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Autore: margheritanikolaevna    13/10/2012    6 recensioni
Con un'altra mini-raccolta sul fandom di White Collar (che trovate qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1255230&i=1) queste tre one-shot hanno partecipato al contest "I sette peccati capitali", indetto da Reghina-Chan ma giudicato da Lady Eloise, classificandosi al terzo posto.
La medaglia qui è sempre lui, Mac Taylor: intorno a lui ruotano tre personaggi e su di lui s'incentrano tre storie, costruite per rappresentare altrettanti vizi capitali. Ci saranno: la verità sull'addio di Stella a New York, un momento Mac/Peyton e un what if? altamente drammatico che coinvolgerà il nostro bel Don Flack.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Don Flack
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autore: margheritanicolaevna nel forum e margheritanikolaevna su EFP;
Titolo storia: “Funeral Blues”;
Genere: drammatico, introspettivo;
Avvertimenti: what if? angst;
Rating: giallo;
Fandom: CSI NY;
Pairing: Mac Taylor/Don Flack
Peccato capitale: accidia
Introduzione: questa fic è costruita come un monologo interiore di Mac Taylor il quale, assistendo al funerale dell’amico e collega Don Flack, si interroga su ciò che ha fatto e su ciò che avrebbe, invece, potuto fare per aiutarlo. L’antefatto immaginario - perché nella serie non va così ovviamente - è che dopo la morte di Jessica Angell Don non sia più riuscito a riprendersi e si sia lasciato andare sempre più, fino all’epilogo tragico. È un what if? in chiave drammatica di una scena dell’episodio “Il nido del cuculo” in cui effettivamente si vede Don che, ubriaco e stravolto, viene picchiato e rapinato da due tipi armati di coltello in metropolitana. Anche la frase che Mac menziona gli è stata davvero detta in un teso dialogo tra i due.
Questa one-shot, per un’infinità di ragioni che lei di certo capirà al volo, non può che essere dedicata a Lubylover: ormai sono su efp da un anno, frequento il fandom assiduamente e mi sono resa conto che scrivere di Don Flack senza aver letto le sue fic sarebbe arduo e insidioso. La prima parte è, infatti, debitrice dell’ultimo capitolo della sua “Dov’eri quando il mondo cessò?”.
Spero ti (e vi) piaccia.   
 
Funeral Blues
 
“Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome”

La voce del cappellano militare attraversa alta e ferma l’aria resa precocemente tiepida da un’inaspettata primavera; le sue parole non tradiscono alcuna emozione, non c’è nessun tremito a incrinarle.
Povero, vecchio reverendo Caldwell, ci conosciamo da anni, so che sei stato in Libano e in Afghanistan prima di arrivare qui a New York e chissà quanti onorati servitori dello Stato hai accompagnato verso la tomba nel corso della lunga carriera di cappellano militare; mi sono sempre chiesto se è l’abitudine al dolore che ti ha reso all’apparenza così distaccato, oppure se dipende dal fatto che non hai conosciuto la persona che adesso giace distesa nella bara di mogano avvolta nella bandiera a stelle e strisce.
Al contrario, per me - che pure tutti considerano un uomo severo, quasi freddo - riuscire a trattenere le lacrime è già quasi un miracolo e non so come farò a pronunciare le poche parole che i colleghi mi hanno chiesto di dire senza cedere al pianto.
“Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza”.

