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Autore: Smile_Dog    20/10/2012    1 recensioni
“Se credete che qualcuno di voi verrà risparmiato, posso dirvi senza ombra di dubbio che vi sbagliate.” Cantilenò la bimba stringendo il proprio orsetto, mentre si accomodava sulla panchina “Nessuno fugge da sé stesso.” La pallida luce del lampione illuminava i suoi occhi, rendendo l’assenza di colore ancora più evidente.
Se non fosse stato certo che la creatura dietro il la quercia lo avrebbe sentito, Matt avrebbe urlato: ma urlare significava chiamarlo. E se lo avesse fatto, gli altri sei lo avrebbero sentito e sarebbero accorsi.
Uno stridio di artigli contro un oggetto metallico interruppe i suoi pensieri: si stava avvicinando.
Voleva che si giocasse, quella notte.
Genere: Angst, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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It Lurks Behind the Mirror

Gli specchi, un tempo, erano stati fra gli oggetti preferiti di Micah: aveva avuto, un tempo, una passione talmente grande per loro che aveva cominciato a collezionarli; ne cercava sempre di diversi e più preziosi erano, più lei li adorava. Come ogni bimba tuttavia era molto gelosa di ciò che considerava proprio: per questo aveva preso l’abitudine di chiuderli tutti in uno scrigno nero  chiuso con un lucchetto -la cui chiave si trovava appesa al collo della piccola-, che poi seppelliva in un luogo sempre diverso per evitare che qualcuno lo trovasse. Voleva essere sempre certa che il suo piccolo tesoro le fosse sempre vicino, ovunque andasse.
Chiunque abbia avuto a che fare con bambini però può comprendere quanto in fretta siano in grado di stancarsi di qualcosa: un solo dettaglio fuori posto e lo gettano via come se nulla fosse.
Neanche Micah faceva eccezione, così quando un giorno, mentre osservava la propria figura riflessa, notò dietro i propri boccoli neri una figura sorridente che le faceva cenno di avvicinarsi, decise di smettere di raccogliere specchi. Richiuse anche quell’ultimo nello scrigno e con il passare del tempo si scordò dove avesse sepolto la sua piccola collezione. Aveva poi spostato la propria passione su oggetti come bambole e animali di peluche, che però custodiva con minore attenzione rispetto alla sua prima, grande passione.
Ogni tanto, comunque, pensava a dove potesse essere finita, ma era un evento sporadico: non avrebbe saputo dire per quale ragione le fosse tornato in mente questa volta.
Forse era perché la ragazza che stava osservando pareva apprezzarli più di quanto lei avesse mai fatto.
Amanda Thompson, diciassette anni, probabilmente una degli studenti più noti di tutta Riverdale, aveva una stretta routine mattutina: si concedeva ben pochi minuti per la colazione e per salutare i genitori, ma di certo sapeva prendersi i propri tempi per quanto riguardava la cura personale. Prima di tutto pensava agli abiti e ad ogni accessorio necessario, poi passava ai capelli -a cui applicava un prodotto speciale per mantenere il colore vivo e luminoso- ed infine al trucco. Solo dopo essersi guardata allo specchio più volte e dopo essersi accertata di essere in perfetto ordine prendeva la borsa ed usciva di casa, per poi percorrere un paio di isolati a piedi ed arrivare a scuola.
Quel giorno, tuttavia, i suoi rituali quotidiani erano stati interrotti dalla suoneria del proprio cellulare; allontanandosi svogliatamente dal bagno afferrò l’apparecchio, concedendosi qualche istante per riflettere sul mittente: era Sarah, la ragazza a cui era seduta accanto durante biologia. Era raro che le mandasse un qualche messaggio – era raro che si parlassero in generale, ma di tanto in tanto si contattavano per chiarimenti sulle lezioni.
Il testo era breve e coinciso: “Hai saputo di John Mayer?”.
Fece una smorfia: non aveva voglia di spettegolare su un uomo che aveva visto sì e no un paio di volte nella propria vita. Non si premurò di concederle una risposta e tornò alla propria sessione di trucco; dopo pochi minuti aveva terminato e, dopo una rapida analisi del proprio aspetto, aveva decretato di essere nelle condizioni perfette per uscire: sorriso smagliante, i grandi occhi verdi messi in risalto dal mascara, i lunghi capelli biondi che ricadevano sulle spalle. Non aveva niente fuori posto: come al solito, era impeccabile.
Prese la borsetta e si diresse fuori dalla camera con passo rapido, decisa ad arrivare a scuola il prima possibile: non poteva certo permettersi di intaccare la sua condotta con un ritardo.
Micah, seduta sul davanzale della finestra della sua stanza, la osservò voltare l’angolo prima di sparire nel viale: non poté fare a meno di pensare che le sarebbe piaciuto essere bella quanto lei.
Anche la creatura senza volto che ora faceva stridere i propri artigli sulla finestra, fissandola a sua volta, la pensava così.

