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Autore: Brooke Davis24    15/09/2012    2 recensioni
1708, Altoona, Pennsylvania.
Sophie, il suo essere indomita, caparbia, fiera, spesso sfrontata ma più di tutto donna, come poche altre riuscivano ad essere a quel tempo. Incastrata da un affetto troppo grande per non essere deleterio, riuscirà a liberare il suo cuore dalle catene che tentano di soggiogarlo?
Tratto dal terzo capitolo:
"Ora che nessuno avrebbe più potuto farle pesare ciò che era, rimpianse di non averlo compreso prima, di aver versato lacrime amare per via del modo in cui era stata guardata. Non avere i genitori era sbagliato, parlare con la gente di colore era sbagliato, correre, inzaccherarsi nel fango, giocare alla guerra con i ragazzetti era sbagliato, rispondere a tono era sbagliato. Esisteva qualcosa nel mondo che, per una donna, non fosse compromettente? La risposta era giunta qualche tempo dopo la sua partenza, quando il suo cuore le aveva suggerito che, qualunque cosa avesse fatto, la gente l’avrebbe additata per il solo gusto di farla sentire fuori posto, arrogandosi un diritto che nessuno avrebbe dovuto possedere su un essere umano. Come poteva un uomo giudicare l’anima di un altro e il modo in cui essa veniva espressa senza mai averne preso visione?"
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Dicembre 1708. Pennsylvania.
Una quiete fiabesca ma solo apparente vigeva nella ridente città di Altoona. Un freddo pungente era sceso giù dai monti circa una settimana addietro, portando con sé  un gelido vento ed una coltre di neve spessa più di quanto non fosse stata negli ultimi anni, o, almeno, era così che i più vissuti tra gli abitanti ricordavano.
Quell’anno, molti mali si erano abbattuti sulla popolazione del luogo e, benché fossero riusciti a debellare buona parte delle burrascose disgrazie a cui erano stati sottoposti, un buon numero tra giovani uomini e donne aveva esalato l’ultimo respiro, lasciando dietro di sé lo strazio di un dolore che solo il tempo avrebbe potuto lenire. La tubercolosi si era insinuata nelle tranquille consuetudini giornaliere di Altoona, mietendo vittime che neppure le più strenue preghiere erano riuscite a salvare, ed il terrore e la disperazione che ne avevano seguito il passaggio avevano investito l’unico punto di riferimento su cui, da sempre, i cittadini avevano potuto contare.
Jordan Woods era un ricco mercante che aveva costruito con le proprie mani una fortuna di ottimali proporzioni, assicurandosi gli agii di una vita lontana tanto dall’ozio quanto dalla povertà. Era giunto in Pennsylvania parecchi anni addietro, segreto imbucato in un viaggio che, partendo dall’Inghilterra, aveva attraversato l’intero Atlantico, e, aiutato da una buona dose di fortuna, era sopravvissuto alla tempesta che aveva dimezzato gran parte dell’equipaggio della Victoria, la nave di un avido esploratore alla ricerca di tesori nascosti tra le foreste del Nuovo Mondo, abitate dai nativi. Denutrito e fortemente debilitato, quando le sue gambe tremanti avevano toccato terra, aveva fatto appena in tempo a trascinarsi in un angolo del porto che un numero imprecisato di persone tra uomini e donne, imbarcatisi abusivamente insieme a lui, erano stati brutalmente scaraventati tra le acque torbide di un mare tremebondo.
In seguito al suo arrivo, aveva viaggiato a lungo ed era pervenuto nei pressi di Altoona una mattina come un’altra, mentre il sole faceva capolino sull’orizzonte e gli usci delle prime case si aprivano e richiudevano oltre la schiena di decine di lavoratori. Era rimasto immediatamente affascinato dai ritmi cadenzati del villaggio, dal modo in cui, a dispetto dell’inferno che imperversava a non molte miglia da lì, la gente del posto viveva la propria vita con spirito gaio e frizzante, dimentica dell’avidità delle grandi colonie, prossime alla loro. Ed era stato in quel momento che aveva compreso di aver trovato terreno fertile per la sua buona volontà e, se la sua buona Stella fosse rimasta ancora al suo fianco, probabilmente anche per una discreta dose di felicità. A quel tempo, del resto, senza amici né famiglia, non avrebbe potuto contare su altri che se stesso e, del resto, la sua sorte non era stata poi così avversa.
