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Autore: Brooke Davis24    17/09/2012    1 recensioni
1708, Altoona, Pennsylvania.
Sophie, il suo essere indomita, caparbia, fiera, spesso sfrontata ma più di tutto donna, come poche altre riuscivano ad essere a quel tempo. Incastrata da un affetto troppo grande per non essere deleterio, riuscirà a liberare il suo cuore dalle catene che tentano di soggiogarlo?
Tratto dal terzo capitolo:
"Ora che nessuno avrebbe più potuto farle pesare ciò che era, rimpianse di non averlo compreso prima, di aver versato lacrime amare per via del modo in cui era stata guardata. Non avere i genitori era sbagliato, parlare con la gente di colore era sbagliato, correre, inzaccherarsi nel fango, giocare alla guerra con i ragazzetti era sbagliato, rispondere a tono era sbagliato. Esisteva qualcosa nel mondo che, per una donna, non fosse compromettente? La risposta era giunta qualche tempo dopo la sua partenza, quando il suo cuore le aveva suggerito che, qualunque cosa avesse fatto, la gente l’avrebbe additata per il solo gusto di farla sentire fuori posto, arrogandosi un diritto che nessuno avrebbe dovuto possedere su un essere umano. Come poteva un uomo giudicare l’anima di un altro e il modo in cui essa veniva espressa senza mai averne preso visione?"
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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3. La Vigilia
 
Il mattino successivo, un’aria pienamente natalizia aveva preso completo possesso della cittadina e della maggior parte dei suoi abitanti. Profumi di pietanze deliziose si spandevano nell’aria e i bambini, avvolti in notevoli strati di pesante vestiario, correvano a destra e a manca con i nasi arrossati, cantando canzoncine natalizie di indubbia origine locale. L’atmosfera che si respirava nella tenuta del signor Woods e dintorni era pressoché la medesima: le famiglie che lavoravano per l’uomo e avevano ricevuto come dono una modesta abitazione nei paraggi godevano del clima festivo e del piacere di un giorno d’intero riposo. Conoscevano bene Jordan Woods e la sua magnanimità e non si erano granché stupiti quando, mandandoli a chiamare, li aveva sollevati da qualunque impegno lavorativo nei campi, facendo pervenire a casa di ognuno di loro un cesto con qualche utile scorta di cibo. I domestici, sin dalle prime ore dell’alba, avevano dovuto lavorare con fare solerte, dato il previsto arrivo di alcuni amici di lunga data del padrone, alla cui presenza erano stati abituati nel corso degli anni, e la cucina aveva emanato odori così succulenti che in molti si erano chiesti quali sorprese avrebbe riservato loro la cuoca quell’anno.
Besede era una donna di colore dalla grande prestanza fisica, che si era guadagnata la simpatia del signor Woods tanti e tanti anni prima. Carattere deciso e fedele fino alla morte, non aveva smesso un solo attimo di servire la casa e i suoi abitanti fino allo stremo delle forze, mescolando i sapori della cucina occidentale a quelli del suo Paese natio, dal quale era stata strappata con forza. Sebbene l’affluenza di ospiti fosse notevole, durante le festività natalizie, e gli impegni altrettanto pressanti, Besede non aveva mai chiesto aiuto a nessuno, all’infuori delle persone delle quali aveva imparato a fidarsi col trascorrere degli anni, e quella volta non ci sarebbero state eccezioni. I preparativi per la cena della Vigilia erano cominciati diversi giorni prima e, con enorme stupore dei nuovi arrivati alla tenuta, la cuoca non aveva versato una sola goccia di sudore con l’avvicinarsi del pasto di spicco. I ritmi erano stati cadenzati, frutto di calcoli provati in passato e dimostratisi da sempre funzionanti, e le sue labbra non avevano smesso di fischiettare e canticchiare un solo istante.
Un sorriso ancora più smagliante del solito si era disegnato sulle sue labbra carnose e, più di una volta, la governante di casa Woods, Betty, era rimasta perplessa nell’osservarla ridacchiare e parlottare tra sé. Nessuno avrebbe potuto immaginare di quanta felicità fosse colmo il suo cuore e come ogni cosa, persino gli oggetti inanimati, le arridesse, donandole uno stato di beatitudine e gioia tale da essere contenuti a stento.