***

Il cortile della scuola superiore di Riverdale era, come suo solito, affollato da studenti che attendevano il suonare della campana per recarsi alle lezioni: di norma si sarebbero potuti notare ragazzi che giocavano a football o che semplicemente si perdevano in chiacchiere, magari alcuni immersi nella lettura di qualche tomo. Uno scenario che non poteva non infondere serenità – almeno, così era sempre stato.
A rompere quella quotidianità, tuttavia, vi era la strana atmosfera che si era andata a creare: si poteva percepire l’agitazione nell’aria, il basso vociare e i mormorii timorosi non lasciavano spazio a ragionevoli dubbi – la notizia di ciò che Kate Mayer era già saltata di bocca in bocca ed ora si diffondeva come un virus. Non c’era una sola persona a non parlarne: era qualcosa di troppo fuori dall’ordinario, troppo incomprensibile per poter essere ignorato.
Neanche Nate Kersey riusciva a cambiare discorso per rallegrare la situazione: per essere precisi, non era in grado di parlare a priori. Seduto sui gradoni, fissava il pallone da basket come se vi fosse nascosto il senso della vita; lo sguardo esitava fra l’oggetto e la folla, alla ricerca della massa di riccioli biondi associabile a Ron – massa che faticava a farsi trovare: la cosa non faceva che renderlo più impaziente.
Chiuse gli occhi, concentrandosi per fare un respiro profondo: non c’era nulla di cui preoccuparsi, era solo in ritardo. Poteva aspettare. Quel giorno avrebbero avuto chimica e biologia insieme, per cui lo avrebbe di certo visto.
Non avrebbe dovuto essere agitarsi tanto per una cosa così stupida, ma gli serviva un pretesto per distrarsi. Si passò una mano sul volto, stanco, dando l’ennesima occhiata all’orologio: mancavano sette minuti all’entrata. Erano troppi, non poteva aspettare così tanto.
Avrebbe colto al volo qualunque occasione pur di smettere di pensare, ma il suo cervello non aveva alcuna intenzione di spegnersi: le voci dei compagni gli arrivavano alle orecchie e non facevano altro che riempirgli la testa delle stesse parole che tentavano di dare un senso alla follia consumata la sera prima.
Si costrinse a gettare un’occhiata verso Sarah Jefferson, che con attenzione maniacale si limava le unghie, anche lei in attesa del suonare della campana: a differenza di tutti gli altri, non pareva preoccupata. Era come se ogni cosa le stesse scivolando addosso: pareva essere su una dimensione opposta a quella in cui, invece, si trovava lui. La adocchiò per qualche istante – forse di più, non avrebbe saputo dirlo: l’unica cosa certa era che non riusciva ad allontanare il proprio sguardo da lei.
“Nate!” lo disturbò una voce familiare, che lo riscosse dalle proprie considerazioni.
Una sola occhiata gli fu sufficiente per identificare Matt: un tentativo di sorriso abbastanza fallimentare era dipinto sul suo volto pieno di lentiggini e la zazzera rossa sembrava anche più scarmigliata del solito. Non ci voleva un genio per capire che si fosse precipitato in fretta e furia fuori dal letto. Il torace si abbassava ed alzava rapido ed aveva il fiato corto.
“Hai saputo?” domandò, dopo un respiro più profondo degli altri.
Da parte di Nate ci fu un sospiro: “Come chiunque altro.” Si strinse le spalle, lasciando andare il pallone da basket. Non aveva la minima intenzione di affrontare il discorso.
“Dicono che la Mayer sia in stato confusionale.” Proseguì l’altro, incapace di smettere di parlare “E che quando parla, continua a nominare cose assurde.”.
“Mi sembra il minimo.” Si massaggiò la fronte, ravvivandosi poi i capelli scuri. Mancavano quattro minuti all’entrata.
“Non ho sentito molto riguardo come lo abbia ucciso, ma gira la voce che lo abbia squartato o cose simili.”.
Scosse la testa. Non gli interessava per niente.
“Sembra che la Welden abbia scoperto il corpo.”.
Voleva che facesse silenzio.
“Dopo aver urlato come una pazza è svenuta, non sto scherzando!”.
Perché non riusciva a chiudere quella sua dannatissima bocca?
“Credo che sia stato il marito a chiamare la polizia.”
Se non si fosse deciso a stare zitto, lo avrebbe azzittito lui.
“E indovina? Quando hanno trovato la M…”
Dei passi rapidi bloccarono il discorso, facendoli voltare entrambi: Ronald fece un cenno di saluto, rivolto più al moro che al rosso, al quale si appoggiò.
“Anche voi presi dei pettegolezzi? Mi deludete.” Sorrise, infilandosi le mani in tasca.
Nate non si era mai detto tanto felice di vedere Ron come in quel momento.
“Ne parleranno tutti per settimane, tanto vale esaurire l’argomento fin da subito.” Sostenne Matt, allontanandolo da sé con stizza, nonostante fosse palese che si sentisse sollevato dalla sua presenza.
“E permetterti di tramutarti in un notiziario ambulante? Non mi perdonerei mai se il qui presente signor Kersey cominciasse a prenderti sul serio.” Posò una mano sulla spalla dell’interessato, il quale si tirò con uno sbuffo, afferrando il pallone e lo zaino. “Vedi? Lo hai sfinito.”
Prima che la risposta potesse giungere le porte si aprirono ed  in meno di un attimo, i tre si persero di vista.
Chi invece mantenne l’attenzione su di loro fu Sarah Jefferson che, dopo aver sistemato accuratamente il proprio specchio nella borsa, si alzò dai gradoni e seguì tutti gli altri all’interno.