A distanza di più di trent’anni, Jordan Woods poteva vantare il possesso di una grossa tenuta nella periferia della città, circondata da ettari ed ettari di terreno di sua proprietà su un versante e da una fitta boscaglia sull’altro. Nonostante le proprie ricchezze,tuttavia, era rimasto sensibile ai problemi della gente e, oltre ad aver dato lavoro ai tre quarti della popolazione di Altoona, si era premurato di trovare una soluzione, quando la tubercolosi aveva minacciato di uccidere anche l’ultimo abitante, rischiando il contagio a sua volta. Era per questo – E per molte altre ragioni! – che nessuno dei lavoratori rimasti al suo servizio aveva pensato di abbandonarlo, quando l’uomo aveva chiesto loro aiuto per rimettere in sesto porzioni di terra che non erano ancora state preparate al rigido inverno.
Da allora, erano trascorsi due duri mesi e altrettante novità si erano succedute nei dintorni del paesino. Prima  fra tutte, spiccava l’arrivo di un giovane, aitante forestiero che, nella prima settimana di Dicembre, aveva fatto il suo ingresso nella tenuta del signor Woods in cerca di un lavoro. Alto, spalle larghe, gambe muscolose ed espressione tagliente, aveva avuto tutto l’aspetto di un pirata ripulito, sicuro di sé e della sua possenza. Se non fosse stato per l’indiscutibile vantaggio che sarebbe potuto venir fuori dalla sua permanenza nel maniero, Jordan Woods sarebbe stato ben lieto di sbattergli portone e cancello in faccia, intimandogli di non farsi mai più rivedere. Eppure, aveva dovuto piegare la sua volontà al materiale bisogno di due braccia robuste e una mente sveglia e, sebbene non si fidasse ancora di lui, non era riuscito a pentirsi di quell’acquisto da quando, una ventina di giorni prima, Carter Matthews aveva fatto il proprio ingresso nella sua vita. Era un uomo di trent’anni zelante e molto più istruito di quel che sembrasse: aveva un’innata predisposizione per i calcoli, sapeva organizzare qualunque genere di lavoro in maniera impeccabile e, strano ma vero, riusciva a trovare un metodo in grado di migliorare qualunque cosa gli capitasse sotto mano, finché non raggiungeva la perfezione. Ed era, inoltre, instancabile: da che lo aveva assunto come suo lavoratore, non lo aveva mai scorto fermarsi per riprendere fiato o chiedergli del tempo per procedere con maggiore accortezza; aveva lavorato con lucidità e zelo e, per quanto gli dolesse in parte ammetterlo, Jordan Woods aveva cominciato a provare ammirazione nei suoi confronti, benché si guardasse dal concedergli piena fiducia o eccessiva confidenza. Dubitava dell’inattaccabile distanza che metteva tra il mondo e le proprie emozioni, del fatto che nulla, in tutto quel tempo, avesse scalfito l’alone d’impeccabile lavoratore e uomo col quale si era presentato, e desiderava osservare e, soprattutto, studiare quanto si celava al di là di un sorriso apparentemente gioviale ma carico di astuzia.
