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Autore: Brin    25/10/2012    0 recensioni
Non si può restare a guardare quando una mano sconosciuta porta via ciò che di più caro hai al mondo: questo è quanto Sari Kalabis sperimenta sulla propria pelle nel momento in cui uno dei pilastri della sua vita le viene strappato per sempre.
Non sa, però, che il desiderio di sapere perché la porterà su strade pericolose, lastricate di interessi a cui non dovrebbe avvicinarsi. Verso i sotterranei di un carcere da cui non si può uscire, nella pancia di un incubo folle e delirante che non dovrebbe esistere.
Genere: Fantasy, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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23



23.

CONDANNA A MORTE

*

Il racconto li aveva sconvolti. Inizialmente la notizia che Volker fosse il creatore dei morfisti sembrava così irreale da aver suscitato l’ilarità di tutti, ma quando l’uomo finì la sua storia, sul gruppo scese un silenzio pesante. Gli sguardi di Silver e Amaya erano di pietà per quell’esistenza sacrificata, ma in Sari c’era tutt’altro.
Qualcosa che sapeva di speranza. E di preoccupazione.
«Quindi che cos’ha Namar?»
«Credo che stia cominciando a rigettare le cellule demoniache.»
Com’era prevedibile, ricevette solo sguardi confusi come risposta. Si passò una mano tra i capelli, grattandosi la nuca. «La ghiandola che produce le onde elettromagnetiche è fatta di cellule demoniache, mentre il resto del loro organismo è composto da cellule umane. Quest’ultime sono straordinariamente versatili e molto suscettibili alle mutazioni, come nel caso dei maghi. Credo che tutti voi sappiate che i maghi sono il frutto dell’evoluzione filogenetica degli esseri umani, non è vero? »
Quando ricevette dei cenni d’assenso come risposta, proseguì: «Le cellule che costituiscono la ghiandola sono impregnate di energia demoniaca, che è quella che le mantiene in vita. In laboratorio, molti morfisti morivano prima di aprire gli occhi perché l’organismo rigettava la ghiandola, mentre altri duravano un po’ di più. Ma il risultato era irrimediabilmente lo stesso» guardò Sari, e indugiò per un istante. «… Credo che stia succedendo la stessa cosa a Namar.»
La psicologa rimase stordita dalla portata di quelle informazioni, e non ebbe la forza per replicare.
Namar stava morendo.
Stava morendo.
Non sarebbe mai riuscito a lottare per la sua libertà. Non avrebbe mai potuto coltivare la speranza di vivere libero. Non gli era concessa neppure l’illusione di poter lottare contro chi lo voleva rinchiuso in una gabbia, perché sarebbe morto comunque. Non si sarebbe mai liberato dalle catene invisibili che lo legavano ai suoi aguzzini. Avevano vinto loro.
Barcollò verso l’ingresso dell’ambulatorio, trascinando i piedi. Si sentiva impotente, e quella sensazione non le piaceva per niente. Qualcuno la fermò afferrandola per un braccio, e quando si voltò vide Volker davanti a lei che scuoteva la testa in un cenno negativo.
«Ti consiglio di stare lontana da lui. Anzi, lo consiglio a tutti voi» aggiunse guardando Silver e Amaya. Il poliziotto si accigliò, allarmato.
«Che vuoi dire?»
«Dobbiamo portare Namar in un posto isolato il più presto possibile. Proprio perché il suo corpo sta rigettando la ghiandola, lui è estremamente pericoloso.»
Nessuno rispose. Su di loro serpeggiava il dubbio. Le parole di Volker non erano molto chiare, ma lasciavano intuire quale fosse la preoccupazione dell’uomo. E la cosa non era per niente piacevole.
«Non ha più il controllo sulla ghiandola. Se dovesse avere una crisi, potrebbe ripetere la strage di Halifax.»
Fu come ricevere una botta in testa.