È uno splendido pomeriggio di metà aprile, l’aria è tiepida e profumata di erba tagliata di fresco e dall’oceano spira una brezza deliziosa; i raggi del sole appena calante bagnano di luce dorata le lapidi bianche, tutte uguali. Se questo posto non fosse così impregnato di dolore, ecco, oggi sarebbe persino ameno.
È uno splendido pomeriggio di metà aprile e Don Flack è morto: Don, possibile che tu non sia più da nessuna parte? Davvero non ci sei proprio più?
Il cielo è così azzurro, le ombre così dense che a prenderne coscienza si prova un senso di stupefatta meraviglia per tutte le cose… Don, non puoi più sentire neanche questo?
Affiorano alla mia mente le parole di una vecchia poesia, non ricordo di chi: allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni, spegnete le stelle, imballate la luna, smontate pure il sole, svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco perché ormai più nulla  può giovare (1).
Mi guardo intorno: siamo tutti qui per te, riuniti innanzi al marmo finale, tra gli infausti cipressi. I tuoi genitori sono seduti in prima fila, lo sguardo assente e come impietriti da un dolore muto, senza più lacrime.
Danny ha gli occhi gonfi e arrossati, non ricordo di averlo visto così sconvolto nemmeno quando morì il piccolo Ruben; Lindsay si stringe a lui e fatico a capire chi dei due sostenga l’altro.
Stella è pallida come un cencio e sembra non avere nemmeno la forza di reggersi in piedi: fortunatamente Adam e Sheldon le stanno accanto e lei pare trarre conforto dalla loro vicinanza.
Samantha no, mi hanno detto che ha avuto un malore e non l’hanno fatta uscire dall’ospedale: con la sua vita sballata, scommetto che era sicura che non saresti stato tu il primo dei due ad andarsene…
“Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca”

Ecco, tra poco toccherà a me; poi il suono delle cornamuse e le parole di “Minstrel Boy” (2) riempiranno l’aria e tutto sarà davvero finito. Finito per sempre.
Il nostro mondo, ciò che avevamo costruito giorno dopo giorno, il lavoro, la squadra: tutto oggi finisce insieme a te.
Tutto domani ricomincerà, ma non sarà mai più lo stesso.
Dio Santo, Don, ma come ti è potuta accadere una cosa del genere? Un poliziotto esperto come te: com’è stato possibile? Non avrei mai immaginato che la tua vita sarebbe stata spezzata  dal coltello di due balordi strafatti di crack incrociati una notte in metropolitana. 
In quali abissi di dolore era precipitata la tua anima senza che nessuno di noi fosse riuscito a capirlo?
Ieri mattina, quando sono arrivato in ufficio, ho avvertito una calma insolita: era appena una sfumatura, eppure sentivo che quella era una calma anormale, che conteneva un sentore di morte. Come se fosse avvenuta la fine di qualcosa; era un’impressione così chiara da averne paura.
L’aria si era fatta stagnante, immobile, e senza ancora avere capito mi sentivo come al tappeto: la tristezza copriva i miei pensieri, impregnava la stanza, avvolgeva la città.
Poi ha squillato il mio cellulare.
 
Non si salverà. Non vuole salvarsi.
Questo pensavo, guidando come un pazzo verso il Trinity.
Sono stato una delle persone a te più vicine e Dio sa quanto ti ho voluto bene, eppure questo pensiero non mi ha abbandonato mentre aspettavo di parlare con un medico, seduto su una scomoda poltroncina di plastica. Risuonava dentro di me come se lo stessi ripetendo ad alta voce e poi rimbombava tra le pareti asettiche dell’ospedale.
 
