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Autore: Dicembre    04/10/2012    1 recensioni
Inghilterra, 1347.
Di ritorno dalla battaglia di Crécy, un gruppo di sette mercenari è costretto a chiedere ospitalità ed aiuto a Lord Thurlow, noto per le sue abilità mediche. Qui si conoscono il Nero, capo dei mercenari, e Lord Aaron. Gravati da un passato che vorrebbero diverso, i due uomini s'avvicinano l'uno all'altro senza esserne consapevoli. Ne nasce un amore disperato che però non può sbocciare, nonostante Maria sia dalla loro parte. Un tradimento e una conseguente maledizione li poterà lontani, ma loro si ricorreranno nel tempo, fino ad approdare ai giorni nostri, dove però la maledizione non è ancora stata sconfitta. E' Lucifero infatti, a garantirne la validità, bramoso di avere nel suo regno l'anima di Aaron, un prescelto di Dio. Ma nulla avrebbe avuto inizio se non fosse esistita la gelosia di un mortale. E nulla avrebbe fine se la Madonna e Lucifero fossero davvero così diversi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Interludio Quinto
 
 
 
“Farai conoscere loro il passato…”
 
“Così m’è stato richiesto”
 
Non ti muovi dalla balaustra sulla quale sei seduto, aspetti qualche minuto, vedendo che Ayel non se ne va
 
“Perché rimani? Vattene. Va’ e fai ciò che t’è stato chiesto” ti sento dire, ma vuoi tutt’altro e l’angelo ti conosce troppo bene per lasciare che parole di un Sobillatore - così tristi - lo feriscano
 
“Il tuo compito s’è concluso, ora puoi tornare a casa”
 
“Tu cosa farai?” gli chiedi, perché lo vuoi con te.
 
Non c’è modo? Non c’è davvero modo perché voi possiate...
 
“Tornerò alla mia”
 
Sei consapevole che non c’è modo, lui è troppo luminoso perché possa essere offuscato e la sua volontà è troppo ben amalgamata con quella di Dio perché possa essere infiltrata dal nero della tua.
 
Ancora nessuno di voi due si muove, ancora nessuno di voi due osa guardarsi.
 
E il tempo passa, o forse no, perché non sai più che cosa fare. L’unica cosa che vuoi fare, ti è impossibile.
 
“Vorrei…” bisbigli “Vorrei corromperti” Non stai parlando direttamente ad Ayel perché sai che lui è ben consapevole di te e di tutto ciò che affolla i tuoi pensieri
 
“E’ impossibile…E’ impossibile per me redimerti. Ed è impossibile per te corrompermi”
 
Lasci che la frustrazione prenda il sopravvento, la tua aura si oscura e se non ci fosse Ayel vicino a te, sai che la città sarebbe andata in pezzi
 
Non sai che cosa devi fare e non ti accorgi che Ayel è vicino a te, molto vicino a te e che è lui a baciarti.
 
Non te lo aspetti, sei inerme di fronte a lui. E ti aggrappi alle sue spalle, ai suoi capelli per non lasciarlo andare.  C’è il suo sapore sulle tue labbra che ti disseta.
 
La luce e l’ombra non si amalgamano, nè s’infiltrano. S’intrecciano senza lasciare che l’una prevalga sull’altra.
 
Poi si disfano, perché è la natura delle vostre anime ad essere troppo diversa per permettere all’uno di portare via l’altro.
 
Fa un passo indietro, senza staccare gli occhi dai tuoi, poi si gira, definitivamente.
 
“Perché gli umani e non me?”
 
Bruciate! Ti sento gridare in silenzio, ma ugualmente aspetti la sua risposta, che non arriva.
 
Scuote la testa e i suoi capelli bianchi ondeggiano.
 
E’ finita perché se ne deve andare, perché sei un Sobilatore e i tempi in cui avevi accesso al Paradiso sono ormai terminati.
 