Ad ogni modo, Carter Matthews era ben lontano dai suoi pensieri, in quel momento. Era il giorno antecedente la vigilia di Natale e un profondo turbamento agitava il suo stato di uomo tendenzialmente quieto. Un mese prima all’incirca, aveva ricevuto una missiva da molto, molto lontano e le sue mani avevano tremato a lungo dopo averne letto il contenuto: non aveva provato paura, insoddisfazione o rabbia; ogni più piccola porzione del suo essere, piuttosto, era stata investita da un senso di gioia ed impazienza che aveva rischiato di portarlo sull’orlo di una crisi di pianto, nonostante poco si addicesse ad un animo fiero come il suo. La notizia che la sua amata nipote stesse ritornando da lui,dopo sei anni di assenza, lo riempiva di trepidazione. Era consapevole del fatto che, di lì a breve, avrebbe incontrato una donna di ormai ventidue anni, maturata, cresciuta, cambiata rispetto ai ricordi di cui la sua mente di cinquantenne sentimentale era stata invasa per tutto quel tempo, ma poco importava. Conosceva l’anima della fanciulla che aveva visto sorridere nei momenti più impensati e stupire per la sua forza e gentilezza, e non aveva il benché minimo dubbio rispetto al fatto che, al di là del visibile cambiamento, fosse rimasta la persona che aveva amato ed adorato come fosse sua figlia. E, a quel punto della sua vita, leggermente appesantito, con capelli e barba bianca e un incrementato sentimentalismo, non riusciva ad immaginare modo migliore per trascorrere il Natale.
«Ma quanto ci mette?» fece a voce alta, dando voce ai pensieri che si accumulavano nella sua mente e passeggiando, se possibile, in maniera ancor più nervosa per l’enorme salone, costeggiando il tavolo apparecchiato con la migliore argenteria lucidata accuratamente per l’occasione. Il timore che il maltempo avesse potuto portare la carrozza ad arenarsi o che qualche gruppo di manigoldi avesse approfittato dell’occasione per far preda di quanto potesse essere arraffato per le strade praticamente deserte lo tormentava da ore, al punto tale che una vena, grossa e bluastra, aveva cominciato a pulsare all’altezza della sua tempia, concedendogli anticipatamente una dolorosissima emicrania come presente natalizio.
Accostandosi ai tendaggi e facendosi leggermente spazio tra di essi con la mano, gettò uno sguardo nervoso oltre il vetro e i suoi occhi si posarono sull’oscurità di un cielo privo di stelle che non presagiva nient’altro che tempesta. Grossi nuvoloni erano scesi, quel dì, dalla alte montagne innevate alle spalle di Altoona, assicurandogli appena il tempo per terminare gli ultimi preparativi alla volta della stagione invernale: le scorte erano state stipate, gli animali condotti al sicuro e i lavoratori pagati per tempo per i loro servigi. Ancora una volta, la stima e la fiducia reciproca avevano portato la dimora del signor Woods a risplendere della sua mastodontica grazia e, con un sospiro, il proprietario dovette riconoscere che, quell’anno, se non fosse stato per il suo ultimo e più promettente ingaggio, la situazione non sarebbe stata altrettanto rosea. Inarcando le sopracciglia, Jordan Woods richiamò alla memoria l’immagine di un viso mascolino, giovane ma vissuto e, scuotendo il capo, si chiese se non fosse stato poco riconoscente nei suoi confronti. Era più che certo di non aver esagerato nel dimostrarsi guardingo, ma, forse per via del Natale, forse per via dell’arrivo della sua amatissima nipote, non poté fare a meno di spiacersi all’idea che, a differenza degli altri suoi uomini, Carter Matthews avrebbe trascorso le festività senza la compagnia di nessuno all’infuori di se stesso.
«Signor Woods?» si sentì chiamare e, quando volse il capo, incontrò lo sguardo incerto della domestica, Rosy. Le fece un cenno col capo, invitandola ad esporgli il problema. «C’è Carter Matthews che chiede di parlarvi un istante. Ha detto che non vi ruberà molto tempo…»
«Certo. Fatelo entrare!» la interruppe, prima che potesse profondersi in ulteriori, prolisse spiegazioni. Con una rapida riverenza, la vide sparire e, poco tempo dopo, scorse una figura molto più imponente accompagnarla ed immettersi nel salone, chiudendo la porta alle sue spalle con l’intento di evitare una dispersione di calore. «Ditemi pure, Mr. Matthews. Suppongo si tratti di qualcosa che ritenete impellente.» lo incalzò gentilmente, ma la sua voce risultò meno distesa e gioviale di quanto non si fosse imposto di far apparire.