Non si salverà. Non vuole salvarsi.
Tu eri un eccellente investigatore, una brava persona. E un buon amico.
Mi sei sempre stato d’aiuto, in ogni momento in cui ne avessi bisogno: quando abbandonai, furioso, l’aula dove si si teneva l’udienza disciplinare contro di me per la morte di Clay Dobson, tu cercasti di impedirmelo e facesti di tutto per convincermi che era un gesto sbagliato e che Sinclair me l’avrebbe fatta pagare (3).
Allora mi fissasti con i tuoi occhi grandi in quel modo diretto così inequivocabilmente tuo, privo di affettazione, e il tuo sguardo era così franco e aperto che per me fu difficile mantenere delle riserve: anche nei momenti di maggiore agitazione, anche nel vortice della tristezza, quel tuo sguardo trasparente è sempre stato uguale.
Questo prima di Jessica.
La sua morte ti ha cambiato e io non me ne sono accorto: adesso è chiaro che l’amavi, che lei amava te… forse facevate addirittura dei progetti insieme? Non l’ho mai saputo con esattezza, ma dopo quella maledetta sparatoria tu eri diventato lo spettro di te stesso: non avevi più energia, né vitalità, eppure vivevi trascinando i tuoi giorni uno dietro l’altro nella solitudine.
Lei ti amava, tu l’amavi al punto di non riuscire a sopravviverle: chissà se Claire ha mai amato me allo stesso modo?
Ti ho perso, ti ho lasciato solo: avrei dovuto fare di più, non riesco a smettere di pensarlo. Forse avrei potuto fermarti.
Ti ho perso, ti ho visto avvicinarti alla morte poco a poco davanti ai miei occhi e non sono riuscito a evitarlo.
Alcuni sostengono che se qualcuno decide di morire nessuno può impedirlo, io non lo so; so solo che il rimorso mi tormenterà per il resto della mia esistenza.
Negli ultimi tempi eri come una brace che sta per spegnersi, sembravi un uomo molto più vecchio dei tuoi anni e non un ragazzo giovane con tante cose ancora davanti a sé.
Quando ti ho visto iniziare a vacillare, lo sguardo perso e l’alito che rivelava chiaramente che avevi bevuto, avrei dovuto parlare con te, starti vicino.
E nel momento in cui hai cominciato a non rispondere al cellulare, a non venire in ufficio senza dare spiegazioni, sarei dovuto uscire a cercarti e ascoltarti come un amico o un fratello maggiore e non solo come un capo esigente.
“Non sono il tuo confessore” ti ho detto brusco: infatti, il tuo confessore forse sarebbe riuscito a salvarti.
Ma io no: io, troppo occupato nella mia routine quotidiana, così assorbito dal lavoro da non rendermi conto del dramma che stavi vivendo accanto a me.
Io, newyorkese perfetto, traslucido e inflessibile.
Così lontano dagli altri, così incapace di dare, così chiuso nella mia nascosta astenia dei sentimenti.
“Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni”.(4)

Accidia: alle superiori ho studiato che vuol dire incuria, indolenza, dalla parola greca akedìa, senza cura.
È un peccato capitale perché un è vizio dell’intelletto, un difetto dell’anima e non un fatto fisico, come i pigri che fanno fatica ad alzarsi al mattino.
Io sono tutt’altro che pigro, all’esterno: lavoro oltre dodici ore al giorno, a volte per settimane di fila, e sono anni che non mi prendo una vacanza.
Ufficio, casa, poche ore di sonno e poi di nuovo lavoro, lavoro e basta: a volte dentro di me avverto una sensazione acuta - ora confusa, ora invece chiarissima - di assenza, di irrealtà, di grande stanchezza e pigrizia, mascherata dietro la mia apparenza di uomo attivissimo, di ingranaggio perfettamente inserito nel sistema.
Se avessi capito quanto soffrivi, Don, quanto bisogno avessi di aiuto, avrei potuto impedirti di scendere uno a uno i gradini che ti hanno condotto all’inferno; ma no, il tuo capo - il tuo accidioso capo - non l’ha fatto, vittima del suo segreto, della sua incurabile incuria.
Ecco, il cappellano mi cede il suo posto di fronte alla bara e io percorro i pochi passi che mi separano dal microfono nel silenzio rotto solo da qualche singhiozzo trattenuto.
Sento l’odore della morte, contemplo l’immagine della disperazione.
Il prosciugamento.
La sete.
Quella condizione spirituale in cui sembra che le cose perdute superino di gran lunga quelle ottenute: la fine.
FINE
(1) La frase è una citazione della poesia “Funeral Blues” di W.H. Auden, resa famosa dal film “Quattro matrimoni e un funerale”.
(2) "Minstrel Boy",  sentita anche in un funerale nella serie Criminal Minds, è una ballata di origine irlandese composta da Thomas Moore e ha una lunga tradizione: veniva cantata dai soldati di origine irlandese durante la guerra civile americana.
Dopo la seconda guerra mondiale si è estesa a tutti i corpi di polizia e anche ai pompieri.
(3) Il riferimento è alle puntate “Dieci anni dopo” e “La carta vincente” di CSI NY, in cui si racconta dello stupratore omicida Clay Dobson della cui morte è ingiustamente accusato Mac.
(4) Le parole sono tratte dal Salmo 23 e sono sovente usate nelle cerimonie funebri negli USA.

  
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