Non sei pentito, ma la nostalgia di lui è così intensa che te lo fa dire:
 
“Ti amo”
 
Ma lui non ti crede “Non è vero”
 
“Credimi!” ti aggrappi  al vestito sulle sue spalle
 
“Sei un Sobillatore, non posso crederti”
 
“Ma sono S…” cerchi fra le maglie della memoria il tuo nome. Sei sicuro che con quello lui ti crederebbe. Perché in Paradiso lui ti credeva. E in Paradiso tu avevi un nome che cadendo hai perso. Il tuo nome non esiste più e tu non puoi pronunciarlo. “Hai ragione… Sono solo Esse…”
 
Lui si volta a guardarti.
 
Non so se ti crede o meno, è un angelo troppo potente perché io, sciocca anima appartenuta ad un mortale, possa leggere il suo cuore. Ma si gira verso di te e ti guarda con occhi per cui spero che ti creda.
 
“Devo andare”
 
E poi scompare, lasciandoti solo e obbligandoti a tornare all’Inferno.
 
Perdo completamente le tue tracce quando entri l’Antro dei Dannati. Sento degli ululati provenire da laggiù, ma non so di chi siano e a che cosa siano dovuti.
 
Scompari alla mia vista e a quella di Ayel, che ti pensa, quando in realtà mostra il suo passato a mio fratello.
 
E’ una fiammella bianca che ricorderà alle loro menti offuscate quello che è successo e che racconterà perché Nathaniel non è tornato fra le braccia di chi amava.

 
***

 
43. Il tempo

 
 
 
 
La luce bianca nella stanza disperse parte del buio fitto che l’aveva invasa.
 
Intorno alla fiammella una mano, poi prese forma la figura di un uomo dai capelli lunghi e candidi .
 
“Questo è il passato” disse Ayel “ora vi appartiene”.
 
La loro coscienza parve disciogliersi in un mare conosciuto ma dimenticato. Matthias, Alec e Jude si ritrovarono ad essere osservatori e testimoni della loro stessa vita, anni prima.
 
 
 
Pioveva a dirotto, quel giorno, così come il giorno prima. Durante la notte aveva smesso, per un po’, ma il cielo non s’era schiarito e le nuvole non avevano dato accesso alla luna, che se n’era rimasta nascosta. Era una notte di luna piena, Aaron lo sapeva bene, senza la necessità di osservare le stelle.
 
Ed era una notte di luna nuova, l’ultima sera che Nero aveva trascorso con lui, la notte in cui tutto era finito.
 
Non era poi tanto tempo, eppure ad Aaron sembrava un’eternità. Il tempo era lento, i minuti, le ore, non passavano più. Bruscamente avevano rallentato il loro corso, camminando in avanti goffamente e fermandosi per riprendere fiato.
 
Il tempo non passava più.
 
La crescita della luna, il suo illuminarsi sempre un pochino di più sino al suo ultimo spicchio per dominare, piena, il cielo, era parsa infinita.
 
E invece erano passati così pochi giorni…
 
Aaron guardò fuori dalla finestra, avvolto in un mantello foderato. Aveva freddo.
 
Aaron sorrise. Sapeva benissimo il perché.
 
Il castello, il lavoro, le sue faccende… Ne aveva delegato sir Christopher, lui s’era ritirato nella sua biblioteca e nelle sue stanze e non aveva incontrato più nessuno, se non Natalie che, una volta al giorno, gli portava del cibo. La donna aveva cercato, all’inizio, di parlare col suo padrone, di persuaderlo a mangiare più di frequente, come faceva prima. Ma Aaron non le aveva risposto, l’aveva congedata con un gesto della mano. Natalie, dopo qualche giorno, aveva rinunciato, sapendo che non spettava a lei dire al proprio padrone che cosa fosse meglio fare.
 
Aaron non voleva fare nulla, persino leggere gli era diventato difficoltoso. Si limitava a guardare fuori dalla finestra la pioggia che cadeva. Si limitava ad aspettare che il tempo passasse.
 
