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Dieci anni prima
Sud Est Asiatico
Al confine tra la Cina e Myanmar
La
foresta tropicale che circondava e avviluppava una parte del confine tra la
Cina e la Birmania era un luogo quasi completamente inesplorato, dimenticato da
Dio e dagli Uomini.
Per centinaia e centinaia di miglia in ogni
direzione, non un villaggio, una casa, una traccia di una presenza umana.
Eppure, secondo alcuni sedicenti storici,
quello era uno dei luoghi dove, a saperle cercare, erano ancora presenti le
tracce della Prima Civilizzazione, quella specie di mitica civiltà che stando a
miti e presunte verità scientifiche aveva popolato la Terra prima dell’avvento
dell’Uomo.
Solo favole per creduloni e sognatori, aveva
sempre detto in coro la comunità scientifica mondiale.
Tutto quello che si poteva trovare in
quell’intricato dedalo di liane, alberi, fiumi e montagne erano vecchie rovine
del periodo degli imperi indiani e vietnamiti, ma nulla che si potesse neanche
lontanamente collegare a questa fantomatica Prima Civilizzazione.
Eppure, non sembravano pensarla così di
occupanti di quel grosso accampamento da decine di tende che, con l’autorizzazione
di entrambi i governi, avevano dato il via ad una massiccia opera di scavo ai
piedi di una bassa collina che sorgeva quasi nel punto esatto dove si trovava
la linea di confine; se solo i cinesi e i birmani avessero saputo cosa si
trovava realmente sotto a quel mucchio di terra, alberi e sassi, non si
sarebbero fatti tutte quelle risate quando si erano visti offrire una cifra
così considerevole per i semplici diritti di sfruttamento del terreno, che
avevano concesso senza pensarci due volte.
Su tutte le tende capeggiava lo stemma della
Fondazione Manovic, quel filantropo europeo di cui
tutti parlavano, e all’interno del campo era un trionfo di scienziati,
archeologi, e soprattutto operai.
Gli archeologi erano guidati da un professore
britannico, il professor Martin Evans dell’Università di Monaco, persona
gentile e autorevole, che da quella spedizione sognava di trarre la rivincita
di tutta una vita spesa a farsi ridere dietro dagli ambienti accademici.
A differenza di altri, che sulla Prima
Civilizzazione avanzavano le teorie più astruse e fuori dal comune, come dèi o
alieni, lui sapeva; sapeva benissimo chi fossero stati i primi esseri
intelligenti a camminare sulla Terra, e ora era sul punto di averne la
certezza.
Quell’occasione non sarebbe potuta venire in
un momento migliore; alla lunga le sue teorie lo avevano reso impopolare, e la
sua cattedra non era mai stata così in bilico. Come se non bastasse, non
riuscendo a reperire fondi per le sue ricerche e spedizioni, fino a quel
momento infruttuose, era stato costretto più volte a provvedere di tasca
propria, finendo in pochi anni per dilapidare il considerevole patrimonio di
famiglia.
Poi, alla porta di casa sua aveva bussato una
delegazione della Fondazione Manovic, che gli aveva
fatto una interessante proposta; la decifrazione un antico codice bramino, e,
una volta fatto questo, la guida e la responsabilità degli scavi sul luogo che
quello stesso codice indicava come la Tomba del Quinto Re, Vipalcha.
Nel momento in cui aveva visto quel nome
comparire dalle sabbie del tempo, una vampata di calore aveva scaldato il cuore
del professore.
In tutti quegli anni aveva accumulato più
materiale e informazioni sulla Prima Civilizzazione di qualsiasi altro studioso
della storia, e sapeva che, secondo un mito comune a molte civiltà antiche, la
Prima Civilizzazione, era stata retta nel corso della sua storia da cinque
grandi sovrani, alla morte dell’ultimo dei quali la civiltà si era rapidamente
sgretolata: Viracocha, Kokopelli,
Amaterasu, Valopingius e, in ultimo, Vipalcha.
E se il testo, il Bahī mūla, o Libro dell’Origine, diceva il vero, quella collina nascondeva in realtà il tumulo funerario di Vipalcha, che avrebbe confermato appieno le teorie del professore.
Erano stati molti mesi di attesa e speranza, quand’anche velati da una certa preoccupazione, e dal timore che fosse l’ennesima falsa pista, quando un pomeriggio, quasi per caso, uno degli operai si era sentito mancare la terra sotto i piedi mentre lavorava, precipitando per alcuni metri dentro un canalone nelle profondità della terra e ritrovandosi così, come per miracolo, di fronte ad un immenso portone di pietra, chiuso, sigillato e coperto di iscrizioni, tra le quali il cartiglio di un nome: Vipalcha.
