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Autore: Kourin    26/09/2012    4 recensioni
Misaki era riverso a terra. Quando Hikaru era corso verso di lui, le gambe si erano mosse senza bisogno del pensiero. Il braccio destro si era proteso in avanti per afferrarlo, come se all'interno del campo si fosse aperta una voragine che avrebbe potuto inghiottire per sempre la persona che aveva conosciuto come Taro Misaki.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Taro Misaki/Tom
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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2. Foglie

 

Si era fatto tardi. O forse non era poi così tardi, ma ormai la cognizione del tempo era andata perduta. Le pareti dell'ospedale erano così ben insonorizzate da riuscire a nascondere il finimondo che continuava a venire giù dal cielo e nei corridoi regnava indisturbato un assonnato silenzio. Ogni tanto la macchinetta delle bevande calde si risvegliava emettendo un lungo ronzio, troppo debole per scuotere i taciturni occupanti della sala d'attesa: un giovane addormentatosi ascoltando musica, una donna anziana che sonnecchiava ricurva sul bastone e una signora più giovane che continuava a fissare imbambolata la stessa pagina di una rivista femminile. La accompagnava un bambino, probabilmente il figlio, che dormiva rannicchiato sulla poltroncina.

Dopo che, mezz'ora o forse addirittura un'ora prima, un infermiere era venuto a chiamare il signor Misaki, Hikaru era rimasto in attesa. A forza di attendere i novanta minuti trascorsi a recuperare palloni al centrocampo si erano fatti sentire tutti sia nelle fibre muscolari che in quelle nervose. Si lasciò tentare dalla macchinetta: forse un caffè lo avrebbe risollevato dallo stato di torpore che tanto lo appesantiva. Frugò nelle tasche dei pantaloni per assicurarsi di avere a disposizione qualche moneta da cento yen, ne inserì una e selezionò un caffè americano. Il liquido scuro aveva quasi terminato di scendere nel bicchiere, quando alle sue spalle una vocetta esclamò: “E' Matsuyama!”

Il bambino, svegliatosi e saltato giù dalla sedia, lo stava indicando con il dito. La donna seduta accanto aveva riposto la rivista e stava tentando di identificare l'origine dello straripante entusiasmo. “Calmati, non è bello indicare le persone in questo modo! Conosci quel ragazzo?” chiese.

“Sì, gioca nella Nazionale Olimpica!”

Il giovane che ascoltava musica aveva iniziato a scrutare Hikaru con curiosità, mentre la vecchietta stava sbattendo le palpebre per metterlo a fuoco. Hikaru si passò le mani dietro la nuca. “Non credevo di essere così famoso!” mormorò davanti al suo piccolo pubblico.

“Com'è andata la partita? Avete vinto? Chi ha segnato?” Incalzò il bimbo.

“Non essere così brusco!” Lo rimproverò la madre. “Mi scusi!”

“Ma no, si figuri. Tutti i giocatori di calcio sognano di essere popolari tra i bambini, oltre che tra le ragazze,”scherzò Hikaru. “Come ti chiami?”

“Hiroshi Suzumura.”

“Piacere, Hiroshi. Non abbiamo vinto, abbiamo pareggiato. Per la Nigeria hanno segnato Bobang e Ochado, per noi invece Wakashimazu e Misaki.”

“Oh.”

Evidentemente il pareggio non era di suo gradimento, però Hiroshi si riprese subito dalla parziale delusione ed esclamò: “Misaki è il migliore!”

“Lo penso anche io. Oggi è stato molto coraggioso, oltre che bravo.” Hikaru omise il fatto che un paio di volte aveva dovuto riprenderlo dai suoi pensieri e che nel finale era stato incosciente oltre ogni misura.

“Perché allora sei tu il capitano?”

“Hiroshi! Non è bello dire così! Scusi ancora!” si affrettò a dire la madre.

Hikaru scosse il capo come per dire che non aveva importanza, appoggiò il caffè sul tavolino e si sedette accanto il suo interlocutore. La domanda era interessante per tutti e due. E non era così facile da spiegare.

Hikaru faceva parte di una squadra eccezionale, con tante individualità che trovavano una collocazione precisa nello schema complessivo. Il baricentro della squadra cambiava ogni qualvolta si riunivano e finiva inevitabilmente per ricadere su di lui che, sempre più incredulo per il ripetersi della coincidenza, non poteva altro che mettersi al braccio la fascia e combattere al massimo delle sue possibilità per onorarla. Sapeva che tra i tifosi c'era chi pensava che sarebbe dovuta spettare a giocatori più talentuosi, ma non poteva farci nulla perché essere capitano non era un suo capriccio. Trasse un respiro. “Non dipende da me o da Misaki, ma dalla squadra. Hai mai giocato in una squadra di undici giocatori?”