Qualcuno bussò debolmente alla sua porta. Aaron aspettò che Natalie entrasse. Ma una volta aperta e, uditone il passo, si rese conto che la persona appena entrata nella stanza non era la serva.
 
Si girò di scatto.
 
“Padre!” sgranò gli occhi: ormai suo padre non usciva più dalle sue stanze da anni. Spesso s’era lui stesso chiesto se capisse quello che aveva intorno oppure se la vecchiaia non avesse completamente avuto la meglio sulla sua ragione.
 
Il vecchio fece qualche passo incerto, all’interno della stanza. Era ricurvo, appoggiato stancamente su un bastone. I pochi capelli bianchi che gli rimanevano in testa ricadevano disordinatamente, un po’ qua e un po’ là. La pelle sulle mani era violacea e a macchie. Avrebbe potuto passare per un moribondo. Ma, quando incrociò lo sguardo del figlio, i suoi occhi dicevano tutt’altro. C’era risolutezza e forza, forse nascosta dalla vecchiaia, ma non per questo dimenticata.
 
Aaron non capì perché il padre avesse deciso di alzarsi, ma si affrettò ad aiutarlo a chiudere la porta dietro di lui.
 
“Perché…?”
”Natalie m’ha detto che non esci più”
 
Aaron sorrise “Avessi saputo che questo ti avrebbe trascinato fuori dalle tue stanze, l’avrei sicuramente fatto prima”
 
“Non scherzare…” lo ammonì il vecchio “Sei troppo pallido per farlo”
 
“Non mi sento molto bene, ora mi passa…”
 
Il vecchio scosse la testa. “L’altro giorno sono venuti nelle nostre terre alcuni pescatori…”
 
“Lo so, li…”
 
“Li hai incontrati sì.”
 
Aaron aggrottò la fronte, come poteva il padre saperlo?
Il vecchio sorrise, triste.
 
“Venivano da un villaggio dove c’è la peste…”
 
Aaron annuì e lasciò che il padre continuasse, capendone benissimo le intenzioni.
 
“Due degli stallieri si sono ammalati”
 
“Allora dovresti lasciare la stanza”
 
Il vecchio sbatté sul pavimento il suo bastone, indispettito.
 
“Chi ti ha insegnato ad essere così irrispettoso?”
 
“Padre, io sono malato”
 
Il vecchio sospirò.
 
“Questo lo vedo. E vedo anche che non ti stai curando…”
 
Aaron alzò leggermente le spalle, sospirando. E’ vero, non aveva preso niente per quel senso di nausea e quel fastidio che provava da un paio di giorni…
 
“Perché?” gli chiese il vecchio.
 
“Me ne sono dimenticato” il biondo disse una mezza verità.
 
Il vecchio si sedette su una poltrona rivestita in velluto blu e ne accarezzò i bracciali prima di riprendere a parlare.
 
“Io so” disse poi semplicemente e senza rancore.
 
Aaron lo guardò con calma e poi chiese “E non mi dici niente? Non gridi?”
 
“Sono troppo vecchio per sgridarti. E tu sei troppo malato per sopportare un vecchio.” Esitò per un istante, insicuro su come il figlio avrebbe reagito “Stai morendo”
 
Ma Aaron non reagì, semplicemente, si appoggiò pesantemente con la spalla al muro, continuando a guardare la pioggia scrosciante.
 
“Se n’è andato…”
 
“E ti stai lasciando morire per questo?”
 
“Mi ha ingannato, padre. E io ho lasciato che lo facesse. S’è preso gioco di me e della tua casa. E io ho permesso che lo facesse. “
 
Fece una pausa, non voleva raccontare al padre di quanto amasse un uomo che, in realtà, aveva promesso di rimanere e poi se n’era andato subito - senza lasciargli il tempo di capire, né di persuadere. Senza lasciargli il tempo di parlare.
 
