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Autore: Verdonica    10/09/2012    3 recensioni
Sorridendo impacciata a quei visi che le si paravano davanti, veri proprietari della classe in cui era approdata quasi per sbaglio, raggiunse un banco in seconda fila vicino al muro e vi si stazionò, decisa a non lasciarlo più.
Con un sorriso altrettanto impacciato la raggiunsero dei ragazzi dopo un paio di minuti.
-Sei nuova?- chiese il primo.
“No, ero qui anche l’anno scorso, però non devi avermi visto”.

-
-Io non capisco, davvero fate così?-
-Certo, tutte. Dalla prima all’ultima-
-Ma perché? E’ masochismo! E’ mentire!-
-Certo, ma è meglio così che dover spiegare perché lui non ti ha richiamata o non ti ha chiesto di uscire, ancora peggio perché lui ti ha tradita con una palesemente più bella, più magra e probabilmente anche più simpatica di te, con meno paranoie soprattutto.-
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Bocciata dalla vita.
Ecco come si sentiva nei suoi mo
menti più melodrammatici. Altrimenti si definiva semplicemente una sfigata troppo immatura per capire a cosa stava andando incontro. Ovvero l'eternità in uno stupido liceo di provincia.

Amelia, diciotto anni, di aspetto piacente e carattere scadente, avrebbe dovuto affrontare la maturità con i compagni con cui aveva iniziato il liceo. In realtà a lei sarebbe spettata un’impresa assai più ardua: superare l’ostacolo della terza. Ebbene si, quell’anno si sarebbe trovata, e non per caso, per la terza volta in terza liceo scientifico.

Chi sosteneva che il tre fosse il numero perfetto? Non lei di certo.
In ogni modo oltre al suo grande senso melodrammatico, che pensava le avrebbe fatto fare una discreta carriera nel mondo dello spettacolo se avesse voluto (aggiunto ovviamente alla sua grande abilità nel mentire e farsi credere), per tutta la sua carriera, fallimentare, scolastica… lei provava vergogna, e non poca. Appurato ovviamente che fosse stata tutta colpa sua, cosciente del fatto che non ci fossero altri responsabili e che il risultato fosse semplicemente dovuto alla sua mancanza di maturità, aveva pensato anche a soluzioni estreme, quali cancellarsi dalla faccia della terra per non provare l’onta della dicitura “pluribocciata”. Ovviamente il tutto sarebbe stato molto teatrale, data la sua innegabile vena artistica.

Resasi conto dell’assurdità della cosa e che magari non fosse l’idea migliore per lei, i suoi genitori, i suoi fratelli, sua sorella, i suoi amici, e il fatto che volesse fare sesso almeno una volta prima di andarsene, la fecero optare per una scuola privata.
Un ottimo compromesso.
Ottimo finché non ci mise piede, ovviamente.
Aveva un bel dire, sua madre, che era un’occasione. Si, e che occasione!

Sin dal primo momento, bisogna dirlo, era stata piuttosto restia a frequentare una scuola privata, altresì definita paritaria (come se cambiasse qualcosa, poi: il succo era che si doveva pagare una retta spropositata), per ovvi motivi.
Primo: bisognava pagare. E nonostante l’ovvietà della cosa, la trovava una gran scocciatura. Perché pagare per essere istruiti? Perché pagare per essere formati? Perché pagare per non essere ignoranti e abbindolati, inevitabilmente?
Secondo: era una scuola cattolica. Perché si, i suoi genitori ovviamente non potevano scegliere una scuola solo privata, ma dovevano anche trovarla cattolica. Diretta da un frate. Un frate, capite? Abominevole per Amelia.
Terzo, ma non per importanza: i cosiddetti “mucci con la puzza sotto il naso”. Peggio dei francesi, insomma. Perché Amelia si credeva una gran conoscitrice del mondo e quindi già sapeva che tipo di persone avrebbe trovato, ovvero quella categoria di persone che si riteneva superiore agli altri solo per la propria disponibilità economica, cosa non di poco conto negli ultimi tempi, è vero, ma pur sempre un motivo sciocco per ritenersi migliori. Sommandolo al fatto che sarebbe stata in classe con persone di due anni meno, si sentiva male al solo pensiero.

Aveva passato l’estate così, lei. Ad ironizzare su ogni minimo aspetto della sua futura scuola per evitare di vedersi, e farsi vedere, effettivamente in ansia. Purtroppo in questo modo non aveva ritardato l’arrivo di settembre, così, mentre ancora festeggiava il suo tanto atteso diciottesimo compleanno, si ritrovava a pensare a come avrebbe fatto a trovare la sua classe in quel castello che l’aspettava come scuola.