La notizia era stata immediatamente inoltrata alla sede centrale di Zagabria, che aveva comunicato l’arrivo imminente del responsabile ai lavori.
Una mattina, quella prevista per l’arrivo del
responsabile e l’apertura della porta, il professore sedeva nella propria
tenda, impaziente ed ansioso come non mai, mentre osservava la foto della sua
famiglia che portava sempre con sé. Raffigurava lui, la moglie e la figlia, all’epoca
dell’ultima volta che erano stati insieme.
Carmilla era tutta
sua madre: stessi capelli biondi, stessi occhi verdi. Da lui aveva preso solo una
cert’aria sbarazzina e sicura di sé, quella che lui aveva sempre avuto prima
che la crudeltà della vita gli venisse sbattuta in faccia togliendogli ogni
speranza.
Ancora poco. Ancora da poco e sarebbe tornato da
loro, coperto di gloria e di fama, ma anche pieno di soldi: 200.000 euro gli
sarebbe valso il suo lavoro in quello sperduto angolo di Indocina.
«Professore!» disse d’un tratto uno dei suoi
giovani assistenti, Fritz, entrando nella tenda «Il responsabile è arrivato!»
«Vengo subito».
Il professor Evans raggiunse il limitare del
campo giusto in tempo per veder scendere a terra l’elicottero che trasportava l’inviato
speciale del Conte Manovic, l’uomo che aveva permesso
al suo sogno di avverarsi.
Come lo vide, ne fu sorpreso.
Sapendo chi e che cosa il conte fosse
veramente, si meravigliò di veder comparire dinnanzi a sé un normale essere
umano, per quanto di bell’aspetto, chiaramente allenato e di robusta
costituzione; i capelli, biondissimi, erano piuttosto lunghi, gli occhi piccoli
e marroni, il fisico ben scolpito. Non era croato o balcanico: probabilmente
veniva dal Nord Europa, forse dalla Danimarca o dall’Olanda.
Non era da solo.
Con lui c’erano altri tre uomini, guardie del
corpo forse, e loro di sicuro non erano esseri umani.
«Benvenuto.» disse il professore porgendo la
mano «Signor…»
«Mi chiami semplicemente Michelle.» tagliò
corto quello «Passiamo subito al sodo. L’avete trovato?»
«Sissignore. Mi segua».
Evans condusse dunque il signor Michelle ed i
suoi uomini al limitare del grosso foro nel terreno che conduceva alla porta
della tomba, che nel frattempo era stato allargato e dotato di una scaletta per
poter salire e scendere comodamente.
«Se posso permettermi.» disse a Michelle mentre
alcuni operai finivano di rimuovere i sigilli «Lei è un essere umano. Come mai
riveste una carica così importante all’interno della Fondazione Manovic?»
«E Lei, allora?» replicò provocatoriamente il
giovane
«Ho scoperto l’esistenza dei vampiri all’età
di dodici anni, quando un Hunter mi salvò dall’aggressione di uno di loro.
Da quel giorno, scoprire quante più cose
possibili su di loro è diventata la mia ossessione.
È evidente che i vampiri esistono sulla Terra
da ben più tempo dell’Uomo, e che millenni prima che noi imparassimo anche solo
ad intagliare la pietra loro avevano già raggiunto un altissimo livello di
civilizzazione.»
«Corretto, professore. E questa tomba potrebbe
custodire ciò che resta di quel sapere così antico e prezioso.
Non c’è che dire, una bella svolta per la sua
carriera».
Dopo qualche istante, finalmente, anche l’ultimo
sigillo cedette, e pur dovendoci mettere la forza congiunta di sei persone il
portone poté essere aperto.
A quel punto il gruppo composto dal
professore, il signore Michelle, le sue tre guardie e alcuni operai, torce alla
mano, si avventurò nel tunnel, sotto gli sguardi sorpresi e un po’ preoccupati
di chi rimaneva in superficie.
Ben presto le fredde pareti di roccia,
intagliate ma spoglie, cominciarono a riempirsi di stupendi bassorilievi,
disegni, raffigurazioni sacre e antiche preghiere.
Se illuminati dalle torce sembravano quasi
brillare, risplendere di una tenue luce rossa, una cosa allo stesso tempo
magnifica ed inquietante.