Non poteva dire a suo padre che sapeva che Nero non l’amava. Non solo non l’aveva mai detto, ma se solo l’avesse dimostrato un pochino, gli avrebbe lasciato una qualche speranza per il futuro.
 
Non poteva certo dire al padre che lo avrebbe perdonato se solo fosse tornato, se solo si fosse girato verso di lui una volta, prima di andare.
 
Se solo gliel’avesse chiesto.
 
Ma non l’aveva fatto, se n’era andato per continuare la sua vita altrove e per svuotare di significato tutte quelle parole che gli aveva detto, quei baci che gli aveva dato.
 
Non poteva certo credere a nessuno di loro. L’avesse fatto, l’avrebbe rincorso, si sarebbe aggrappato alla sua tunica e l’avrebbe implorato. Probabilmente sarebbe diventato un fardello, come Chiaro prima di lui.
 
Ma lui non era il fratello di Nero e non poteva esserne l’amante.
 
Il padre non disse niente e per un po’ nella stanza ritornò il silenzio.
 
“Sei pallido” disse il padre.
 
Aaron annuì, ma non rispose. Era ammalato e sapeva bene cos’era. Ma non era importante.
 
“Vieni qui” gli disse il padre, appoggiandosi la mano sopra le gambe.
 
Da piccoli, Aaron e William erano soliti sedersi sulle gambe del padre e ascoltarlo, mentre raccontava della sua gioventù e di tutte quelle storie che agli occhi dei bambini parevano fantastiche. Col passare degli anni, avevano smesso di sedersi sulle gambe, ma si sedevano ai piedi del padre, appoggiando la testa in grembo. All’inizio il vecchio non aveva voluto che i gemelli trattassero le sue gambe come quelle di una nutrice, poi s’era arreso alla caparbietà dei due.
 
Aaron guardò le gambe del padre, così sottili, anche sotto la pesante tunica e si sedette di fianco a lui, appoggiandovi sopra le testa.
 
“Lasciami per un po’ così…lascia…” strinse il tessuto fra le mani e non disse più niente.
 
La nostalgia che provava per Nero ritornò prepotentemente in superficie e Aaron lasciò i suoi occhi piangere, senza muoversi o fare rumore, mentre il padre rimaneva immobile.
 
In quella stanza silenziosa, il giovane ed il vecchio rimasero seduti. Non c’era nulla da fare, come da giorni ormai.
 
Il tempo trascorreva appannato e frastornato.
 
Aaron si chiese come aveva potuto essere così sciocco da lasciarsi ingannare e da permettere di innamorarsi.
 
Se lo chiese molte volte, ma lì con suo padre, come tutti i giorni precedenti, non trovò risposta alcuna.
 
 
 
 
 
Pioveva e il terreno, intriso d’acqua, emanava quell’odore di umido che gli era sempre piaciuto. Se si fosse voltato alla sua sinistra, avrebbe potuto vedere qualche casolare: le abitazioni alle porte di Londra. Nero e i suoi compagni, ormai, erano arrivati alla capitale. Ma Nero non osava voltarsi, non voleva vedere le mura, le case… Troppi i villaggi a ridosso della città, troppe le volte che s’era chiesto se davvero poteva andare avanti…
 
E ora si ritrovava lì, di fronte a Londra, lontano da tutto.
 
Aspettò che il sole calasse definitivamente prima di entrare nella locanda dove avrebbero passato la notte. Vide i suoi uomini fare baldoria a suon di musica, nello stanzone  dove avevano cenato, mentre lui si diresse verso le scale, per andare a dormire.
 
Sarebbe sorto un altro giorno: Nero sperava che dormendo, il tempo sarebbe trascorso più velocemente. Ma sapeva che neanche quella notte avrebbe dormito un sonno tranquillo, come ormai non faceva più di settimane. Non trovava tregua, rimaneva in un dormiveglia agitato per tutta notte, finché i primi raggi del sole non illuminavano il cielo.  E poi a cavallo, per lasciarsi portare verso la città, senza pensare o dire niente, perché non c’era niente né da pensare né da dire.
 