***

Doveva essere disturbante, per un insegnante, realizzare di non essere preso in considerazione dalla propria classe: ma questa era la situazione nell’aula 3-B, dove si stava tenendo un’apparente lezione di calcolo avanzato.
“Non mi interessa.” Tagliò corto Amanda, riprendendo gli appunti sottomano; scrisse qualche parola incomprensibile sotto lo sguardo vigile di Ron, che si limitò a scuotere la testa trattenendo un sospiro, prima di seguire il suo esempio e cominciare ad abbozzare qualcosa sul foglio: l’argomento “morte violenta”non la riguardava e non avrebbe accettato alcun accenno. Lui avrebbe dovuto solo dimenticare che fosse mai avvenuto.
Come avevano entrambi previsto, l’omicidio era sulla bocca di tutti: perfino il professor Simon aveva dovuto faticare per non citarlo durante la lezione – per non dover parlare era arrivato a scrivere esercizi insensati alla lavagna, di tanto in tanto borbottando una spiegazione; non che ci fosse qualcuno minimamente interessato: i pettegolezzi avevano la priorità, non c’era un solo studente che pareva pensarla in altri modi.
I borbottii non smettevano mai, accompagnati di tanto in tanto da risatine e da versi di stupore: qualunque fosse la reazione, non c’era dubbio che le voci avessero preso rapide a spargersi e modificarsi. I dettagli macabri aumentavano ogni volta che la storia veniva raccontata, tanto da renderla una trama degna di un film dell’orrore.
La ragazza si passò una mano sulla fronte alzando gli occhi al cielo: erano passate appena due ore e non ne poteva già più; si era stancata del costante parlottare, delle occhiate complici che tutti si scambiavano, come se fosse una cosa interessante. E lei, essendo figlia dello sceriffo, era al centro dell’attenzione: tutti le chiedevano informazioni e particolari interessanti – tutte cose che non poteva sapere e di cui non si curava. Lanciò uno sguardo irritato verso Matt che, in prima fila, si perdeva in lunghe descrizioni della scena del crimine; o perlomeno di come immaginava potesse essere.
“Non capisco tutto questo interesse.” sussurrò, più a sé stessa che all’amico.
Ron scrollò le spalle, appoggiando il mento su una mano: “Torna nel tuo mondo felice, è solo il primo giorno. Domani sarà anche peggio. Non è una notizia che si esaurisce in una settimana.”.
“Stai dicendo che dovrò ignorare chiunque per un indefinito periodo di tempo?”.
“Non che per te sia una novità.”.
Non aveva importanza quale fosse il tema della discussione, non una sola persona pareva concentrata sulle parole del docente.
Ma nella mischia di sussurri, bisbigli e chiacchiere si distingueva Susan Urie, i cui occhi erano concentrati sulla propria immagine riflessa contro la finestra: i lunghi capelli castani erano racchiusi in una coda alta, gli occhi scuri messi in risalto da quel poco mascara che quella mattina aveva deciso di mettere. Si scrutò critica, immersa nei propri pensieri: non era abituata a truccarsi, detestava guardarsi allo specchio; quelle poche volte in cui era in grado di osservarsi senza provare il desiderio di voltarsi erano rare e mai molto piacevoli, come in quel caso.
Senza badare molto a ciò che la propria mano faceva prese a completare l’ombreggiatura nel disegno: ormai era l’unica cosa in grado di tranquillizzarla – anche quando non aveva di che preoccuparsi, come in quel caso; molti avrebbero potuto pensare che come ogni altro suo compagno si stesse genuinamente preoccupando per l’omicidio avvenuto, ma le era indifferente, come ogni altro avvenimento mai accaduto in quella cittadina.
Nel tempo aveva imparato a lasciare che le cose le scivolassero addosso, senza mai toccarla: anche quella volta non faceva eccezione. Non era un problema che la riguardava in minima parte. Aveva sentito ogni dettaglio e storia possibile sul misfatto – e tutti riguardavano dettagli macabri di certo inventati di sana pianta da qualcuno che si annoiava più di lei. Aveva smesso di ascoltarle la prima volta che le aveva sentite.
Forse però avrebbe dovuto fare attenzione a ciò che stava disegnando, dato che la scena raffigurata era sbagliata sotto più punti di vista; i divani avevano un’ombreggiatura molto grossolana ed il fulcro del tutto presentava un dettaglio inesatto.
A John Mayer era stato estratto l’esofago, non il cuore.