“Sì, certo! A scuola gioco da ala destra!” Disse Hiroshi con orgoglio.

“Allora saprai che non si sceglie di essere il capitano da soli. Lo sceglie la squadra oppure il mister che la rappresenta.”

Hiroshi lo guardò storto, era evidente che la spiegazione non lo aveva convinto del tutto. Allora Hikaru cercò di essere il più serio possibile quando disse a voce bassa: “Guarda che non si può dire di no a mister Kira. Anche se lo vedi in giacca e cravatta, una volta insegnava il calcio con la spada di bambù...”

Questa seconda risposta parve essere più convincente perché il bimbo, dopo averci  riflettuto un attimo, chiese: “Mi fai un autografo?”

“Certo!” Hikaru si fece dire gli ideogrammi che componevano il nome “Hiroshi”, poi afferrò il pennarello nero e il quaderno che la signora gli porse. Scrisse prima il nome del bimbo e poi il suo, che in confronto era di una semplicità sconcertante. Sei tratti che significavano “luce” accompagnati da un cognome comune.

“Lei ha una bella scrittura,” affermò la madre che lo aveva osservato. “Non è una cosa che ci si aspetta da un calciatore,” aggiunse.

“Grazie,”disse Hikaru in tono pacato.

“Posso vedere anche io la firma?” Si intromise la vecchietta che, finalmente, pareva aver individuato qualcosa in cui si sentiva competente. Quando le presentarono il foglio della dedica estrasse gli occhiali dalla borsetta, li inforcò in un movimento sicuro e, dopo aver contemplato i segni scritti  a pennarello affermò: “Proprio una bella scrittura, ragazzo. Hai studiato calligrafia?”

“Veramente mai. E' una cosa che mi viene spontanea, anche a scuola me la sono sempre cavata con gli ideogrammi.”

“Peccato, un artista mancato” sospirò l'anziana. “Questi giovani, tutti dietro al calcio, che cosa resterà del Giappone tra una decina d'anni? E pensare che porti il nome del principe Genji!”

Hikaru si passò nervosamente le mani nei capelli. Avrebbe voluto controbattere che anche lo spirito dei giocatori di calcio poteva rappresentare una nazione e il suo modo di essere, però non era certo che il discorso sarebbe stato compreso. Per fortuna l'ultimo ospite della sala d'attesa accorse in suo aiuto. Si era tolto le cuffie, si era alzato in piedi e gli stava presentando sorridente la pagina vuota di un quaderno. “Non è che firmeresti un autografo anche a me?”

 

A Hokkaido l'autunno arriva presto. A Furano che è proprio al centro arriva ancora prima. Sono i primi di ottobre e ci sono già le foglie gialle (e anche le foglie rosse).

Papà ha iniziato a dipingere un nuovo quadro. Io sono contento perché vuol dire che resteremo qui ancora per un po'.

Ieri pomeriggio volevo tenergli compagnia, però lui mi ha detto di andare a giocare a calcio con gli amici. I miei amici sono la squadra di calcio della scuola elementare. Io sono il numero dodici perché sono arrivato per ultimo e loro erano già in undici, però mi fanno giocare sempre (segno molti gol e so anche fare gli assist). Sulla strada per la scuola ho incontrato Oda. Anche lui è un attaccante. Volevamo fare a gara a chi riusciva a fare più palleggi di testa ma c'era un vento freddo che ogni tanto si prendeva il pallone e così nessuno ha vinto. Però era una bella giornata e c'era anche il sole.

Purtroppo quando siamo arrivati sul campetto della scuola non si poteva iniziare l'allenamento perché i ragazzi della sesta lo avevano occupato (loro giocano a baseball). Matsuyama ha detto loro che era il nostro turno e che alle cinque ci siamo sempre stati noi, però il loro capitano che si chiama Machida ha risposto che del calcio non gliene importa un fico secco a nessuno. Poi gli altri hanno detto che noi non valiamo niente perché non abbiamo mai vinto un torneo e invece loro sono arrivati quarti al torneo regionale.

Mi sono fatto avanti e ho detto: “Non è vero! Sono stato in molti posti in Giappone e posso dire che loro sono davvero bravi.”

Mi hanno chiesto: “Tu chi sei?”

Ho risposto:“Sono Taro Misaki.”

Machida mi ha dato una spinta ma io sono rimasto in piedi e ho detto: “Lasciaci giocare.” Allora lui mi ha preso per un braccio ma Matsuyama si è messo in mezzo. Ha detto: “E' con me che te la devi vedere!” E poi: “Che nessuno di voi si intrometta!”