L’arrivo della nipote del signor Woods e di Sophie in particolar modo era stato il miglior regalo di Natale che si fosse mai potuta aspettare e aveva stretto così forte le ragazze, quando Betty e il maggiordomo le si erano fatti vicini per godersi lo spettacolo, che convincerla ad allentare la presa si era dimostrata un’impresa bella e buona. Erano trascorsi sei lunghi anni dall’ultima volta che aveva visto le due e, come la maggior parte dei domestici della dimora, aveva infinitamente sofferto quel distacco. Le avevano viste crescere e farsi diverse ogni giorno di più e la notizia della loro improvvisa, inspiegata partenza aveva lasciato una profonda, dolente ferita in ognuno, tanto che, a distanza di tempo, Betty, Joe il maggiordomo e Besede si erano resi conto di non aver provato più tanta emozione dal giorno della partenza delle fanciulle.
Due tocchi decisi alla porta che, dall’esterno, immetteva nella cucina attrassero l’attenzione della corpulenta donna e, quando costei si voltò per osservare l’ultimo arrivato varcare la soglia, il suo cuore vibrò di una fibrillazione nuova. Carter Matthews era l’uomo più bello che i suoi occhi arguti avessero mai visto e, benché fosse consapevole di avere presso a poco l’età della madre di lui, la sua avvenenza era un balsamo dei cui effetti non si sarebbe privata. Il suo sorriso smagliante era la ciliegina su una torta che, quell’anno, era stata guarnita alla perfezione. Inoltre, qualcosa, nel profondo del suo animo, le suggeriva che fosse una persona di gran lunga migliore di quanto non lasciasse trapelare e che molti sarebbero stati gli sconvolgimenti che la sua presenza avrebbe portato nei dintorni.
«Ah, buongiorno, mia bella signora!» la salutò e una profonda risata s’irradiò nella piccola, ordinata cucina, echeggiando a lungo prima che Besede si ricomponesse.
«Dongiovanni da strapazzo che non siete altro, Carter Matthews!» Gli andò incontro e accolse con serenità l’abbraccio affettuoso che l’uomo le regalò. Quando si fu sciolta dalla stretta di lui, le sue sopracciglia si inarcarono in una davvero poco velata espressione di apprezzamento, mentre lo osservava da capo a piedi. «Come mai siete così ben agghindato, zucchero?» gli chiese e il tono estremamente confidenziale che utilizzò fece sorridere Carter, lusingato per il complimento.
«Per voi, signora! L’invito a trascorrere con voi la cena della Vigilia richiedeva un certo impegno per ringraziarvi.» Le sue belle labbra si aprirono in una smorfia ancora più ampia e i suoi perfetti denti candidi spiccarono sulla carnagione lievemente ambrata. «Dite che sono presentabile?» domandò, allargando le braccia e offrendosi alla mercé degli occhi scuri di Besede.
Indossava uno tra gli abiti più belli che aveva portato con sé, quando aveva preso la decisione di recarsi ad Altoona per conoscere il proprietario di qualcosa che, un tempo, era appartenuto alla sua famiglia, e, sebbene non fosse di certo il migliore del suo reale corredo, gli donava particolarmente. Stretti pantaloni color verde petrolio gli fasciavano le gambe muscolose fino al ginocchio, laddove il tessuto incontrava la lucida pelle dello stivale nero, mentre un panciotto appena più scuro aderiva alla vita snella, risalendo sul petto ampio e mascolino ricoperto a sua volta da una camicia bianchissima, e una giacca completava il quadretto, presentando a Besede il ritratto di un adone per il quale molte ragazzette dei dintorni avevano già perso la testa, al di là dell’aspetto meno sontuoso dimostrato fino ad allora. Era bello da togliere il fiato.
«Siete bello come il sole, tesoro. Non vorrete mica far girare la testa a qualche fanciulla, parente del signor Woods?» s’insospettì e, d’istinto, aguzzò lo sguardo nel tentativo di comprendere le intenzioni dell’altro.