Il professore si sentiva in paradiso, come se
niente al mondo potesse renderlo maggiormente felice.
«Mio Dio.» disse il professore «Questo sembra
proprio un idioma sconosciuto. Non è bramino.»
«Questa è l’antica lingua dei vampiri.»
osservò Michelle «È talmente antica che neppure loro ricordano più come vada
pronunciata.»
«Incredibile».
Era già abbastanza per vincere più di qualche
Premio Nobel, ma questo al professore e a Michelle non bastava; oro volevano
scoprire per intero il segreto della tomba di Vipalcha,
ed erano sicuri che se fossero andato avanti ci sarebbe riuscito.
L’esplorazione proseguì, e sembrava davvero
che quella grotta fosse destinata a non finire mai. Michelle era ansioso più
che mai di proseguire, ma il professore, rammentandogli che chiunque avesse
costruito quella tomba non era certamente uno sprovveduto, lo aveva messo in
guardia, consigliandogli di essere il più possibile guardingo.
E fu un bene, perché grazie a questo consiglio
Michelle ad un certo punto si avvide in tempo di stare calpestando una specie
di pulsante e riuscì ad evitarlo; il portatore che veniva dietro di lui non fu
altrettanto scaltro, e prima che potesse essere avvertito un getto di fuoco
spuntò fuori dalla parete e investì in pieno quel poveraccio, bruciandolo vivo
nel giro di pochi secondi.
«Dobbiamo stare attenti, questo posto è pieno
di trappole.» disse il professore mentre due uomini, trattenendosi a stento dal
vomitare, coprivano i resti carbonizzati del compagno con una coperta.
La marcia verso il basso dunque proseguì,
molto più attenta di prima; vennero evitate un altro paio di trappole,
rispettivamente una selva di frecce e una seconda lingua di fuoco, e più se ne
evitavano più i portatori diventavano inquieti. Qualcuno suggeriva timidamente
di tornare indietro, e lo stesso professore ad un certo punto disse che forse
era la cosa migliore da fare, ma Michelle non ne aveva la benché minima
intenzione.
All’improvviso uno dei portatori, forse per la
paura, calpestò uno di quei pulsanti infernali, finendo impalato, e un altro,
terrorizzato da un tale spettacolo, cominciò a correre verso il basso urlando a
squarciagola di volersene andare, ma non rendendosi conto di stare inoltrandosi
sempre più nel buio della caverna.
«Aspetta, idiota!» gridò il professore, e come
lo vide calpestare un altro pulsante subito gli corse incontro.
Una pila di massi piovve dall’alto lo
travolse, anche se il professore fece a tempo a gettarsi all’indietro riuscendo
ad evitarli.
Uno dei massi, il più grosso, continuò a rotolare
implacabilmente verso il basso, fino a raggiungere una seconda, enorme porta,
che sfondò senza pietà con la sua enorme forza, attirando l’attenzione dei
membri della spedizione.
Questi, incuriositi ma ancora guardinghi,
lentamente si avvicinarono, facendo attenzione a non imbattersi in altre
trappole.
Fortunatamente non ne incontrarono altre, e quando
arrivarono alla fine del tunnel, dopo aver valicato il portone ormai divelto,
si ritrovarono da un momento all’altro in una immensa stanza di forma
quadrangolare, e come ne calpestarono l’uscio questa fu immediatamente inondata
da quelle che, alla faccia dell’anacronismo, sembravano vere e proprie luci al
neon.
Quando fu del tutto illuminata la stanza,
oltre a rivelare pienamente le sue gigantesche dimensioni, più che una camera
sepolcrale parve rivelarsi una specie di avveniristico laboratorio, pieno di
macchinari e apparecchiature di altissima tecnologia, roba perfino
inconcepibile persino per la moderna civiltà umana.
Il professore e i pochi operai rimasti in vita
restarono sbigottiti, le bocche spalancate e gli occhi fuori dalle orbite.
«Non… non ci posso
credere».
Al centro della stanza, circondata da quegli
strani apparati medico-informatici, stava una specie di capsula, coperta come
tutto il resto da uno spesso strato di polvere accumulatosi nel corso dei
millenni; il professore, sgomento, vi si avvicinò, e come scorse qualcosa al
suo interno rimosse con la mano parte dello sporco, svelando al di sotto il
volto bellissimo di un giovane uomo con lunghi capelli bianchi, apparentemente
immerso nel sonno. Le vesti regali che indossava, immacolate come il suo corpo,
non lasciavano dubbi su chi dovesse essere
«Questo…» disse incredulo
«Questo è…»
«Indovinato.» disse Michelle comparendo alle
sue spalle «Questo è Vipalcha. Lo chiamano il Quinto
Re, ma in realtà fu il primo dell’Ultima Grande Civiltà dei vampiri.»