«Mi scuso per l’inattesa udienza, ma ho saputo dalla servitù che aspettate l’arrivo di una carrozza e volevo farvi sapere che, qualora lo riteneste opportuno, sarei disponibile ad andare incontro alla vettura ed eventualmente soccorrerla.» disse e il signor Woods annuì sommessamente quasi senza rendersene conto. Quelle parole testimoniavano che, a dispetto dei suoi ottimistici tentativi di non scoraggiarsi rispetto al ritardo portato dalla nipote, i suoi timori non erano infondati, se un uomo della sagacia di Carter Matthews si era premurato a rendersi disponibile per qualunque evenienza. Lanciando una rapida occhiata verso il cancello esterno e scorgendolo appena tra le tenebre, sospirò con angoscia.
«Ho provato a mettere a tacere le voci che mi ronzavano per la testa, dicendomi che questo ritardo non era cosa da poco, ma vedo che non avevo tutti i torti ad essere turbato. Pensate sia accaduto qualcosa?» chiese consiglio e l’altro notò, per la prima volta, un atteggiamento diverso da parte del proprio datore di lavoro. Era nient’altro che un umile servo, sebbene venisse trattato con ogni riguardo, ma, da un certo periodo a quella parte, aveva notato un calo di diffidenza nei suoi confronti, non soltanto dal signor Woods ma anche dagli altri che lavoravano con lui. Quella richiesta di consiglio gli fornì la conferma che, dall’inizio, si era sperato di poter avere: stava cominciando ad entrare nelle grazie del padrone.
«Penso sia presto per dirlo, ma essere pronti non sarebbe sbagliato. Ciò che trasporta questa carrozza… Ritenete necessiti di protezione? Si tratta di qualcosa di prezioso?» domandò, nel tentativo di valutare la portata della situazione. Se si fosse trattato di denaro o gioielli, l’uomo avrebbe avuto un buon motivo per preoccuparsi. Carter, vivendo a contatto con la gente del posto più di quanto non facesse l’altro, aveva sentito parlare di predoni venuti dal mare dediti a razzie ed uccisioni e, per quanto sperasse di non dover vedere il signor Woods addolorato per una simile perdita, temette per un attimo che la risposta che di lì a breve gli sarebbe stata data avrebbe potuto rendere tangibili le sue titubanze.
«Oh, è qualcosa di infinitamente prezioso per me!» ribatté e, mentre si dirigeva verso il camino con l’intento di riempire due bicchieri di cognac, i suoi occhi risplendettero come da tempo non accadeva. «Sta arrivando la mia splendida nipote. Sono sei anni che non la vedo!» continuò, facendogli cenno di raggiungerlo ed accomodandosi sulla poltrona dinanzi al focolare. Aveva i nervi a pezzi, la tempia che pulsava ad un ritmo insopportabile e lo stomaco stretto in una ferrea morsa. Chiuse gli occhi un istante, mentre Carter prendeva posto dinanzi a lui, munendosi dell’abbeveraggio che gli era stato fornito, e tentò di ricordare qualche episodio passato. Sorrise nel frangente in cui la memoria portò a galla un elemento che, fino ad allora, aveva distrattamente trascurato: la testardaggine della ragazza. Se avesse dovuto contare le volte in cui si era fatto paonazzo per l’inattitudine di lei all’ascolto dei suoi comandi ed ordini, avrebbe di certo perso la cognizione del tempo e dello spazio.
