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Autore: Marguerite Tyreen    07/11/2012    1 recensioni
[Deep Purple]
-Qualunque essa sia, io vorrei essere come quella stella, Cov.
-Lontana, Tommy? - lo guardò perplesso, attraverso le lenti degli occhiali.
-No, luminosa. Tranquilla. Capace di brillare di luce propria, senza temere l'oscurità.

***
Nel 1976 i Deep Purple si sciolgono. Il chitarrista Tommy Bolin muore pochi mesi dopo in una stanza d'albergo, il cantante David Coverdale intraprende la propria avventura personale con i Whitesnake, mentre il bassista Glenn Hughes comincia un periodo errante tra viaggi, straniamento e ricerche di qualcosa che non trova.
Ma la nostra storia prende il via nel 1989, quando Coverdale, per mettere fine al peregrinare sofferto di Hughes, ormai rimasto senza lavoro nel panorama musicale, gli offre una collaborazione nel suo ultimo disco. E si sa, la memoria è un vento impetuoso, pronto a travolgere qualunque cosa...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questo capitolo è stato il mio tormento, ve l'assicuro ^^" In ogni mini-long ce n'è sempre uno che per una ragione o per un'altra ti fa praticamente prendere a testate la tastiera... ecco, appunto: scoprire all'ultimo che l'Orient Express ha finito il suo servizio nel '77 e avendoci ambientato sopra una scena nell'82 mi ha sconvolto tutti i piani di revisione, ma eccoci qui ^^ Non vedevo l'ora di pubblicare perchè qui c'è il nucleo centrale da cui è nata la storia e una delle parti che più ho amato scrivere :') Anche se sospetto che la mia Helena apprezzerà di più il primo paragrafo :D
E niente, vi lascio questo mezzo delirio e mi ritiro buona buona, non prima di avervi ringraziato e rassicurato sul fatto che dal prossimo capitolo le cose dovrebbero farsi un po' più lievi ^^"
Un bacione,
Marg.







You set your sail for an island in the sun, 
On the horizon, dark clouds up ahead, 
For the storm has just begun.
(Whitesnake, Sailing ships)

There's no sign of the morning coming
You've been left on your own
Like a rainbow in the dark.
(Dio, Rainbow in the dark)

Maybe before you were happy,
but now your thoughts aren't of this place.
I only wish you were with me,
someone like you can't be replaced.
(Tommy Bolin, Dreamer)

 

 

III. The ocean is deeper than it seems

 

In tour. 1974.

