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Autore: UncleObli    13/09/2012    2 recensioni
La solitudine è come un veleno. Si infiltra subdola nelle crepe della vita quotidiana. E cosa accade quando la speranza, così irresistibilmente effimera, svanisce in un battito di ciglia? Questo è ciò che è accaduto al protagonista di questa storia.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Pierre Janet sostiene che noi, piccoli esseri umani, in realtà non siamo altro che una confederazione di anime sotto il controllo di un io egemone. Se è vero, il mio cambiò quella notte.

Camminai lentamente, assaporando la freschezza della brezza serale di una giovane nottata estiva ;il viale fiocamente illuminato della piccola città di provincia nella quale mi trovavo  mi permetteva di cogliere sprazzi di mondo nonostante l’ora tarda: nella panchina accanto alla strada due giovani innamorati si erano dati appuntamento, e la loro spensierata felicità mi inebriava il cuore di una tristezza straziante ma dolce allo stesso tempo, dalla finestra spalancata di un anonimo condominio una sonata di Chopin, e il suo suono familiare contribuì a placare il turbinio di pensieri che mi agitava il cuore. Mi calmai, e improvvisamente la mia disperata lucidità mi lasciò interdetto. Confuso,  arrestai i miei passi silenziosi e voltai il capo verso destra, fingendo di osservare la vetrina di uno squallido negozio d’abbigliamento.  L’immagine riflessa di un gracile ragazzo di poco più di diciassette anni rispose al mio muto richiamo, ma ne scansai lo sguardo indagatore, e con uno scatto rabbioso, mi allontanai verso le tenebre di un vicolo mal illuminato.
Inconsciamente, sin da quando la mia mente ferita mi aveva portato in quella ridicola cittadina, avevo già deciso cosa sarebbe stato necessario fare per il mio bene, e quindi non mi presi nemmeno il disturbo di fingere meraviglia quando mi ritrovai, solo, all’ombra di un vecchio campanile costruito qualche secolo orsono in uno stile gotico appena abbozzato. Mi concessi di ammirare per qualche istante la guglia affusolata che pareva sfidare il cielo con la propria ingombrante presenza, poi mi mossi. Ridussi ad ampie falcate la distanza che mi separava dalla costruzione e infine la azzerai, giungendo ad un vecchio portone in legno di mogano, sul quale uno sconosciuto artista aveva scolpito con sorprendente grazia dei fiori di camelie. Ricordai sorpreso una scena di un vecchio film di Ozu, “Le sorelle Munekata”  , nella quale una camelia, ergendosi impavida su di un trono di freddo muschio, fa tremare le corde dell’anima di un muto stupore assai vicino alla commozione, ma non mi concessi di indulgere in tali pensieri e quindi afferrai un piccolo coltello tascabile dalla tasca anteriore dei miei pantaloni da pochi soldi, e in pochi abili gesti scassinai la porta del campanile. Presi un profondo respiro ed entrai in un ingresso polveroso come solo i luoghi nei quali la vita ha rinunciato a lottare per imporre la propria presenza possono essere. Iniziai a salire le scale con una lentezza quasi teatrale, ed invero oggi penso che fu quasi un peccato che solo i topi ne poterono godere.  Credetti di scorgere molte figure del mio passato fra le ombre scure dell’antica costruzione ma cercai di convincere un me stesso stranamente restio che era solo suggestione, e non il sottile piacere dei morti di fronte al decadimento del mio corpo e della mia anima. Finalmente, giunsi in cima alla guglia, e il piacevole spettacolo di un nuovo giorno che inizia rinfrancò in parte la mia fredda delusione. Il sole dorato illuminava dolcemente il tetto di molte abitazioni, nelle quali certamente mariti, mogli e bambini inconsapevoli del movimento del mondo si preparavano a indossare le loro maschere quotidiane, io invece mi accingevo, ribelle, a scrollarmela di dosso in un impeto di furia che nessuno avrebbe colto, e che si sarebbe perso nell’etere incommensurabile del tempo come la fioritura di un giovane ciliegio in primavera.
Scavalcai il parapetto e ammirai il limite dell’orizzonte, simulacro solenne del limite umano che non può e forse non deve, essere superato, quindi mi gettai nel vuoto.

Sapete, dicono che quando si sta per morire si rivive improvvisamente la propria vita, che si rivedono le scelte fatte, i luoghi visitati, le persone conosciute, amate, morte o mai più riviste, niente di più che un sogno, uno sbuffo di fumo,  ma che vale una vita intera. È vero.
Così accadde anche per me. Mentre la forza di gravità mi spingeva velocemente e inesorabilmente verso la fine, una luce bianca mi avvolse, il tempo sembrò congelarsi mentre tornavo ad essere polvere, un esserino neonato di sangue e carne, un ragazzo impertinente e  infine il guscio vuoto che ero ora, il tutto in pochi millesimi di secondo, ma li avvertii distintamente come se ogni attimo fosse un secolo.  Un inutile scherzo del destino, l’ultima ironia: io, che per sfuggire all’angoscia della vita ero salito così in alto per ammirare meglio la bassezza della mia esistenza, in punto di morte, ero costretto a rivedere e accettare le scelte che mi avevano condotto alla fine di ogni cosa.
L’accelerazione mi fece lacrimare gli occhi, poi risi: era come se la parte più intima della mia anima soffrisse ad abbandonare questo mondo e piangesse dalla disperazione…ma naturalmente anche quell’effimera risata non poté che durare qualche secondo. Appena prima dello schianto, un pensiero improvviso ed inatteso minò l’ultimo residuo di forza e convinzione di cui ancora ero in possesso:

Chissà…se le mando un bacio la raggiungerà?

E poi subito:

…no, credo proprio di no.

Poi il nulla.

  
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