«Dovete amarla molto…» fu tutto ciò che Carter riuscì ad aggiungere, prima di fissare lo sguardo sul liquido tra le sue mani e berne una lunga sorsata. Un forte, prepotente calore s’irradiò nel suo corpo, debellando gli ultimi resti del gelo che aveva penetrato le sue ossa nel tragitto fino al grande palazzo, e, guardandosi intorno, trovò l’atmosfera così accogliente e familiare che non sentì affatto la mancanza della sua solitaria casupola.
«Moltissimo. E’ la figlia che non ho mai avuto…» gli confessò e, nonostante si rendesse conto di aver oltrepassato il limite imposto tra datore di lavoro e sottoposto, specialmente se si trattava di un forestiero dall’aria di chi la sapeva lunga più del dovuto, si disse che quelle parole non avrebbero potuto avere poi grandi ritorsioni. «Ma credo che incontrerò una persona diversa, e questo un po’ mi spaventa. L’ho lasciata che era una ragazzina e la ritroverò donna.» disse, bevendo d’un fiato il restante contenuto del suo bicchiere. «Non riesco nemmeno ad immaginarla fisicamente… Scommetto che sarà ancora bella da togliere il fiato, ma mi chiedo se lo sia più che in passato.» proseguì, ma Carter non prestò molta attenzione alla descrizione che l’uomo ne stava facendo. Era così follemente perso nei sentimentalismi e amava a tal punto la giovane che, se anche fosse stata tozza e racchia, dubitava avrebbe visto i suoi reali difetti senza addolcirli. Tenne quel pensiero per sé, ma non poté impedirsi di sorridere.
«Come mai non la vedete da molto?» azzardò, non tanto per reale curiosità quanto per riempire il silenzio, consapevole del fatto che il liquore dovesse aver sciolto la lingua del signor Woods e che non desiderasse altro che parlare della giovane.
«E’ difficile da spiegare…» disse sommessamente, pensieroso. «Diciamo che non è semplice dirle di no e che l’opinione degli altri non conta molto, quando decide di fare qualcosa.» tentò di illustrare, ma seppe di non aver reso pienamente il concetto. Le sue parole lasciavano trapelare i dettagli di una fanciulla viziata, caparbia e irrispettosa dei sentimenti e delle idee altrui, un’immagine, ovvero, che poco o niente aveva a che vedere con la realtà. Carter, del resto, non avrebbe potuto saperlo e l’idea che si fece non si discostò affatto dall’impressione che quella descrizione gli diede. Quando ingollò l’ultimo sorso di liquore, si accorse dell’ovvietà della situazione, la stessa ovvietà che era sfuggita al comprendonio del quale si era spesso vantato: cosa vi era di più allucinogeno del semplice amore? Se anche la ragazza fosse stata tarchiata e non di bell’aspetto, questo avrebbe sminuito l’affetto che suo zio provava per lei? L’avrebbe, forse, deviato? No, di certo.
«Neppure la vostra?» osò e il suo volto si trasformò in una maschera di ferro, riproducendo l’espressione che aveva troneggiato sui suoi lineamenti per tutto quel tempo, l’espressione che, probabilmente, gli aveva attirato le inimicizie di buona parte della cittadina.
«Se avrete modo di conoscerla, signor Matthews…» e ammiccò nei suoi confronti con un cenno del capo. «Se avrete modo di conoscerla, comprenderete che le sue scelte non hanno a che fare con gli altri ma solo con se stessa. Che senso avrebbe tentare di ingabbiare il vento?!» fece e l’altro fu talmente colpito dalle sue parole che dovette ricredersi sull’impressione inizialmente avuta sull’uomo. Non era un semplice parvenu. Era, come lui, molto più di quanto non mostrasse agli altri. Al di là della gentilezza, della perspicacia, del fare rispettoso, c’era in lui qualcosa che riluceva fiocamente, ma in maniera abbastanza intensa da riscaldare le ceneri di un incendio ormai spento. Un tempo, la sua anima e tutto il suo essere dovevano aver conquistato più cuori, terre e mari di quante un marinaio avrebbe potuto soltanto sperare di vedere.