Machida gli ha tirato un pugno. Matsuyama gliel'ha restituito. Poi gli altri ragazzi lo hanno circondato, ma lui è passato sotto le loro gambe e non si è fatto prendere.

Ho gridato:“Fermati!” Ma non mi ha ascoltato. Anzi, ha detto: “Siete in nove contro uno, chi è che non vale niente?”

Io ero pronto a tirare una pallonata per fermarli. Non mi piace colpire gli altri, ma potevano farsi male sul serio. Oda mi ha bisbigliato all'orecchio: “Stai fermo. Matsuda è andato a chiamare il maestro. Arrivano subito, fai come ha detto il capitano.”

Matsuyama è riuscito a schivare i ragazzi più grandi e anche a colpirli, ma ad un certo punto lo hanno buttato a terra e sono riusciti a bloccarlo. Stavo per andare ad aiutarlo insieme al pallone, quando il maestro è arrivato. Ha sgridato tutti i ragazzi della squadra di baseball e ha sequestrato i guantoni e le mazze. Poi ha sgridato anche Matsuyama, che per punizione ha passato tutta la giornata di oggi in piedi, con due secchi pieni d'acqua in mano.

Appena finita la lezione sono andato da lui. Aveva una faccia molto seria.

Ho detto: “Non dovevi dargli addosso in quel modo.”

Matsuyama ha risposto: “Non l'ho fatto perché mi piace fare a pugni. Io voglio solo giocare a calcio.” Poi è rimasto zitto.

Io allora gli ho cambiato qualche cerotto perché quelli che aveva si erano staccati (avevo preso apposta una scatola in infermeria). Aveva graffi sulle gambe e sul viso perché era finito per terra tre volte. Ho detto: “Questa settimana il campo è tutto nostro. Però il maestro non sa se ti lascerà andare alla partita di sabato.”

Matsuyama ha stretto di più il manici dei secchi e ha risposto: “Immaginavo. Fai tu il capitano allora. Provate i passaggi. E' importante, tra un po' non potremo più allenarci.”

“E' per via della neve?”

“Sì. Arriva quando iniziano a cadere le foglie.”

Allora ho controllato fuori dalla finestra. Nel cortile qualche foglia era già caduta. Poi ho guardato Matsuyama e ho detto: “Va bene.”

Mi ha chiesto di tornare vicino a lui. Poi senza lasciare i secchi ha appoggiato la fronte sulla mia. Ha chiuso gli occhi e ha detto: “Grazie Misaki.”

Il suo respiro mi ha toccato le guance e anche i suoi capelli mi facevano il solletico. Allora ho riso e quando ho staccato la fronte ho visto che rideva anche lui. Nessuno mi ha mai detto grazie così.


Misaki uscì dall'ambulatorio accompagnato dal medico della squadra e dal padre. Gli avevano applicato alcuni punti di sutura e la ferita era coperta da un vistoso cerotto protetto da una garza che gli cingeva la testa. Il trauma che aveva subito non aveva avuto conseguenze gravi, tuttavia necessitava di un periodo di osservazione di almeno quarantott’ore.

Il problema che si presentava era dove trascorrerle. Misaki non poteva rientrare ad Iwata: per lui che doveva mantenere il riposo assoluto un viaggio di duecentocinquanta chilometri era fuori discussione. Si sarebbe potuto sfruttare un appartamento che il padre aveva in affitto a Nakano, però il signor Misaki non  avrebbe potuto seguire il figlio perché era in partenza per Naoshima, sul Mare Interno, dove avrebbe presenziato all'inaugurazione di una mostra d'arte. L'unica alternativa che restava era il ricovero in ospedale. Misaki non replicò, ma per Hikaru era chiaro come il sole che in quel momento sarebbe stata la soluzione sbagliata. Disse: “Se vuoi andare a casa di tuo padre, io resterò con te! Se ti va bene ovviamente...”

Dapprima Misaki lo guardò con la solita aria stranita, poi un po' per volta la sua espressione si addolcì. Le sopracciglia sottili si rilassarono, gli occhi castani si liberarono del velo opaco che li avvolgeva come nebbia e tutto culminò in un sereno, familiare sorriso. “Grazie, Matsuyama. Scusa per il disturbo.”