Sari guardò Volker, e il suo sguardo chiese perché. Scosse il capo, non volendo accettare la situazione. Strappò il braccio dalla presa dell’uomo e raggiunse l’entrata dell’ambulatorio.
Non avrebbe abbandonato Namar, si disse. Nella sua vita la maggior parte della gente che conosceva era corrotta e ipocrita, falsa fino al midollo. Se per evitare il pericolo doveva lasciar morire in solitudine una delle poche persone oneste che conosceva, allora preferiva rischiare. Namar non sarebbe stato più solo.
Quando raggiunse il suo letto, sentì che non aveva scelta. Il suo cuore non le avrebbe mai permesso di scappare. Si sedette sulla sponda del letto di fianco a lui e, nel momento in cui il materasso cedette sotto il suo peso, l’evaso aprì gli occhi e la guardò.
Sari gli sorrise.
«Come ti senti?»
Namar non rispose. Tipico, pensò Sari mentre l’evaso si guardava attorno. Quando si rese conto che non conosceva quel posto, tentò di alzarsi. Era allarmato.
«Devo andare via.»
Sari lo costrinse a rimettersi sdraiato, sbuffando.
«Devi riprendere le forze. E la ferita deve rimarginarsi del tutto, prima che tu possa rimetterti in piedi.»
Namar fece una smorfia, imprecando sottovoce. Era contrariato. Vederlo così nutriva Sari di speranza, ma la ragazza sapeva che non poteva tenergli nascosto che cosa gli stava succedendo.
Aveva il diritto di saperlo, ma raccogliere il coraggio per dirgli che quella guerra aveva richiesto come prezzo la sua vita, era una delle cose più difficili che dovesse fare.
Fece per parlare, ma Namar la fissò all’improvviso, gli occhi sgranati. Si guardò attorno guardingo, prima di tornare su Sari.
«Lui dov’è?»
La ragazza rimase interdetta, senza capire. Poi, improvvisamente un’immagine le attraversò la mente.
«Abidos… anzi, Jariel è scappato.»
«Ha fatto qualcosa di strano?» la stava studiando con attenzione.
Sari capì: temeva che lei avesse scoperto l’esistenza dei morfisti. Probabilmente aveva paura della sua reazione. Abbozzò un sorriso, annuendo.
«So tutto, Namar.»
«Tutto?»
«Sí. So chi sei, so cosa sei. So tutto.»
L’evaso la guardò perplesso, poi controllò che nessuno stesse ascoltando quella conversazione. Afferrò Sari per il bavero della maglia, e la tirò verso di lui. La ragazza attutì la caduta con le mani, ritrovandosi con il viso accanto a quello di Namar. Sentì il cuore accelerare il battito cardiaco, ed ebbe l’impulso di ritrarsi. Probabilmente l’avrebbe pure fatto, se non avesse significato spezzarsi il collo.
«Tutto da dove inizia?» le sussurrò all’orecchio.
Sari farfugliò mugugni, distratta da quel contatto inaspettato. Cercò di prestare attenzione alla domanda che lui le aveva posto, per evitare situazioni ambigue che avrebbero fatto divertire Namar alla follia. Chiuse gli occhi, cercando di immaginarsi da sola in una stanza buia.
«Da Volker che ti ha creato, fino agli esperimenti che i maghi facevano su di te ad Artika. Ti basta o vuoi sapere altro?» gli rispose, e quando sentì la presa di Namar venire meno, saltò indietro come una molla. Namar la stava guardando con occhi sgranati.
«Cosa vuol dire che Volker mi ha creato?»
«Esattamente quello che ho detto. È stato lui a creare i morfisti» biascicò, sentendo caldo.
Stava arrossendo, e non andava bene. Era imbarazzata, e andava ancora peggio. Namar se ne sarebbe accorto e sarebbe stata la sua fine.
Ma, per sua fortuna, l’evaso era rimasto troppo sorpreso da quella notizia, per notare un tale particolare.