«L’Ultima Grande Civiltà!?»
«I Cinque Re sono solo alcuni dei sovrani che
nei millenni si avvicendarono alla guida della civiltà dei Vampiri. Vipalcha fu tra i primi.
Lo guardi. È morto da più di trentamila anni, e
sembra che lo abbiano sepolto ieri.»
«Quante cose non sapevo o credevo di sapere
sui vampiri.» disse il professore, che poi si guardò un momento attorno «Ma se
avevano raggiunto un tale livello scientifico e culturale, perché lo hanno
abbandonato?»
«Per l’unico motivo che può spingere anche la
più avanzata delle civiltà a scomparire.»
«La guerra.»
«Come crede che sia scomparsa la Prima Civiltà
di cui tutti favoleggiano?».
Il professore guardò un'altra volta Vipalcha.
Allora la sua teoria, quella che aveva segretamente
elaborato ma che non aveva mai avuto il coraggio di confidare a nessuno, si
stava rivelando corretta.
All’alba della civiltà umana, i vampiri
avevano invece già raggiunto un livello di progresso inimmaginabile; ma poi era
successo qualcosa, che ora sapeva essere una guerra, e buona parte di quella
civiltà era scomparsa, e oltre a perdere quasi tutto ciò che il loro sapere gli
aveva permesso di creare i vampiri, da dominatori del pianeta, erano diventati
invece una risicata minoranza, dando modo agli esseri umani di surclassarli e
dare così vita ad un Seconda Civilizzazione, alla quale i pochi rimasti della
Stipe della Notte avevano dovuto per forza di cose adeguarsi.
Sapendo tutte queste cose, il professore sentì
un brivido alla schiena.
Se davvero tutto quello che c’era in quella
tomba risaliva a prima che la Prima Civiltà scomparisse, che cosa avrebbe
potuto fare se qualcuno avesse cercato di farne l’uso sbagliato?
Di colpo sentì di essere stato ingannato, e i
suoi timori divennero realtà quando vide le tre guardie del corpo che, ad un
cenno di Michelle, misero mano ai loro borsoni, pieni di apparecchiature di
immagazzinamento e registrazione.
«Che state facendo?» domandò incredulo e
arrabbiato
«Non si vede?» replicò tranquillo Michelle.
Gli apparecchi dei tre uomini furono collegati
a quello che doveva essere il nucleo centrale della stanza, una specie di
altare alto circa un metro, e subito presero a scaricare nella loro memoria tonnellate
di informazioni, codici, antichi testi e altro ancora.
«Questo è un sapere che non và usato
impunemente!» sbraitò il professore
«Gli inetti e gli incapaci che hanno avuto la
fortuna di possederlo non hanno saputo farne l’uso più corretto. Molto meglio
farlo nostro che lasciarlo a marcire inutilizzato in questo cimitero del
passato.»
«Quello che c’è qui dentro ha causato la
rovina della Prima Civiltà, e ha portato i vampiri alle soglie dell’estinzione!»
«E ora li aiuterà a sopravvivere.»
«Ma chi siete voi? Qual è il vostro scopo?».
A quella domanda, Michelle piegò le labbra in
uno strano sorriso, volgendo lo sguardo verso il professore.
«Il suo contributo è stato molto prezioso».
Un attimo dopo, la stanza fu riempita del
fragore di uno sparo.
Il professor Evans sgranò gli occhi e
socchiuse la bocca, cercando inutilmente di emettere un gemito di dolore che
non gli uscì; la sua camicia verde mimetico, regalo di sua moglie, si era fatta
di colpo rossa del sangue che sgorgava senza sosta dal foro all’altezza della
milza.
Alla vista del professore barcollante e
insanguinato, e della pistola comparsa all’improvviso tra le mani di Michelle,
i tre operai che erano con loro fecero per scappare terrorizzati, ma le guardie
di Michelle non diedero loro scampo piombandogli addosso con salti inumani e
affondando con forza i denti nei loro colli fino a dissanguarli.
«Ora che ha realizzato il sogno della sua
vita, professore.» disse beffardo Michelle mentre Evans lo guardava incredulo «Può
anche morire».