«L’unica signora per cui mi sono messo d’impegno, stamane, siete voi, Besede, e nessun altra, ve lo giuro!» Si portò la mano al cuore in un gesto solenne e s’inchinò, prendendole la mano tozza e portandola vicino alla labbra con fare galante. Se solo non avesse avuto trent’anni ma qualcuno in più, si disse la cuoca amaramente.
«Sarà meglio per voi.» lo minacciò giocosamente, voltandogli le spalle e dirigendosi verso il pentolone che aveva messo sul fuoco diverso tempo prima. Mentre Carter prendeva posto sulla panca e si sfilava la giacca, riponendola sul tavolo di legno dinanzi a lui, non poté non rimanere deliziato dal succulento profumo di cui le sue narici furono investite. Il suo stomaco, nutrito con pasti saltuari e piuttosto spartani da due settimane a quella parte, ritrovò l’appetito perduto e l’aumento vertiginoso della sua salivazione gli suggerì quanto il suo corpo sentisse la mancanza di un piatto come si deve.
China sullo stufato, Besede mescolò a lungo e con attenzione per evitare che, attaccandosi al fondo del calderone, il sapore della pietanza venisse irrimediabilmente compromesso. Intenta com’era, fu il cigolio della porta d’entrata a distoglierla ancora una volta, com’era accaduto giusto qualche minuto prima. Il naso e le guance colorate di un meraviglioso rosa in contrasto con la carnagione candida, Sophie fece il suo ingresso nella cucina con noncuranza e le sorrise, quando la osservò porre le mani ai fianchi e squadrarla con aria di rimprovero. Carter saltò quasi sul posto quando i suoi occhi si posarono su di lei e riconobbe la stessa fanciulla della locanda della notte prima. Cosa mai poteva averla portata lì?
«Cosa c’è che non va, stavolta?» chiese e il suo tono fu stanco ma divertito.
«C’è che dovresti essere tornata più di un’ora fa e indossare qualcosa di diverso, signorina!» Indossava gli stessi calzoni attillati che Carter aveva rimirato il giorno addietro, la stessa camiciola e gilet, e aveva i capelli acconciati tutti su un lato in una lunga, maestosa treccia che, Besede dovette ammetterlo, le donava estremamente.
«Cos’ha che non va il mio abbigliamento?» fece e, per la prima volta, la giovane parve accorgersi della presenza di una terza persona in cucina. Ritto in tutta la sua statura, Carter le rivolse un cenno del capo e un inchino, giocando volutamente sulla fermezza del proprio sguardo per godersi l’inaspettato colpo di fortuna. Aveva domandato a lungo informazioni su Sophie Chapman, quel giorno, ma tutti si erano mostrati più che reticenti a fargli qualsiasi sorta di confidenza; non aveva ancora conquistato la loro fiducia e questo avrebbe richiesto più tempo di quanto non ne fosse stato necessario con Besede. «Chi è lui?» domandò alla cuoca e il suo sguardo fu così sospettoso e ostile che Carter non poté fare a meno di sorridere lievemente, mentre si presentava.
«Carter Matthews, per servirvi!» ribatté galantemente, ma l’espressione di lei non si addolcì e, se possibile, il sorriso dell’uomo si fece più ampio e caloroso.
«Dubito che avrò bisogno dei vostri servigi.»
«Per Giove, Sophie! Ti sembra il modo di trattare un ospite?» Besede era incredula. L’aveva lasciata dodicenne impertinente e l’aveva ritrovata, dopo sei anni, donna ancora più testarda ed irritante. Gli occhi della giovane espressero la loro perplessità, mentre le sopracciglia si inarcavano vistosamente.
«Vuoi dire che sarà presente alla nostra cena?»
«Proprio così! Lavora per il signor Woods dagli inizi di Dicembre ed è una persona molto per bene, un caro, caro ragazzo.» le spiegò e il suo tono fu dolce e affettuoso, come se stesse parlando di un amico di vecchia data, di qualcuno che avesse estremamente a cuore. Sophie storse il naso.
«E io credo che tu ti sia fatta un po’ prendere la mano dalle fantasie erotiche, mia cara Besede, perché ne parli con troppo, davvero troppo trasporto.» l’accusò e la sua espressione mutò in un concentrato di pura impudenza e divertimento, mentre l’altra donna si faceva paonazza per l’offesa e cominciava a prendere aria per lanciare una serie di imprecazioni.