«Non avrei mai detto che fosse così intelligente da riuscire in una tale impresa» sghignazzò tra sé, e Sari tirò un respiro di sollievo. Ma poi sentì quel familiare nodo alla gola risalire verso l’alto, l’istante successivo. Doveva dirglielo. Doveva sapere.
«… Namar?»
«Mh?»
Non riuscì a parlare. Lo guardò come se fosse lei a dover morire. Fece un bel respiro e raccolse tutto il suo coraggio.
«Tu stai morendo.»
L’evaso non batté ciglio. Si limitò a rivolgerle uno sguardo indecifrabile, al punto che la ragazza pensò che forse non aveva capito.
«Namar, hai sentito quello che ti ho detto?»
«Certo.»
La calma che Namar dimostrò sconvolse Sari, che non riusciva a comprendere come potesse rimanere così sereno dopo una notizia del genere. Aveva immaginato che si sarebbe arrabbiato, che avrebbe gridato e che avrebbe cercato di fare il possibile per evitarlo. Invece non aveva neppure chiesto spiegazioni.
«Non ti tocca neanche un po’?»
Namar rise. Una risata rauca, proveniente dalla gola.
«Noi siamo carne da macello. Gli altri dispongono della nostra vita a loro piacimento, e il resto del mondo non sa neppure che esistiamo. E se lo sapesse, non ci accoglierebbe certo con benevolenza.»
Sari rimase freddata. Ascoltò in silenzio le sue parole, che suonavano molto come una critica verso di lei. Verso la sua ingenuità.
«Però non è giusto…» farfugliò, e Namar la guardò con commiserazione.
«Pensavo che avessi finalmente capito che la giustizia non esiste.»
Sari distolse lo sguardo, non sapendo come ribattere. Come poteva rispondere di fronte a tanto cinismo? Non poteva neppure biasimarlo: chiunque sarebbe diventato così disfattista se avesse passato anche solo la metà di ciò che Namar aveva vissuto. E nessuno l’avrebbe mai potuto criticare per questo.
«Io non ho un posto nel mondo, Sari. Ho provato molte volte a crearmelo, e ci proverò finché non sarà la mia ora. Ma se morirò prima di averlo trovato, allora non avrò perso niente.»
«Ma…»
«La mia non è stata una vita vera, Sari. Se dovessi scegliere tra continuare a vivere come una cavia da laboratorio e morire, sceglierei sicuramente la seconda.»
«Questo non è da te» sentenziò la psicologa alzandosi in piedi e guardando Namar con risentimento. L’evaso la guardò con curiosità, nascondendo le mani dietro la testa.
«Trovi? E come mai?»
«Perché sei sempre stato pronto a combattere per te stesso, e non accetto di vederti così rassegnato!» era sconvolta. Non riusciva a capire come quella notizia non lo toccasse minimamente.
«Non sono rassegnato, ma sereno. Non mi spaventa la morte, mentre a quanto sembra tu ne sei terrorizzata» la guardò con un sorrisetto enigmatico.
Si sollevò lentamente, e le fece cenno di tornare a sedersi sul letto.
Sari rifiutò, rimanendo immobile a braccia conserte.
Namar sbuffò, e il sorriso gli si cancellò dal viso come neve al sole.
«Siediti. Non farmi arrabbiare.»
Sari decise di obbedire, ricordando quanto aveva detto Volker riguardo al suo autocontrollo. Era meglio non provocarlo. Quando si sedette, Namar sembrò molto più rilassato.
«Sai qual è la differenza tra me e te? È che tu hai vissuto, mentre io sono soltanto esistito. Per me c’è stato solo tormento. Se dovrà arrivare la mia ora prima di quello che mi aspetto, così sia.»
Sari non seppe come rispondere. Guardò altrove e si domandò se sarebbe mai riuscita ad accettare la situazione, così come l’aveva accettata Namar.
«È la ghiandola che ti sta uccidendo» disse voltandosi verso di lui.