Il professore ebbe appena il tempo di pensare
un’ultima volta alla sua moglie, e alla sua adorata figlia, quindi si accasciò
a terra e morì stringendo ancora in una mano la loro fotografia, che per tutta
la durata della discesa aveva sempre tenuto stretta per farsi coraggio.
«C… Carmi…».
Terminata quella questione, le tre guardie si
rimisero rapidamente al lavoro.
«Tutto fatto, signore.» disse dopo poco una di
loro
«Molto bene. preparate tutto e andiamocene di
qui».
Dei tre borsoni ne fu lasciato lì solo uno, l’unico
che non fosse stato aperto per tutto il tempo, e dopo qualche minuto Michelle i
suoi erano di nuovo in superficie.
Agli operai e agli assistenti del professore
che li attendevano in superficie dissero che Evans e i suoi sarebbero risaliti
a breve, e prima di andarsene si assicurarono che le casse di birra che avevano
portato con sé, regalo gentilmente offerto dalla Fondazione Manovic
per festeggiare il buon esito degli scavi, fossero state scaricate.
Trenta secondi dopo che l’elicottero fu
decollato, l’intero accampamento fu spazzato via da una sequenza di violente
esplosioni, che tramutarono quell’angolo di foresta in un inferno di fuoco e
distruzione.
Un’esplosione avvenne anche all’interno della
tomba, avvolgendo l’intera camera sepolcrale e facendo sparire tra le fiamme il
corpo ed il ricordo del Quinto Re Vipalcha.
I
genitori di Eric erano tornati in Italia ormai da qualche mese.
Il casato dei Lorenzi era stato ufficialmente
riammesso alla nobiltà nel dicembre dell’anno precedente, durante una breve
cerimonia nel castello di Vaduz durante la quale Serena aveva riavuto
simbolicamente indietro le insegne, le decorazioni e lo stemma di famiglia, che
erano stati requisiti e portati via nel giorno in cui suo padre era sfuggito di
poco alla cattura.
Per lei era stato un momento molto importante,
a cui anche Eric, seppur di malavoglia, aveva presenziato.
Nonostante tutto quello che avevano dovuto passare,
nonostante il suo stesso padre avesse prima cercato di ucciderla e poi
costretta a scegliere tra l’essere uccisa o il consegnargli suo nipote, lei
teneva ancora al buon nome del suo casato, ed era più che fiera del cognome che
portava.
Il castello di famiglia nel sud dell’Italia
era ormai completamente ricostruito, e Serena vi aveva preso stabile dimora con
il suo compagno Hiroki, che ormai era anche prossima
a sposare, anche se appena aveva un momento libero cercava quando possibile di
tornare in Giappone per stare con il figlio.
Per tutti questi motivi, né Serena né Hiroki si trovavano lì quando venne per Eric il giorno di
lasciare la sua casa di Ikebukuro, dove aveva vissuto
nell’ultimo anno e che ora avrebbe abbandonato per trasferirsi alla scuola.
In compenso, gli avevano prenotato un posto
sul diretto per Nagano, e quindi una limousine che dalla stazione lo avrebbe
portato fino alla scuola.
Anche Nagisa avrebbe frequentato la Cross
assieme a lui, ovviamente.
Erano da poco passate le dodici; le valige
erano pronte, e si attendeva solo l’arrivo del mezzo di trasporto che li
avrebbe condotti alla stazione.
Eric scostò leggermente una tendina del
salotto per guardare fuori, verso il cancello; non vide nessuno, e malgrado
l’ora nella strada antistante non passava una macchina.
«Non verrà, mio signore.» disse Nagisa capendo
cosa avesse in mente «L’ultima volta che ci siamo viste, mi ha detto che
sarebbe andata fin laggiù per conto proprio.»
«Capisco.» rispose mestamente lui.
Si guardò attorno, osservando ciò che per
dodici mesi aveva trovato famigliare e confortevole dopo aver voluto ignorarne
l’esistenza per oltre dieci anni.
«Mio signore, il taxi è arrivato.»
«Sì… grazie».
Un’ultima occhiata, un ultimo richiamo della
memoria, quindi Eric recuperò le sue valigie aprì la porta ed uscì,
chiudendosela alle spalle.
Non si sentiva tranquillo.
Izumi
Asakura aveva preso il treno per Nagano già alle dieci di mattina, dopo aver
salutato i genitori che le avevano fatto mille raccomandazioni.