«Brutta screanzata, indisciplinata, irrispettosa furfante!» tuonò e Sophie rise così di gusto e di un suono così accattivante che Carter sentì il peso di quelle settimane trascorse senza una donna divenire un aggravio insostenibile all’altezza dei lombi.
La mano della giovane corse rapida sulla porta e la scostò, uscendo appena in tempo per evitare un mestolo di legno lanciatole con estrema foga dalla negra. L’uomo osservò la donna abbondante correrle appresso, ma scorse con altrettanta chiarezza il fisico snello della giovane issarsi su uno splendido esemplare purosangue e darsela a gambe lesta più del vento, mentre il cielo imbruniva sempre più.
«Torna subito qui! Dove stai andando? Piccola impostora!» le urlò dietro Besede, ma Sophie era troppo lontana per poter sentire quegli ultimi improperi. Quando la domestica si voltò per rientrare in casa, lo scalpiccio degli zoccoli del cavallo sul quale era fuggita era oramai il ricordo di una corsa nella sera e Carter Matthews era l’unica persona che potesse aiutarla.
*
Il clima freddo della Pennsylvania era una dolorosa spina nel fianco per coloro i quali erano abituati a temperature miti e alla costante presenza del sole nel cielo. I rigidi mesi invernali, nella suddetta regione, portavano con sé un gran quantitativo di neve, venti gelidi carichi di sussurri e piogge torrenziali, e molto di rado concedevano al grande Occhio giallo di fare lunghe apparizioni. Quel giorno, forse come presente in vista delle festività, la rara eccezione di essere riscaldati dall’alto era parsa una benedizione a molti e, sebbene non un centimetro di neve si fosse sciolto o la temperatura fatta più accettabile, gli abitanti di Altoona avevano accolto con piacere quella novità.
Persino la grande foresta che si estendeva poco più a nord della città sembrava avesse tratto giovamento dal tepore di quella mattina. Gli alberi, denudati del loro fogliame, apparivano spaventosamente spogli e, salvo per gli animali che ivi abitavano e per i migliori conoscitori dei sentieri boschivi, nessuno osava avventurarvisi di propria spontanea volontà. I nativi, con i quali la convivenza era divenuta pacifica col trascorrere del tempo, si erano spostati verso regioni più miti e, nonostante tutti attendessero il loro ritorno col sopraggiungere della bella stagione, c’era un non so che di maggiormente spaventoso nei tratti della foresta alla consapevolezza della loro momentanea assenza.
Più all’interno di quanto l’occhio permettesse di scorgere dai margini del bosco, una conca di discrete dimensioni, ricolma d’acqua, faceva bella mostra di sé e della propria superficie gelata. Attorno ad essa, in un fenomeno che nessuno tra quelli che fin lì si erano avventurati era mai riuscito a spiegarsi, una chiazza modestamente estesa di verde accoglieva la figura possente di un cavallo dal manto color della pece e la sagoma longilinea di una fanciulla dall’animo turbolento e combattivo, che ben si addiceva alla cavalcatura che aveva scelto.
Quando Sophie si trovava in groppa a Tuono, ne percepiva la tensione di ogni muscolo, la possenza delle gambe e dell’addome, il respiro caldo e la minacciosa fierezza che tutto il suo essere emanava. Al galoppo, ogni possibile distanza tra i due si annullava ed era come se la donna divenisse cavallo e il cavallo donna in un inscindibile miscuglio che gli uomini arrivati da poco nel Nuovo Mondo non si sarebbero potuti spiegare. Non era concepibile, per la mentalità razionale dei bianchi d’Occidente, quella che i nativi definivano fusione tra anime, ma la giovane donna non era così sorda ai richiami del suo spirito. C’era qualcosa di selvaggio in lei, qualcosa che in molti avrebbero ritenuto sbagliato e che, da bambina, le avevano fatto pesare fino a farla piangere tra le coperte del suo letto; qualcosa che, tuttavia, non aveva mai rinnegato.