Arrivarono a Nakano che era notte fonda. Aveva appena smesso di piovere e il silenzio notturno era intervallato solo da gocce che riecheggiavano all'interno delle grondaie. Il rumore della chiave che girava nella serratura suonò quasi inopportuno. La porta dell'appartamento si aprì su una sala piuttosto spaziosa che fungeva anche da studio: al centro si vedevano un cavalletto e gli attrezzi del mestiere di pittore, mentre su una parete poggiava una libreria ben fornita di volumi d'arte. Nonostante l'affollamento di oggetti tutto era estremamente pulito e ordinato e una serie di quadri appesi, tutti ritraenti montagne, contribuivano a rendere l'idea di uno spazio ampio e limpido. La stanza da letto, in stile giapponese, era stata ricavata in un vano separato dal resto dell'appartamento da una porta scorrevole.

Hikaru chiese: “Come va con la testa?”

“Me lo hai già chiesto tre volte in un'ora. Sto bene, fidati di quello che dico,” rispose Misaki.

“Non è che non mi fido di quello che dici. E' solo che questo stare bene potrebbe essere una tua sensazione e non la realtà. Non offenderti, ma anche il medico ha detto che la fase di osservazione è importante,” replicò Hikaru. Aveva preso molto sul serio il suo incarico e durante il tragitto in taxi aveva riletto attentamente il protocollo che avrebbe dovuto seguire per controllare l'amico.

Misaki gli sorrise ed esclamò:“Non cambi mai!”

“Neanche tu, se è per questo.”

“Dicono che non cambiare mai non sia una buona cosa.”

“Ho fatto il centravanti, il difensore centrale, il mediano difensivo e pure l'esterno sinistro. Direi che è abbastanza,” scherzò Hikaru.

“Io ho fatto solo l'ombra di Tsubasa. Non è abbastanza,” sentenziò Misaki serio.

Hikaru, preso alla sprovvista, impiegò qualche momento per ribattere. Misaki era sempre stato riservato sull'argomento 'Tsubasa': gettarlo nella conversazione in maniera così diretta pareva terribilmente stridente. Hikaru appoggiò la borsa vicino al piccolo divano che aveva individuato come suo giaciglio e disse: “Pensa che io da piccolo avevo la sensazione di essere l'ombra tua.”

“Non esiste l'ombra di un'ombra, mettiti il cuore in pace.”

“Allora, se non ero un'ombra, che cos'ero?”

La calma dello sguardo di Misaki parve incrinarsi per un attimo, forse per semplice curiosità. “Luce,”disse. Poi voltò le spalle e aprì la porta della la stanza da letto.

Hikaru lo seguì. “Mi prendi in giro?”

“Forse,” rispose Misaki mentre iniziava a srotolare il futon.

“Aspetta, ti aiuto!”

“Non è necessario.” Il tono era fermo e Hikaru decise di lasciar perdere: aveva la sensazione che Misaki più che preparare un futon stesse erigendo una barriera. Intromettersi non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.

Hikaru puntò la sveglia sul suo orologio da polso, sistemò una coperta sul divano e vi si accasciò. “Guarda che tra due ore ti sveglio per controllarti, ma se ti senti male avvisami subito!”Avvertì. “Buonanotte”.

“Lo so che non ti posso sfuggire, sei Matsuyama!” Rispose la bella voce di Misaki. “Buonanotte.”

La porta scorrevole fece per chiudersi, ma dopo un attimo di esitazione venne lasciata aperta. Hikaru si sentì come liberato da un peso e, stanco per l'intensa giornata, si addormentò profondamente pur trovandosi in un luogo estraneo. Forse erano i paesaggi di montagna a farlo sentire a casa.

 

 

*** *** ***

 

Note varie

Ignoro quale sia il protocollo di gestione di un trauma cranico in un pronto soccorso giapponese, ma il solo pensiero di documentarmi faceva venire il mal di testa A ME. Perciò accontentatevi finché non mi verrà in mente di scaricare uno di quei dorama televisivi in stile E.R. ;)

Il “principe Genji” citato dalla vecchietta altri non è che “Genji il principe splendente” aka “Hikaru Genji”, classico della letteratura giapponese.

Che Matsu sia appunto bravo in giapponese non credo di essermelo inventato. Devo averlo letto in una delle vecchie “enciclopedie” della serie dove venivano indicate le materie scolastiche preferite dei personaggi, ma è passato tanto di quel tempo che effettivamente potrei essermelo sognato. Che nella fattispecie sia bravo a disegnare ideogrammi, è certamente frutto della mia fantasia. L'ho fatto per rimarcare che Matsu e Misaki non sono poi tanto diversi. Sono entrambi due ragazzi gentili e a pensarci un attimo anche il loro calcio, basato sulla visione complessiva della squadra, si assomiglia. Ciò che li ha resi differenti sono le esperienze della vita. Forza Matsuyama, forza Misaki, sono sicura che il destino vi vuole di nuovo insieme!

Kourin

  
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