Era entrato senza far rumore. Tanto era appariscente sul palco, assieme alla Stratocaster, tanto aveva sviluppato, nella vita privata, una silenziosa capacità di non farsi notare, che gli tornava utile per fuggire dalle conferenze stampa, quando non aveva voglia di parlare. O per sorprendere le persone alle spalle, come aveva fatto con lui.
-A che pensi, Dave?- gli domandò, posandogli una mano sulla testa.
-A nulla. Cercavo di mettere giù qualcosa. Ma non riesco a concentrarmi, al pensiero che andiamo in scena tra nemmeno due ore.
Blackmore rise appena: - Non ci fai l'abitudine, eh?
-Perchè? Tu sì?
-No, ma sono migliorato col tempo. Senti... - si tormentò le dita – Ho scritto una cosa per te.
Coverdale si sistemò gli occhiali sul naso: - Per il nuovo disco?
-Perchè no? Ma non è necessariamente per quello. Voglio dire, l'avrei scritta comunque, pensando alla tua voce. - deglutì, restandosene in piedi, senza sapere dove tenere le mani – Hai una chitarra?
-E' lì. - gli indicò la chitarra acustica che si era comperato col primo stipendio per aiutarsi a comporre e che ora giaceva nella custodia, accanto alle valigie.
Dallo strumento uscì un suono sgraziato: - Ma è scordata! Ragazzo, come fai a tenerla in questo stato?
-Mi sono dimenticato di accordarla. - si strinse nelle spalle – Sai, quando ero un bambino avevo una specie di chitarra. Suonare era il mio sogno, che abbandonai dopo pochissimo perchè non riuscivo a cavarne una sola nota giusta. E sai perchè? Perchè nessuno mi aveva detto che andava accordata.
-Che disastro che sei. Meno male che con la voce ti guadagni da vivere, perchè altrimenti... - scherzò, aggiustando le corde – Vieni qui. Ascolta.
Prese a snocciolare una melodia dal sapore antico, malinconico. Una dolcezza lontana e triste echeggiava dietro alla ciclicità di quelle note.
Suonò per diversi minuti, prima di interrompersi e restare a guardarlo, con aria speranzosa: - Ovviamente sarà da aggiustare, da riarrangiare, ma... cosa ne pensi?
David si portò la mano al petto: - Dio mio, è splendida.
-Trovi? - cercò di non scomporsi troppo.
-Oh sì. Ha anche un testo?
-Un abbozzo. Ma pensavo che a quello avresti provveduto tu. - trasse un foglio dalla tasca, riempito di prove con la sua grafia fitta e lo osservò con quei suoi occhi spiritati, mentre leggeva.
-Sai, - finse un distacco studiato – avevo pensato alla storia di un uomo che viaggia alla ricerca dell'amore vero, dopo una vita errante, e non trovandolo è costretto a vagare e vagare in eterno, senza riuscire a sfuggire alla sua sorte di soldato di ventura.
-I guess I'll always be a soldier of fortune – David cercò di trovare il tempo – I can hear the voice... No, no: I can hear the call...
-I can hear the sound, meglio.
-Sound... round... I can hear the sound of a windmill goin' round. Guess I'll always be a soldier of fortune. Ci sta?
-Direi di sì. Ma non è così importante, ora: piuttosto, dimmi se ti piace l'idea.
-E' così che mi vedi? - sorrise appena – Come una sorta di eroe romantico?
-Non sei anche tu alla ricerca di qualcosa, lontano da casa, imbarcato in un'avventura che non sapevi nemmeno dove ti avrebbe portato?
-Più di quanto immagini.
-Ne ero sicuro.
-Anche lui era così?
-Un tempo, forse, quando era giovane e luminoso, ma... Oh, no, anche allora lui era di più. Molto di più, ragazzo. Ian per me significava qualcosa a cui nessuno potrebbe ambire. Non prendertela per questo.
-Ma no, no: capisco.
-Però l'altra sera, dopo il concerto, nel backstage, ti guardavo. Non riuscivo a farne a meno. E sai, mi è presa l'ispirazione, così, all'improvviso. Sentivo che queste note erano nate per te e che dovevo comporvi una canzone: era l'unico modo per liberarmene.
-Liberartene?
-Sì, mi avevano invaso la mente con una tale velocità e una tale potenza che avevo paura di non riuscire a pensare ad altro finchè non le avessi affidate alla carta.
-E' bello sapere che è così che mi vedi, Ritchie. - lo abbracciò di slancio, nonostante il chitarrista avesse cercato di ritrarsi – Sei così caro.
Approfittò del suo corpo sottile per immobilizzarlo e stampargli un bacio sulla guancia, con innocenza, incurante del fatto che l'altro si dibattesse e cercasse di pulirsi con le dita la traccia tiepida che le sue labbra gli avevano lasciata impressa.
-E' così che vorrei immaginarti sempre. È così che dovresti essere, anche quando andrai per la tua strada, seguendo la tua carriera.
-Non voglio andare da nessuna parte senza i Purple: sono la mia vita.
-Un giorno dovrai proseguire da solo. Un giorno me ne andrò io, magari. - se lo staccò di dosso, ma senza scortesia, limitandosi ad accarezzargli la gota con il dorso della mano – E allora questa canzone ti sarà di conforto e forse ti aiuterà a ricordarti di me, no?