Sophie sapeva di essere diversa, sapeva che doveva esistere, nel suo misterioso passato, una spiegazione a quello che aveva dentro e che, col tempo, aveva imparato a non reprimere, qualunque potessero essere le conseguenze. Lei non era figlia delle convenzioni sociali che vedevano nella donna perfetta un essere docile ed accondiscendente, sottomesso alla voce grossa di quell'uno o quell’altro uomo. Non sarebbe mai riuscita a vedersi zittita solo per timore di una ripercussione o mogia in un angolo in attesa che qualcuno le desse il permesso di mostrarsi. C’era un mondo così grande, al suo interno, che reclamava espressione da diradare ogni possibile obiezione della società. Sophie era come Tuono: non era fatta per essere domata, ma per essere capita e accettata così com’era.
Seduta su un masso con gli stivali abbondantemente affondati nella neve, guardò lo specchio d’acqua gelata dove, da piccina, si era tuffata innumerevoli volte, dopo una rincorsa di metri e metri, e sorrise a quel pensiero con una smorfia a metà tra l’amaro ed il caparbio. Ora che nessuno avrebbe più potuto farle pesare ciò che era, rimpianse di non averlo compreso prima, di aver versato lacrime amare per via del modo in cui era stata guardata. Non avere i genitori era sbagliato, parlare con la gente di colore era sbagliato, correre, inzaccherarsi nel fango, giocare alla guerra con i ragazzetti era sbagliato, rispondere a tono era sbagliato. Esisteva qualcosa nel mondo che, per una donna, non fosse compromettente? La risposta era giunta qualche tempo dopo la sua partenza, quando il suo cuore le aveva suggerito che, qualunque cosa avesse fatto, la gente l’avrebbe additata comunque per il solo gusto di farla sentire fuori posto, arrogandosi un diritto che nessuno avrebbe dovuto possedere su un essere umano. Come poteva un uomo giudicare l’anima di un altro e il modo in cui essa veniva espressa senza mai averne preso visione?
Il muso di Tuono batté contro la sua spalla in un gesto affettuoso e, con un sorriso amorevole, la ragazza si volse, poggiando la fronte contro quella dell’animale e carezzandogli il collo con dolcezza. Quando aprì gli occhi e il verde delle sue iridi si mescolò col nero intenso delle altre, il leggero aggravio che le si era depositato sul petto scomparve e Sophie ritrovò la quiete in una nuvola di fumo condensatasi tra loro.
Il cielo conservava ancora i contorni dell’azzurro, quando un rumore dal folto della foresta la spinse ad alzarsi e a catalizzare la propria attenzione nell’esatto punto in cui aveva sentito scricchiolare i rami caduti di un albero. Aguzzando lo sguardo, scorse una sagoma in sella ad una cavalcatura e, curiosa, si chiese chi fosse e come mai avesse scelto proprio quel luogo per trascorrere le ore antecedenti la Vigilia di Natale. Alzandosi dalla roccia su cui si era appollaiata e raggiungendo la macchia d’erba su cui Tuono era tornato, la sua mano percorse le lunghe chiome corvine dell’animale, intimandogli una calma che sentiva aver abbandonato l’animo del fido compagno.
Stentò a credere a quello che vide, quando la figura del bell’imbusto per cui Besede sembrava avesse perso la testa la raggiunse, mostrando apertamente di aver trovato ciò che stava cercando.
«Ecco il cavaliere senza macchia e senza paura!» fece sarcastica e i suoi occhi, ornati di folte ciglia scure, incrociarono lo sguardo impassibile dell’altro. Non provava simpatia per lui e questo era più che evidente.
«Besede mi ha chiesto di cercarvi e assicurarmi che non vi fosse accaduto nulla di male.» Smontò da cavallo con un unico, rapido movimento e lasciò pendere le briglie, senza preoccuparsi di una possibile fuga dell’animale. Lo sorprese non poco constatare che la cavalcatura di Sophie fosse priva di sella e che il cavallo dall’aspetto selvaggio si lasciasse guidare senza bisogno di essere indirizzato.
«Cortese da parte vostra. Ora, potete pure andare!» Le sue parole, la sua postura, il modo in cui lo guardava, tutto testimoniava quanto grande in lei fosse il desiderio di sfidarlo e Carter percepì così nitidamente quel richiamo da non potersi esimere dal rispondere.