«Avete ragione e mi scuso. Non posso giudicare una persona che non conosco.» gli concesse e, senza ulteriori indugi o cerimonie, abbandonò la comodità della poltrona per dirigersi verso la porta da cui era entrato, non prima di essersi congedato con un rispettoso, invisibile inchino ed aver ricevuto risposta.
«Mr. Matthews, ci terrei a ringraziarvi!» lo raggiunse la voce del signor Woods, precedendo di qualche istante la sua uscita. Voltandosi, notò che era tornato a reggersi sulle gambe e che, con lo stesso sguardo fermo con cui impartiva un comando durante i lavori nei campi, intendeva trattenerlo ancora qualche istante. Tacendo, Carter accondiscese. «Lavorate per me da poco più di due settimane ed avete fatto sì che venisse recuperato il tempo perduto a causa dell’assenza di molti altri nei terreni. Vi siete sporcato le mani, non avete risparmiato le gocce del vostro sudore, né l’arguzia del vostro intelletto e vi devo molto.» proseguì, avanzando verso di lui e virando, infine, in direzione della finestra, oltre la quale lanciò uno sguardo sconfortato. Evidentemente, non c’era nessuna carrozza all’orizzonte. «Con sincera stima e gratitudine, perciò, vi auguro di trascorrere una buona serata.» lo congedò e, sorridendo lievemente, l’altro pose fine alla conversazione. Una strana sensazione cominciò ad agitarsi nel suo petto e, mentre percorreva all’inverso i corridoi che l’avevano condotto nel salone, scendendo rapidamente le scale, prestò appena attenzione all’aria pungente che si respirava nel palazzo.
Le luci erano soffuse, la quiete immota e ogni cosa pulita a dovere. Se non fosse stato al corrente del clima d’attesa che vigeva in casa, avrebbe sospettato che gli abitanti di essa fossero assopiti, ognuno nei rispettivi letti, e pregustò l’idea di poterne godere a sua volta, un giorno. Le ragioni per cui era pervenuto ad Altoona, il secondo giorno di Dicembre di quell’anno, erano perfettamente incise nella sua mente e non una sola ora trascorreva senza che il pensiero di quanto lo aspettava ravvivasse i suoi propositi. La sua meta era stata decisa molto tempo addietro, i suoi piani studiati a lungo e con infinita attenzione e il suo peregrinare ridotto allo stretto indispensabile: ogni sua mossa era stata calcolata con precisione maniacale e, ora che i frutti cominciavano ad intravedersi tra i folti rami di un albero robusto ma non insormontabile, Carter Matthews sentì le forze rinvigorire tanto le sue membra quanto il suo spirito, fiaccato dalle fatiche cui era stato sottoposto e dall’impressione di aver fatto male i propri conteggi.
Quando il grande portone scuro si richiuse alle sue spalle e i suoi polmoni inspirarono la gelida aria dicembrina, i suoi passi divennero sicuri più di quanto non fossero stati fino ad allora e il suo aspetto apparve più minaccioso, nella profonda coltre che s’infoltiva di momento in momento. Quasi si sorprese nel momento in cui, scese le scale esterne che immettevano dalla veranda al sentiero d’ingresso, scorse la sagoma distinta di una carrozza avanzare nella direzione che egli stesso stava abbandonando. Curioso, le passò accanto, ma non riuscì a vedere nulla di ciò che i suoi occhi avevano cercato. Solo molti minuti dopo, quando la sua figura altri non era che una sagoma spettrale al di là dei cancelli, qualcosa si mosse dall’interno dell’abitacolo: una figura avvolta in un pesante mantello nero discese da essa e, quasi scivolando sul pavimento innevato, senza fatica, salì i gradini uno dopo l’altro.
Una folata di vento spirò dal versante della foresta che costeggiava la tenuta e il mantello vibrò appena. Tutto quello che Carter scorse alla luce della luna fu una lunga ciocca di capelli che si librava nell’aria.
  
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