 

Era una mattinata gelida ma limpida, quando arrivò sulla riva del lago. L'acqua si muoveva appena in lievi increspature, sotto il soffio tagliente del vento che agitava le foglie morte in piccoli turbini dorati. David si strinse nel cappotto, posando a terra la chitarra e sedendovisi accanto: prese un lungo istante per pensare, con lo sguardo perduto nella bellezza immobile e perfetta di quel luogo, nel suo silenzio distaccato e indifferente.
Si mise la chitarra in grembo e accennò alle note di Soldier of fortune. Non sapeva dire esattamente perchè si ritrovasse a suonarla così spesso: forse perchè davvero vi ci si rivedeva. Forse perchè anch'egli stava diventando vecchio come il protagonista, come le foglie che si arrossavano sugli aceri.
-David. - l'altro gli posò la mano sulla spalla – Che fai qui?
-Glenn. - sorrise, prendendola nella sua – Pensavo. È così bello il lago, in questa stagione.
-Mi sono svegliato e tu non c'eri. Ho provato a cercarti e ti ho trovato qui. - si era avvolto in una coperta a scacchi e se la stringeva addosso – E' un freddo terribile.
-Già. - rabbrividì – Ma la Musa non teme il gelo.
-Vieni. - gli si sedette a fianco, avvolgendolo nella metà della coperta – Meglio?
-Molto meglio. Ma così non riesco a suonare.
-Non è una grossa perdita, credimi. - scherzò, facendolo sorridere - Perchè suonavi Soldier of fortune? Vecchi rimpianti.
-No. O meglio, sì. Rimpiango quando le canzoni erano veramente canzoni. Voglio dire, quando nelle parole ci mettevamo davvero qualcosa di nostro, una parte di noi. Sai, ho sempre pensato che lo scopo di tutto fossero le canzoni. Un giorno noi ce ne andremo, le prossime generazioni non ricorderanno né un certo Coverdale, né un certo Hughes. Ma se abbiamo davvero prodotto qualcosa di buono, credo che canteranno ancora This time around. Mi segui?
-Non vedo dove sia il problema.
-Il problema è che ho perso la mia via, Glenn. Non so, a forza di darmi al pubblico, credo.
-Ma alla fine quello che hai scritto, una volta pubblicato, non ti appartiene più. Il pubblico ne fa quello che vuole.
-Non è questo il punto. È che guarda gli Snake, cosa sono diventati? Un gruppo di musicisti che ora si vestono come signorine per mantenere vivo il loro quarto d'ora di celebrità. Mi sono perso, Glenn. - aveva una sconosciuta tristezza nello sguardo – Non so più in che direzione sto andando. Sai, forse averti qui mi illude che in fondo non mi sono mai mosso più in là dei Purple. O forse avevo solo bisogno di parlarne con qualcuno. Vorrei ritirarmi.
-Stai scherzando? Eppoi che farai?
-Non so, magari il produttore. Magari me ne resto qui a scrivere.
-A scrivere?
-Da ragazzo scrivevo poesie.
-Dio mio, Davey, e che ti cambia metterle in musica?
-Quello che non metto in musica non esce dal mio cassetto. Non so a chi dirlo, Glenn. Mia moglie ama i riflettori: non sopporterebbe l'idea. I ragazzi... beh, sarebbe un bel guaio, anche se un altro ingaggio lo troverebbero: sono troppo in gamba. Ma io non mi riconosco più. Mi guardo e non mi ritrovo più.
E probabilmente nemmeno Glenn riusciva a rivedere in lui il ricordo che conservava dell'amico. Non ora, almeno, mentre era infagottato nel cappotto, nel maglione, con gli occhiali sul naso e il viso segnato.
-Non credevo stessi così male anche tu. - lo strinse un po' più forte, sotto la coperta.