Le dispiaceva aver complottato alle spalle di
Eric, confidando nella capacità e volontà di Nagisa di tenere segreta la sua
partenza anticipata, ma temeva che avrebbe finito per tentare di convincerla
ancora una volta a rinunciare.
E di rinunciare, non voleva neppure sentirne
parlare.
Primo, non voleva stare lontana da lui per un
anno intero.
Secondo, e forse anche più importante, era
seriamente determinata a dimostrare ad Eric che si sbagliata.
Pur capendo la sua situazione, e quello che
sicuramente provava a sentiva riguardo a sé stesso, non voleva che Eric
continuasse a vedere la sua condizione di vampiro come una macchia, un qualcosa
di cui vergognarsi e da combattere in ogni modi.
La verità era che Eric, nonostante tutto,
considerava ancora i vampiri come dei mostri, creature pericolose e cattive per
natura, e per questo non voleva essere in alcun modo collegato a loro.
Doveva fargli capire che si sbagliava.
In quei dodici mesi aveva conosciuto altri
vampiri, capendo come si aspettava che ce ne erano anche di saggi e gentili, ma
questa era una cosa che Eric sembrava non voler accettare.
Sarebbe stato difficile, anche per lei, ma ce
l’avrebbe messa tutta. Sapeva bene quali rischi corresse ad andare all’accademia
Cross, ma non le importava; anzi, se nonostante tutto non le fosse accaduto
nulla, allora era la prova che non tutti i vampiri erano i mostri che Eric
pensava.
Intanto, cercava di godersi il viaggio.
Il super rapido della linea per Nagano
sfrecciava come un fulmine tra le campagne e i monti che caratterizzavano il
centro del Giappone, lontani dalle grandi città così soffocanti e
claustrofobiche, splendeva un bel sole e la primavera era già iniziata.
D’un tratto, una giovane ragazza dai lunghi
capelli biondi, più o meno della sua stessa età, passò accanto alla sua
poltrona, notando l’uniforme scolastica nera riposta in una borsa di carta.
«Scusa.» disse con un leggero accento
straniero «Per caso sei una studentessa della Cross?»
«Come!?» rispose lei confusa alzando gli occhi
dal libro che stava leggendo
«Leggi Byron!?» disse divertita la bionda notando
il titolo del voluminoso tomo
«Beh, ecco…»
«E allora? Vai anche tu alla Cross.»
«Più o meno.» rispose Izumi riacquistando
sicurezza «Inizio quest’anno.»
«Non mi dire.» disse la ragazza bionda
sedendosi accanto a lei «Quindi anche tu sei nel progetto di scambio culturale?»
«Non proprio. Io sono giapponese. Ho chiesto
il trasferimento, e me l’hanno concesso.»
«Vieni da Tokyo?»
«Esatto.»
«Io sono arrivata ieri da Londra.» quindi le
porse la mano «Piacere. Carmilla Evans. Ma tu puoi
chiamarmi Carmy se vuoi.»
«Izumi Asakura. Il piacere è tutto mio.»
«Allora, dimmi. Come mai una studentessa di
Tokyo decide di punto in bianco di trasferirsi in una scuola persa nel nulla!?»
«Beh, ecco… diciamo
che sto seguendo una persona.»
«Una persona?» replicò Carmy
sorridendo sarcastica «Non sarà per caso il tuo fidanzato?»
«Cosa!?» esclamò Izumi saltando sul posto e
facendosi rossa come sedile su cui si trovava «No, niente affatto! Non è come
pensi! Voglio dire, Eric non è il mio ragazzo!»
«Ah, così si chiama Eric.»
«No, ecco! Sì, insomma…».
Poi Izumi si accorse che, a forza di urlare,
aveva attirato l’attenzione dell’intera carrozza, e si raggomitolò imbarazzata
su sé stessa ancora più rossa.
«E dai, stavo scherzando. Sarà un piacere
frequentare la scuola con te.»
«Anche per me.» rispose Izumi calmandosi ed accennando
un sorriso sincero.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccoci dunque con il
primo capitolo.
Lo avevo detto che
sarebbe stato ugualmente pirotecnico.
E ora, un po’ per
volta, cominceranno ad apparire i vari personaggi che i rispettivi autori mi
hanno permesso di utilizzare.
Prometto solennemente
che ognuno avrà il suo spazio, e non sarà affatto una semplice comparsa.
Sarebbe ingiusto e irrispettoso nei loro confronti e nei confronti dei loro
creatori.
Ringrazio i miei
recensori, accorsi così numerosi.
A presto!^_^
Carlos Olivera