Ed era arrivato. Quel primo giorno, tanto agognato, e non per il piacere di viverlo, era arrivato. Tra l’altro, con due giorni d’anticipo.
E mentre camminava verso la scuola, in una cittadina ancora addormentata visto il ritardo di apertura delle altre scuole, si chiedeva se qualcuno avrebbe potuto notare l’assenza di una ragazza mai vista.
E mentre camminava verso la scuola, in una mattina ancora fresca data l’ora non tarda, si chiedeva se il suo cuore sarebbe potuto scoppiare per la velocità con cui batteva.
E mentre entrava dal portone della scuola, in uno stato d’animo per niente ottimale, le si dipingeva in volto una smorfia tra lo schifato e il rattristato.
E mentre si dava dell’idiota mentalmente, perché se si trovava lì era solo colpa sua, si chiedeva se qualcuno avrebbe potuto indicarle la classe.

E poi trovò quel qualcuno.

Un simpatico signore, custode del piano, la accompagnò persino in classe, augurandole un felice anno. E lei gli sorrise, ironica.
E poi, voltandosi, incominciò tutto.
Sorridendo impacciata a quei visi che le si paravano davanti, veri proprietari della classe in cui era approdata quasi per sbaglio, raggiunse un banco in seconda fila vicino al muro e vi si stazionò, decisa a non lasciarlo più.
Con un sorriso altrettanto impacciato la raggiunsero dei ragazzi dopo un paio di minuti.
-Sei nuova?- chiese il primo.
“No, ero qui anche l’anno scorso, però non devi avermi visto”. Ecco la solita vena acida che stava per scattare. Amelia si autocensurò e rispose con un semplice –Si- e tese la mano.
Qui incominciarono una sfilza di nomi che, dopo appena trenta secondi, aveva già scordato. Le proposero di fare un giro e lei, presa alla sprovvista, accettò.
Grave errore.
Dopo infatti appena cinque minuti era da sola in mezzo al cortile, circondata da persone mai viste che sapevano esattamente dove andare, a differenza sua.
Aveva due opzioni: chiamare la mamma o fare emergere il suo senso dell’orientamento scout, mai venuto a galla fino a quel momento, per ritrovare la sua classe.
Decise di tenersi la chiamata per l’emergenza successiva e cominciò a vagare nei corridoi alla ricerca del suo amatissimo banco. Lo trovò, dopo aver fatto il giro dell’oca, e decise che si sarebbero lasciati solo per emergenze come la pipì, da quel momento in avanti.

Arrivò la prima professoressa, le prime domande, richieste, presentazioni. Le prime ore buttate via, del primo giorno. E più la giornata continuava, più scopriva un mondo a cui lei non era concesso entrare ma solo guardare, un po’ come stava scritto nelle vetrine dei negozi: “guardare ma non toccare, rivolgersi al commesso”. E più scopriva quel mondo, più rimaneva a bocca aperta. Perché era un mondo dove tutto era basato sull’apparire, sul luccichio dei propri accessori, sulla firma dei propri accessori.
Accessori che ad Amelia mancavano.
Accessori di cui, fortunatamente, non sentiva la mancanza e non aveva intenzione di cominciare a sentirla.
Perché Amelia, dopotutto, quando voleva era forte. O meglio, era forte riguardo queste cose: il non lasciarsi corrompere dai beni materiali, l’essere integra e seguire sempre la sua morale, non farsi abbindolare. E se qualcuno aveva dei problemi con lei per come si comportava riguardo i punti sovra citati, non ci metteva né uno né due a dirgliene di tutti i colori, ovviamente con diversi spruzzi d’acidume, mettendolo a tacere.

Amelia era brava con le parole, bisognava ammetterlo. Ma ancor meglio se la cavava con le parole scritte che con quelle pensate e dette al volo, perché per quelle si faceva in fretta a sbagliare, una volta che le dicevi non te le potevi rimangiare. Mentre nelle parole scritte, Amelia trovava un fascino tutto suo. Amava rileggerle, con diverse tonalità, cancellarle e cambiarle, per trovarne di più azzeccate. Per non parlare poi delle concordanze dei tempi.

Arrivò la seconda professoressa, poi la terza ed infine la quarta.
E la prima giornata finì. Non si può dire che volò perché per Amelia il tempo non era esattamente passato velocemente, però passò fortunatamente.

E quello che apprese da quel primo giorno di scuola, intenso a suo modo, furono diverse cose: per raggiungere la sua classe, salite le scale, doveva girare a destra, i bagni stavano nell’altro corridoio e mancavano solo 199 giorni alla fine della scuola.

E lei ce l’avrebbe fatta ad uscirne viva.

  
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