-Non sto poi così male. È solo che avrei voglia di mandare a fanculo tutto, certe volte. Prendermi del tempo, pensare, pregare, andarmene per il mondo. Ti rendi conto: io sono stato ovunque, ma non ho visto niente. Avrei potuto vedere il sole tramontare sul Partenone, l'aurora boreale, le pagode del Giappone e non ho visto nulla. Ho vissuto per la musica: non che la cosa mi dispiaccia, sia chiaro, ma è come un senso di...
-Soffocamento?
-No, nemmeno: come se tutto scorresse troppo veloce, senza che io abbia la forza di controllarlo e nemmeno di rendermene conto. Tu hai mai provato una sensazione simile?
-Sì. E neppure troppo tempo fa.
-E che hai fatto?
-Sono fuggito. Sparito, completamente. Non ho detto a nessuno dove andavo, sceglievo la meta di giorno in giorno, ho persino cambiato nome e identità nel tentativo di fuggire da me stesso. Come quel romanzo di quell'italiano... come si chiamava?
-Pirandello? O qualcosa del genere.
-Già.
-Ed è servito?
-A nulla, Dave. Proprio a nulla: si finisce sempre per scappare con se stessi. Non puoi uccidere quello che sei, nemmeno se fingi di portare fiori sulla tua stessa tomba. Non si può tornare indietro. Oh, magari si potesse! Ma possiamo solo andare avanti. Vedi questo lago? Sembra fermo e stagnante ma sono sicuro che, da qualche parte, ha uno sbocco verso il mare.
-Ne sono sicuro anch'io, Glenn. Ma raccontami qualcosa. Non so, dei tuoi viaggi, di quello che hai visto.
-Ho solo ricordi così confusi. È tutto così confuso, Dave. Mi dispiace.
-Non importa, qualunque cosa andrà bene. - abbandonò la testa sulla sua spalla – Però stringimi.
-Lo sto facendo.
-Come allora, Glenn.
Hughes gli accarezzò a lungo la schiena e le braccia. Poi, dopo un lungo istante, accostò le labbra al suo viso per sfiorargli la gota e la linea del mento.
-Come allora... - sussurrò, poi si fece strada tra i vestiti trovando il suo collo e posandovi sopra un bacio esitante e insicuro.
-Glenn, noi... - non riuscì a finire la frase che si ritrovò sdraiato a terra, il bassista sopra di lui, tra le sciarpe, i cappotti, i capelli, la coperta e le foglie fredde. Chiuse gli occhi, lasciandosi baciare con un'innocenza insospettata.
Hughes si mosse su di lui, lentamente, fino a trovare la sua bocca. Non ebbe il coraggio di approfondire il bacio, limitandosi a lambirgli le labbra con delicatezza e accarezzargli il viso con le dita che gli tremavano.
Il cantante lo avvolse con le gambe e lo rovesciò sotto di sé per guadagnare il controllo del bacio e spingersi più a fondo.
-Fottuto cappotto!- imprecò, sfilandoselo con urgenza e gettandolo di lato.
Continuarono a baciarsi e a rotolarsi a terra come due ragazzi, finchè David non si ritrovò le mani di Glenn infilate sotto il maglione e Hughes un ginocchio di Dave tra le proprie gambe.
-Ma che stiamo facendo? - il cantante sorrise, prendendo fiato – Alla nostra età! Nemmeno avessimo quindici anni. - eppure riuscì a rubargli un altro bacio a fior di labbra – E con tutta una casa a disposizione.
-Scusami.
-Lo volevamo tutti e due, mi pare.
Glenn lo trattenne a sé: - E' bello averti così.
Lui si abbandonò sul suo petto: - Avevi promesso di raccontarmi dove sei stato.
Il bassista gli affondò una mano tra i capelli, poi lo abbracciò, cercando di scaldarlo – Stai gelando. Rientriamo.
-Penso sia meglio. - si ricompose, spolverandosi i vestiti e tendendogli le mani per aiutarlo ad alzarsi – Che disastro che devo essere.
Il bassista gli tolse una foglia dai capelli scarmigliati: - Che bello che sei.
-Oh, sicuro. Ridotto così, poi. - scherzò, raccogliendo la chitarra.