***

La scuola superiore di Riverdale era divisa in più plessi, così che talvolta era necessario cambiare edificio per recarsi a lezione: questo di tanto in tanto poteva rivelarsi una piacevole scusa per saltare le lezioni meno, talvolta un semplice fastidio – soprattutto quando ogni angolo era buono per fermarsi a scambiarsi convenevoli riguardo un certo fattaccio avvenuto la stessa mattina. Piccoli gruppi di persone si radunavano attorno a chi pareva conoscere i dettagli più morbosi ed ascoltavano come se oro puro stesse scivolando dalle parole di chi parlava.
Il fato voleva che Dexter Bennett fosse uno di quelli che si divertiva ad inventare particolari quanto più raccapriccianti possibili, per il solo piacere di vedere coloro che lo ascoltavano tramutare i propri volti in maschere di puro disgusto ed allontanarsi: non poteva non ridere ogni volta che ciò accadeva, era tutto così assurdo; era palese che stesse inventando ogni cosa di sana pianta, eppure c’era sempre chi era curioso. Lui primo fra tutti: avrebbe fatto di tutto pur di dare una rapida occhiata alla scena del crimine il prima possibile; purtroppo però quel pomeriggio avrebbe dovuto studiare. Perché non andarsene subito?
Saltare le lezioni gli era indifferente, non sarebbe accaduto nulla per una volta: gli sarebbe bastato dire che era in infermeria e chi di dovere gli avrebbe creduto.
“Bennett, arriverai in ritardo se non ti sbrighi.” Gli aveva detto un professore che gli passava accanto.
In risposta il ragazzo si sistemò gli occhiali sul volto e ravvivò la zazzera nera, sfoderando il miglior sorriso di cui disponeva: “Sì, mi scusi, arrivo subito!”.
Non appena l’uomo voltò l’angolo, il suo viso si tramutò in una maschera di freddezza.
Non aveva intenzione di entrare in classe.
Detestava quel posto. Voleva andarsene. Non riusciva a sopportare quelle pareti e tutte quelle persone: il solo pensiero gli fece accelerare il respiro.
Peccato che ritrovò il suo corpo a muoversi da solo, abitudinario come sempre; ed in un istante, era seduto al proprio banco, il capo chino sugli appunti della lezione precedente, ma già pronto a prenderne altri: come sempre, avrebbe stupito gli insegnanti con le proprie conoscenze. Di certo loro sarebbero stati felici, ma i suoi coetanei avevano idee diverse: con la coda dell’occhio poté notare un paio di compagna che lo indicavano ridendo.
Inspirò con lentezza, ripetendosi  di mantenere la calma.
Pregava che ognuno dei presenti sparisse, scomparisse nelle più profonde viscere dell’inferno; e quando lo avrebbero fatto, non ci sarebbero stati dubbi su chi avesse compiuto il misfatto.
Perché non potevano sparire uno ad uno? Non faceva che fantasticare riguardo come sarebbero potuti spirare: c’erano un’infinità di opzioni, non sarebbe mai stato in grado di scegliere!
Entrò il signor Welch, il docente di letteratura, e dopo un breve saluto, prese ad introdurre il libro su cui avrebbero a breve avuto un test; purtroppo, la mente di Dexter era altrove.
Seduto nell’ultimo banco con le braccia incrociate, lanciò uno sguardo alla prima fila, fino ad incontrare per una frazione di secondo gli occhi di un ragazzo abbronzato e dai riccioli scuri che rispondeva al nome di Nate Kersey: gli rivolse solo un cenno, prima di perdersi nelle parole del professore.
Prima di ciò tuttavia si concesse un momento per pensare a quanto la testa dell’altro sarebbe stata bella spaccata contro il pavimento: solo quando ebbe focalizzato quest’immagine nella propria mente, riprese a scrivere appunti su appunti.

---
Aaaaah. Ci ho messo una vita, ma ne sono abbastanza soddisfatta.
Amo Ron e Matt, pass it on.

   
 
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