantomeno mio fratello. Anche perché sapevo che, se avessi parlato, le avrei prese di nuovo, magari da entrambi stavolta.
"Non ti credo!" se ne esordì, però, lui.
"E tu che cavolo ne sai?"
"Ti hanno picchiato?"
"Non sono affari tuoi!"
"Sì, ti hanno picchiato".
"Ti ho detto che non sono affari tuoi!"
Quel ragazzino! Lo conoscevo da circa...due minuti? E già aveva cominciato a starmi sui coglioni!
In quel mentre, la signora Doyle tornò e, con un batuffolo di cotone impregnato di un poco d'alcool, prese a tamponarmi gli ematomi che avevo sulla faccia.
"Oh, Arthur, come è successo?" domandò l'anziana signora.
Aprii la bocca per rispondere, ma qualcuno pensò bene di dare aria alla sua inutilmente.
"È stato picchiato".
"Alfred!"
Così quel coso irritante si chiamava Alfred. Buono a sapersi! Mi serviva un nome irritante da associare ad una faccia irritante. Mio padre si chiama Al. Non sarebbe stato per niente difficile odiarlo.
"Perdonalo, Arthur. Ogni tanto questo mascalzone dimentica le buone maniere" disse ancora la signora Doyle, afferrando il ragazzo per un orecchio. "Ed ora" continuò, rivolgendosi ad egli "vai a preparare del tè caldo".
In mezzo agli "ahi ahi" e i "mollami", Alfred borbottò un "ok", per poi, una volta rilasciato, fiondarsi in cucina.
"Al...Alfred vive con Lei?" domandai, sentendo la voce morirmi un poco a pronunciare quel nome. Erano pur sempre ricordi di merda che evocava, cosa potevo farci?
La signora Doyle abbassò la voce. Mi spiegò che quel ragazzo era suo nipote, veniva dagli Stati Uniti ed era recentemente rimasto orfano di entrambi i genitori. Lei e suo marito erano i suoi parenti più vicini, perciò era stato affidato a loro.
Uno yankee, quindi. Quando tornò, reggendo un vassoio con una teiera fumante e tre tazzine, lo osservai. Non aveva affatto l'aria di passarsela male. Sembrava uno di quei ragazzini che si vedono nei telefilm. Avete presente quelle sitcom in cui la protagonista è la tipica famiglia americana che si ritrova coinvolta in una serie di avventure tanto patetiche quanto improbabili? Ecco, lui sembrava essere uscito da uno di quei programmi ridicoli. Non riuscivo a guardarle, quelle sitcom. Ogni volta che vedevo uno di quegli irritanti bambocci brufolosi e lentigginosi che sorridevano, magari senza un dente, sentivo crescere in me un odio profondo. Un odio chiamato invidia. Li invidiavo. Terribilmente. Invidiavo il loro stile di vita, la loro famiglia, i loro capelli con la riga perfettamente al centro, i loro maglioncini a rombi da secchioni, le loro lentiggini che li rendevano così adorabili agli occhi di tutti gli ospiti. Invidiavo tutto di loro. Tutto ciò che loro avevano in quel mondo finto, di cartone, io non l'avevo nella realtà. Non potevo averlo e non potevo nemmeno sognarlo.
Ecco, Alfred mi fece questa prima pessima impressione. Non era lentigginoso, non aveva i capelli perfettamente pettinati e tantomeno indossava un maglioncino a rombi. Ma sorrideva. Diavolo, quanto sorrideva! Avrei voluto afferrarlo per il collo e urlargli: "Che cazzo sorridi? I tuoi genitori sono morti!" Volevo smontare tutto ciò che lo rendeva così maledettamente felice. Lo invidiavo. Lo invidiavo da morire. Invidiavo la sua felicità. Quella cosa di cui per troppo tempo ero stato privato.
Chi l'avrebbe mai detto che proprio quel ragazzino me ne avrebbe regalata tanta?
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Cali F Jones