 

In viaggio. 1981.

Il treno viaggiava con un dondolio dolce lungo la tratta degli Urali.
In lontananza gli arrivava un arabesco flautato di suoni, ma non era sicuro di udirlo davvero: si sentiva la testa pesante, confusa. Era come se tutto girasse, girasse attorno, senza trovare sosta. Come quando il mare si agitava e la tempesta si preparava a sommergere una piccola imbarcazione senza difese. Come quando da bambino correva, correva senza meta, per ritrovarsi sempre al punto di partenza, con l'impressione di aver percorso chilometri e, allo stesso tempo, di non essersi mai mosso. Sentì una mano fresca posarsi sulla sua fronte che bruciava, con indicibile sollievo. Lui era seduto al suo fianco e non diceva nulla, si limitava a sorridere, dolcemente.
-Sei tornato.
La figura continuava a sorridere, in silenzio.
-Dove sei stato per tutto questo tempo? - cercò i suoi occhi ma, piano piano, avevano cominciato ad offuscarsi. L'intera immagine si era offuscata, come se stesse svanendo.
-Non andare, Tommy, non andar via. Ti prego.
Ti prego.
Una mano, questa volta fin troppo reale, lo scosse con ferma delicatezza: - Signore, si sente bene?
Glenn aprì gli occhi. Si era addormentato sopra il libro, evidentemente, cullato dal rollio delle rotaie e dalla quiete dello scompartimento deserto. O meglio, era deserto prima che prendesse sonno, perchè, ora, una donna era china su di lui e lo guardava, mordendosi appena il labbro inferiore. Era bionda, giovane e bella, soltanto un poco costretta in un'eleganza rigida, che non evitava però di farne risaltare gli occhi di un chiarissimo azzurro cielo.
-Mi perdoni se l'ho svegliata, ma mi sembrava che si sentisse male. - gli disse, con un inglese perfetto, ma venato di un accento del Nord, forse Norvegese, più probabilmente Svedese.
-Sto bene, grazie. È stato soltanto un incubo.
La sconosciuta parve rassicurarsi, tornando al proprio posto e al proprio ricamo.
Rimase un lungo istante a fissare la grazia antica con cui lavorava il merletto, accordendosi di star sorridendo, dopo lungo tempo. Lei se ne accorse e sorrise di rimando.
Lui si guardò attorno, fuori dal finestrino, cercando qualche punto di riferimento. Fuori si stava facendo sera e non c'era nemmeno un elemento che potesse aiutarlo: - Saprebbe mica dirmi dove siamo?
-No, mi dispiace. In Russia, approssimativamente. Dov'è diretto?
-In nessun luogo in particolare, sono in viaggio di piacere. E lei?
-Nelle Indie, per raggiungere mio marito. - continuava ad osservarlo con insistenza: - Perchè il suo viso non mi è nuovo? Lei non è per caso quel bassista, il signor Hughes, il musicista dei Deep Purple?
Si preparò a rispondere con quel mezzo sorriso che aveva studiato a lungo: - Mi duole deluderla. - le tese la mano – Edward Ross. E ahimè lavoro per un'industria di import-export. Magari fossi un artista, penso che sarebbe tutto molto meno noioso.
-Già. Peccato davvero: mi piacciono le canzoni di quei Deep Purple. E ha così ragione, la vita degli artisti dev'essere così eccitante, sempre in tour, sempre in posti nuovi, sempre circondati da gente diversa, non trova?
-Eccitante, sì. - si sforzò di sorridere, prima di richiudere il libro e uscire dallo scompartimento – Mi voglia scusare.
Il corridoio del vagone era vuoto. Si appoggiò pesantemente alla parete e respirò a fondo, ad occhi chiusi, cercando di calmarsi. In distanza, attraverso i vetri, un lampo squarciò il buio, preannunciando la pioggia. Rabbrividì, distogliendo lo sguardo. La natura sembrava volergli ricordare la sua inquietudine, attraverso la propria. Il viaggio era ancora lungo. Il suo Shangri-la ancora troppo lontano.