Lasciava semplicemente che il tempo scorresse.
 
“Nero, non ti unisci a noi?” Chiaro aveva notato Nero rientrare e gli era corso dietro quando aveva visto che suo fratello, anche quella sera, non avrebbe cenato.
 
Nero non rispose, scuotendo la testa.
 
“Ma non hai neanche mangiato un tozzo di pane…”
 
Nero guardò Chiaro come se non capisse il fine di quella conversazione.
 
“Non parli, non dici niente, non mangi neanche più! Sono preoccupato..:”
 
Nero gli voltò le spalle, riprendendo a salire le scale. “Non ho fame”, ma Chiaro non demorse
 
“Nero!”
”Non ho fame” tagliò corto l’altro.
 
“Che cos’hai? Sei pallido, non hai più appetito, cavalchi sempre lontano da noi e non parli… Sei malato?”
 
“Sto benissimo” rispose Nero monotono “Sono solo stanco”
 
Voltò le spalle a Chiaro definitivamente e si diresse verso la propria stanza, non dando la possibilità al fratello di dire un’altra parola.
 
Chiaro rimase fermo, sulle scale, perso nei suoi pensieri.
 
Era da quando erano partiti da Castel Thurlow che Nero non parlava, non rideva, non faceva nulla se non rispondere a monosillabi quando gli era indispensabile. Non passava le serate con loro, era completamente diverso.
 
Aveva chiesto a Cencio il perché, secondo lui, il fratello si stesse comportando così. Ma l’italiano era stato elusivo. Forse – probabilmente – neanche lui ne conosceva il motivo.
 
Che cosa c’era, nel castello in Cornovaglia, che Nero desiderava così tanto?
Chiaro era stato molto felice quando, finalmente, erano partiti.
 
 Il congedo era stato piuttosto frettoloso, ma perché indugiare? Aveva pensato che, finalmente, tutto sarebbe ritornato come prima. Non si faceva più grandi illusioni sul loro ritorno a casa, ma almeno, sul suo cavallo, Nero ritornava ad essere il fratello amato. Il fratello conosciuto.
 
Come s’era sbagliato!
 
Nero, partito da Castel Thurlow, era diventato l’ombra di sé stesso. Una sola volta Chiaro aveva provato ad accennargli che, forse, davvero era ora di tornare a casa. Nero l’aveva aggredito con tale veemenza, che Chiaro temette avrebbe iniziato a prenderlo a pugni. Era stata una reazione completamente nuova e inaspettata.
 
 
 
Chiaro si diresse verso la sua camera. Ormai il suo umore non gli permetteva di ritornare coi propri compagni.
 
Entrato nella sua stanza, Chiaro vide quel libercolo nero che aveva preso dalla libreria di Castel Thurlow e che non aveva restituito.
 
Già… Quel libro, forse, poteva aver la chiave per risolvere i suoi problemi, per quanto Chiaro fosse incredibilmente scettico a riguardo.
 
Lo prese in mano e lo guardò, quasi lo vedesse per la prima volta.
 
Che cosa avrebbe fatto Nero al suo posto?
Probabilmente si sarebbe messo a ridere e l’avrebbe gettato. Anzi, Nero probabilmente non l’avrebbe neanche rubato. Ma lì dentro sembrava esserci la chiave per far tornare Nero quello che era un tempo: il suo capo e suo fratello, Per convincerlo che non esiste altra casa se non la propria. E per far sì che lo amasse un po’ di più. Solo un po’. Così da essere sicuro che Nero non lo lasciasse mai indietro.
 
 
 
Persuaso dai suoi stessi pensieri, Chiaro aprì il libro alla pagina dove aveva lasciato il segno. E la rilesse nuovamente.


 
  
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