«Ho vagamente notato» e si fermò volutamente per porre l’accento sul sarcasmo di cui erano impregnate le sue parole «che provate una certa repulsione nei miei confronti. Posso chiedervi il motivo?» domandò, mantenendo la posizione accanto al cavallo che l’aveva condotto a lei.
«Faccio fatica a rapportarmi con il vostro insistente modo di osservarmi senza il benché minimo riguardo alla decenza.» gli disse, ma parve chiaro che non avesse ancora terminato. «E mi riferisco sia al vostro comportamento alla locanda che al breve incontro in cucina!» proseguì e la sua irritazione crebbe, quando notò le labbra di lui incresparsi in un sorriso colpevole ma ben lontano dalla possibilità di rimpiangere il suo agire. «Oppure a questo preciso istante, aggiungerei.»
«Devo dedurne che provate poca simpatia per gli uomini?» fece con espressione meditabonda e, quando lei tacque in un invito a spiegarsi meglio, indugiò volutamente sulla bellezza di quel viso femminile dalle sopracciglia aggrottate e dal cipiglio minaccioso. Non aveva mai pensato che una donna di così sconvolgente bellezza potesse nascondere un animo così ardito e furente e si disse che, se mai fosse stata un uomo, sarebbe stato un pericoloso nemico in guerra. «Lo dico perché sono certo di non essere stato l’unico a dedicarvi uno studio interessato e perché conosco molti uomini che potrebbero rimirarvi non con maggiore ma con interesse eguale al mio.»
«Oh, io non ho detto che non provo simpatia per gli uomini, ma vi sto dicendo che non ne provo per voi.» Fu schietta nel suo giudizio, forse precipitosa, ma il suo carattere non era fatto di mezze misure: Sophie era bianco o nero, tutto o niente. Le sfumature, in certi casi, non facevano proprio per lei.
«Solo per il modo in cui vi guardo? Vi scombussola?» chiese e non usò a caso quel verbo. La sua era una frecciatina carica d’insinuazioni, lampante abbastanza da essere colta nell’immediato. E, infatti, la reazione della giovane rispose esattamente alle aspettative di cui era carica la sua domanda. Rise, rise di cuore e con esasperazione, come se quel colloquio le costasse uno spreco di tempo infinito, ma sapesse di non poterlo evitare.
«Non so quali donne frequentate voi abitualmente, signore, ma vi assicuro di non essere come loro. Perciò, no, non mi scombussolate affatto! Non mi piacete nemmeno!» disse e lo guardò negli occhi per fugare qualsiasi ulteriore dubbio. Era un uomo di estrema avvenenza, probabilmente il più aitante che avesse mai incontrato in tutta la sua vita, e c’era un non so che di spavaldo ed audace che l’incuriosiva, perché costituiva una sfida alla sua propensione ai conflitti, ma non voleva averci a che fare ed era fermamente convinta di ciò. Non riusciva a percepirne l’aurea, non riusciva a comprendere che genere di persona fosse, e tanto bastava a non farglielo piacere.
«Voi, invece, mi piacete parecchio.» ribatté serio e Sophie ammise di non essersi aspettata una così secca risposta. Gli uomini con cui aveva avuto a che fare, i damerini che l’avevano spesso corteggiata, non si erano limitati ad esprimere il loro interesse, ma avevano automaticamente supposto che lei ricambiasse sulla sola base della loro avvenenza. Quelle parole, invece, non nascondevano nessun messaggio all’infuori del loro lampante contenuto.
«Allora, secondo le parole che ha pronunciato ieri la locandiera, dovrete essere pazzo…» Le tornarono alla mente gli esasperati moniti di Maria sull’impossibilità di trovare un uomo a quelle condizioni, non con amarezza ma con profondo divertimento. Se anche fosse stato vero, non si sarebbe di certo crucciata della sua solitudine. Aveva tante altre persone nella sua vita da bastarle senza compromessi. Leggera, salì sul dorso di Tuono.
«O cocciuto…» le fece notare e le labbra di lei si aprirono in un sorriso di inconsapevole carica seduttiva. Sophie rise, si chinò in avanti, sussurrò qualcosa all’animale e, con la grazia di un essere indomito, volò via tra gli alberi della foresta.
  
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