 

-Lo sai, Glenn, darei qualunque cosa per saperti sereno. - gli sussurrò, scostandogli una ciocca di capelli dal viso.
Il bassista si accese una sigaretta, guardandolo con quegli occhi tristi e scuri.
-Andiamocene via. - continuò Coverdale con un filo di voce - Andiamocene ad Istanbul, a Parigi, a Roma. O in Grecia. Non so. Prendiamoci tempo, restiamo insieme. Cerchiamo ispirazione, scriviamo canzoni. Per sei mesi, un anno, poi torniamo.
-Non servirebbe a nulla.
David gli tolse la sigaretta di mano, aspirandone una profonda boccata. Era sempre stato uno strano modo di sentire le sue labbra sulle proprie, quando non poteva baciarlo.
-Forse hai ragione. Ma dimmi cosa posso fare. Qualunque cosa e la faccio, Glenn.
Spense il mozzicone nel posacenere, prima di afferrarlo alle spalle per premergli la bocca sulla sua.
-Io credo che ne uscirai, Glenn, credo che tornerai il grande artista che eri. Hai troppo talento per scivolare nell'oblio. Guardami. - posò gli occhiali sul tavolino – Io so che tu ce la farai.
Strinse le dita attorno alla stoffa del suo maglione e lo fece aderire al proprio corpo, stendendosi sul divano e trascinandolo sopra di sé.
Il bassista si impossessò di nuovo della sua bocca: - Amami e salvami.
-Dai a me le tue paure.
Hughes prese a spogliarsi del maglione gettandolo a terra, prima di ritrovarsi le dita di David che tremavano sui bottoni della camicia.
-Aspetta.
Il cantante si era fatto strada con le mani sul suo petto e aveva finto di ignorare la sua richiesta. Aveva trovato il suo ventre sotto le dita e preso a carezzarlo con studiata lentezza.
-No, Davey, no! - lo fermò, bloccandogli i polsi.
-Ho fatto qualcosa che non dovevo?
-No. È solo che io... che tu... che il conforto che mi puoi dare non è quello che cerco. Deve partire da qui. - si indicò la fronte – Da qui, maledizione.
-Glenn. Vieni vicino, per favore. Torna qui.
Il bassista si rivestì alla meglio, gettandosi il golf sulle spalle.
-Si può sapere che cazzo hai, Hughes? Prima ti dai, poi scappi.
-Io... io non so se riuscirei a fermarmi in tempo.
-Nessuno te l'ha chiesto.
-Io voglio ripartire appena possibile. Voglio andarmene di qui. Qualunque legame mi fa sentire in gabbia, mi impedisce di respirare.
-Non voglio essere un legame. È che pensavo che certe cose fossero passate, in quindici anni, invece mi fai ancora perdere la ragione.
-Lo so, lo so. Ma ora ho bisogno di riposare un po'. - si sdraiò sul divano che l'altro aveva lasciato libero.
-E io vorrei mettere giù un paio di strofe, ma non riesco in presenza d'altri.
-Ora ce l'hai con me, Davey? - si alzò e gli circondò i fianchi con un braccio.
-Ma no, no. Anzi, se vuoi resta: cerco di scrivere qualcosa per te. O meglio, su di te.
-Allora è opportuno che me ne vada: mi imbarazzerebbe.

 

In tour. 1975.