L’evaso lasciò che lei spiegasse come stavano le cose esattamente, lasciò che le raccontasse anche del rischio di ripetere la strage avvenuta sette anni prima. Namar ascoltò ogni cosa senza battere ciglio, e parlò solo quando Sari terminò di raccontare.
«Quindi mi porterete in qualche posto isolato. Per me va bene» concluse, annuendo.
Sari rimase in silenzio, lo sguardo fisso in mezzo al nulla. Si sentiva svuotata. Era come se lei fosse il passeggero di un treno arrivato al capolinea dopo un viaggio lungo e stancante, ma meraviglioso. Namar aveva accettato tutto fino in fondo e lei, che non ne era coinvolta in prima persona, non riusciva a non opporsi. Si alzò in piedi e si diresse verso l’uscita, ma Namar la chiamò. Sari rimase in attesa di qualcosa senza avere il coraggio di voltarsi. Aveva la sensazione che se l’avesse guardato, lui avrebbe potuto leggere la fragilità della sua anima solo dallo sguardo.
«Hai detto che è a causa della ghiandola?»
Sari era così pensierosa da non notare lo strano tono con cui Namar le aveva posto la domanda. Si limitò ad annuire con un cenno del capo prima di uscire.
Trovò i suoi amici fuori, accanto alla porta dell’ambulatorio. A giudicare dalle loro espressioni dovevano aver sentito la conversazione che aveva avuto con Namar, ma Sari non disse nulla.
Notò una macchina parcheggiata lì davanti, un vecchio fuoristrada nero. La guardò senza capire.
«Ho parlato con il dottore. Gli ho spiegato la situazione. Quasi tutto, insomma… Ha detto che ci presta la macchina per portare Namar lontano da qua» spiegò Silver.
«Ma ha bisogno di riposare» obiettò Sari senza distogliere lo sguardo dal veicolo.
La sua voce uscì debole e poco convinta.
«È importante che venga portato al più presto in un luogo isolato, prima che possa avere una crisi che potrebbe fargli perdere il controllo. Non c’è da scherzare, Sari» Volker intervenne non appena la sentì protestare.
La ragazza annuì debolmente con il capo, ormai arresa di fronte a quella terribile evidenza.
«Già.»
L’uomo le diede un buffetto sulla spalla prima di entrare nell’ambulatorio assieme a Silver. Lei seguì ogni loro movimento come un cane da guardia, li vide avvicinarsi al letto di Namar e parlare con lui. Volker gesticolava, il morfista annuiva. E cercava di rimettersi in piedi, aiutato dai due uomini.
Amaya le posò una mano sul braccio e lo strinse in una morsa gentile. Sari le sorrise, riconoscente. Poi scorse un guizzo luccicante nell’altra mano, e le vide: due chiavi, probabilmente del fuoristrada. Namar si incamminò verso l’uscita dell’ambulatorio, appoggiato a Silver e Volker, e in quel
momento Sari sentì la determinazione darle nuova speranza.
Non ebbe neppure bisogno di riflettere.
«Guido io» si offrì sfilando le chiavi di mano ad Amaya, che le sorrise e annuì. Caricarono Namar sul sedile di fianco al posto del guidatore, e andarono a salutare e ringraziare il dottore che aveva curato l’evaso. Volker era in testa al gruppo, Sari in coda: nessuno le stava prestando attenzione. Nessuno sospettava quali fossero le sue intenzioni.
Rallentò il passo, e quando gli altri ebbero girato l’angolo, con uno scatto si voltò e volò fino alla macchina. Sbatté la portiera così forte che ebbe paura di averla rotta. L’adrenalina le faceva tremare le mani, e dovette tentare tre volte prima di riuscire a infilare la chiave nella toppa dell’accensione. E quando la girò, il motore si svegliò con un rombo.
Namar la guardò divertito fare retromarcia e partire. Si accomodò con le mani dietro la testa.
Sorrise, ironico.
«Il rapitore diventa rapito. Bel cambio di ruoli, dottoressa.»


   
 
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