-Cosa guardi, Tommy?- David l'aveva trovato sulla terrazza dell'albergo, dov'era andato per fumarsi una sigaretta in pace. Lui era lì, appoggiato alla balaustra, con lo sguardo perso tra le luci della città e i capelli spettinati dal vento della sera.
Era soprappensiero e non l'aveva sentito arrivare - Oh, sei tu.
-Già. Panorama interessante?
-Tutt'altro. Tutto si muove sempre allo stesso modo, uguale, piatto e monotono.
Lui gli posò una mano sulla spalla: - Non è che di sopra se la passino meglio, eh.
Il cielo era una distesa serena, immobile e scura di piccoli punti pulsanti e fulgidi.
-Tu pensi che ci sia qualcosa, lassù, David?
-Ci siamo noi, perchè non dovrebbe esserci?- si strinse nelle spalle, cercando di fare appello a quello che gli aveva insegnato sua madre, da ragazzo – Perchè, tu credi non ci sia niente?
-Boh, sono così strani gli esseri umani, che viene difficile pensare siano fatti a immagine di Dio.
-Ma quanto cazzo hai bevuto, Bolin?
-Un po'. Guarda, Davey! - gli indicò una stella più chiara delle altre – Cosa sarà quella?
-E che ne so, sono un cantante, mica un astronomo. Sarà Sirio, la Stella Polare, che vuoi che ne sappia?
-Qualunque essa sia, io vorrei essere come quella stella, Cov.
-Lontana? - lo guardò perplesso, attraverso le lenti degli occhiali.
-No, luminosa. Tranquilla. Capace di brillare di luce propria, senza temere l'oscurità.
-Che significa?
-Che noi uomini abbiamo sempre bisogno di qualcosa che ci permetta di vivere e di brillare. Io ho bisogno della musica, della mia chitarra. Non che sia un male, questo. Ma sarebbe bello se tutto fosse più naturale. Se gli uomini si amassero in quanto tali, senza bisogno di dimostrare nulla. A volte, mi chiedo se esista un modo per non crescere, David, perchè i bambini rimangano bambini per sempre.
-Credimi, io non ti capisco, Tommy.
-Non so. - si torturò la punta di una ciocca di quei suoi capelli di diversi colori – Mi piacerebbe se la musica fosse una mia estensione naturale e non questa forma di business. Forse non sono adatto a questo stile di vita; mi sento un poco legato. Mi chiedono come faccio a suonare come suono. Io non lo so proprio: sento le note dentro, nella testa. Queste note esistono già, come se vivessero per me o come se vivessi per loro. Io non so fare altro se non suonare la chitarra. E lo so che se non mi desse da vivere, non potrei campare: è una grande contraddizione, la mia storia. - sorrise, con una dolcezza distaccata.
-Ah, smetti di tormentarti, Tommy. - gli passò la sua sigaretta che l'altro accettò, rimarcando appena un po' di più il sorriso – Hai bevuto troppo, ecco che c'è. E ti manca una ragazza. Cos'è? Non ne hai trovata una che ti piacesse, stasera?
-Potrei farti la stessa domanda. - aspirò profondamente dalla sigaretta – Ma piuttosto, tu sei felice, David?
-Come? - non riuscì a trattenere una risata – Ma come ti vengono certe domande?
-Rispondimi.
-E perchè non dovrei esserlo? È uno dei momenti migliori della mia vita. E tu?
Scrollò la testa: - No, ma mi diverto a fare quello che faccio, altrimenti non sarebbe degno di essere fatto. Sai, alla fine ci vuotiamo l'anima a dare alla gente quello che abbiamo dentro, senza riceverne molto in cambio.
-Fama, denaro, successo, non ti pare abbastanza?
-No. Non è abbastanza: sai che i miei guadagni migliori li ho fatti mendicando. Non è generosità, la mia, né un modo per avere indietro una ricompensa: è che creare è l'unico modo per sentire la vita, sentirla nelle vene. Troppo spesso non mi succede.
David gli strinse il polso nella mano, cercando di osservare il suo braccio martoriato, alla luce della luna: - Lo so. Me ne accorgo, Tommy.
Lui si srotolò le maniche della camicia, abbottonandole, senza rialzare lo sguardo.
Il cantante lo abbracciò alle spalle, facendolo appoggiare al proprio corpo, per rilassarsi.
-Tu ci hai salvato tutti, Bolin. Sei stato una benedizione.
-Sto preparando un disco, Davey. - gli sussurrò – Un disco mio. Sai, ho sempre sostituito gente, Blackmore per ultimo, lì vorrei essere solo me stesso.
-Mi pare giusto.
-Sai, pensavo di chiedere a Glenn di cantare per me. Tu pensi che accetterà?
-Perchè non dovrebbe? Glenn ti vuole bene.
-Anche tu me ne vuoi?
-Bolin, ci hai dato dentro di artiglieria pesante. Ma cos'era? Whiskey?
-Già. Ma non mi hai risposto.
-Che domande. Ovvio che te ne voglio. Ma io non ci starei a cantare per te e, a pensarci bene, forse nemmeno Hughes.
-Perchè? - si voltò a guardarlo, alzando il viso, senza sciogliersi dal suo abbraccio, anzi, trattenendogli le mani sul proprio petto.
-Perchè tu sei in grado di farlo. Sii sicuro di te stesso, Tommy. Hai talento, ragazzo. Sarà un ottimo disco. Io ho svegliato in piena notte Jon Lord, per te. Se te lo dico io che avrai successo, devi fidarti.
Tommy rise, scrollando la testa: - Tu sei sempre così positivo.
Coverdale lo lasciò libero, prima di scompigliargli i capelli e avviarsi verso l'interno: - Ricordatelo, Tommy Bolin, in qualche modo tu sei come quella stella.
-Lontana?
Abbassò lo sguardo sulla sua figura esile e fragile, prima di fissarsi le punte dei piedi, con un po' di malinconia: - Irraggiungibile.
-Ma anche le stelle cadono nel mare, prima o poi. O, forse, cadono e basta.

 

Non aveva visto Glenn per tutto il resto della giornata. Non che si fosse davvero reso conto del tempo che era passato. Al contrario, il sole era sceso senza che ci facesse caso. Solo il freddo del fuoco spento nel camino gli aveva ricordato che dovevano essere le diciotto passate.
Quando salì le scale e spinse la porta della sua camera, lo ritrovò addormentato sul letto, sopra le coperte, col grammofono che girava a vuoto su uno dei suoi vinili. Lo spense, recuperando il disco e sorrise di nostalgia nel vedere che il sonno l'aveva colto sulle vecchie note di Love me tender.
-Glenn?- si chinò su di lui – Glenn? Ti senti male?
Lui si stropicciò gli occhi: -No, va tutto bene. Sono solo stanco. E ho un gran freddo.
-Immagino. Guarda come ti sei addormentato. Senti, vediamo di preparare qualcosa da mangiare. - imprecò mentalmente, dato che non ricordava di aver più acceso un fornello da almeno una dozzina di anni.
-Veramente io non ho fame, Dave.
-Ma devi mangiare, no? Altrimenti come trovi la forza di cantare, quando arrivano i ragazzi?
-Il pensiero che debba venire gente mi terrorizza.
-Sono care persone, non faranno troppe domande. - cercò di sorridergli nel modo più rassicurante possibile – Me ne vado?
Annuì: - Non prendertela, Dave.
-Non me la sono presa. A proposito – si tolse un foglio dalla tasca – l'ho composta, sai. La canterò per te, se Adje riuscirà a cavarne una buona base. Te la lascio qui.
-Come si chiama?
-Sailing ships. - rispose in un sussurro – Navi in partenza.
-Posso leggerla ora? - inforcò gli occhiali, accostando il foglio alla lampada. - The wind was with you, when you left on the morning tide, you set your sail for an island in the sun, on the horizon, dark clouds up ahead, for the storm has just begun. E' bella. C'è un che di mitologico, di greco, in tutto questo.
Lui si stropicciò le mani, senza sapere cosa aggiungere.
-You cry for mercy, when you think you've lost your way, you drift alone, if all your hope is gone. So find the strength and you will see, you control your destiny, after all is said and done. Sei sempre un vecchio sognatore, Dave.
-Da certe cose non si guarisce. O forse sei tu che porti sempre una buona ispirazione.
-C'è tanta speranza, qui. - chiuse il foglio, stringendoselo al petto – Voglio pensare che tu abbia ragione. Vorrei così tanto credervi.


(Continua)

   
 
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