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Autore: giulina    08/11/2012    2 recensioni
Leo tirò in aria l'ennesimo biscotto e lo fece finire direttamente nella bocca aperta, sorridendo alla ragazza che continuava a girare lo zucchero nel suo tè ormai freddo. Non resistette più e gli sorrise apertamente. Con quel ragazzo era tutto un mostrare sorrisi storti e denti bianchi, un ridere fino a sentire male allo stomaco.
- Mi piace. -
- Il mio riuscire a centrare la bocca con il biscotto? Lo sai che riesco a mangiarmi anche l'unghia del pollice mentre sono al telefono? -
Agata rise di nuovo e Leo le si avvicinò, toccandole delicatamente con l'indice la fossetta appena accennata sulla guancia sinistra.
- Mi sono innamorato. -
- Di me? -
- Macchè, parlavo di quella fossetta lì. Sì, proprio quella lì. Non è che la puoi regalare? -
Agata continuò a sorridere mentre Leo le percorreva con il dito la pelle del viso e la guardava con quegli occhi dalle ciglia lunghissime, che le facevano sentire la necessità di abbassare lo sguardo. Non meritava che qualcuno la guardasse con quegli occhi.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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E fu la notte 

la notte per noi
notte profonda sul nostro amore. 
 
 
-Fabrizio De Andrè, E fu la notte.-






Flashback.




Quando Agata aprì gli occhi dopo intere ore di buio, capì subito di non trovarsi più in quel parco dove si era rifugiata la sera prima -o forse solo qualche ora prima-. Il freddo che le aveva ghiacciato i pensieri e le ossa era scomparso, come le calze bagnate a causa dell'erba su cui si era sdraiata e le lacrime ferme agli angoli degli occhi.
In quel momento, sentiva solo tanto calore e un buon odore di borotalco provenire dal lenzuolo celeste su cui si trovava, rannicchiata su se stessa come aveva sempre dormito da quando ne aveva memoria.
Si alzò a fatica a sedere su quel letto da una mezza piazza dalla rete cigolante, portandosi entrambe le mani sul viso sporco di trucco, sentendosi un terribile sapore in bocca e la testa potersi staccare da un momento all'altro dalle sue spalle fragili come non mai. Chiuse gli occhi vedendo ombre scure dietro le sue palpebre e quando li aprì di nuovo, si guardò intorno per la prima volta.
La stanza aveva le pareti dipinte di un bianco come nuovo, pulitissimo, che sembrava illuminare la penombra in cui si trovava a causa della finestra sigillata dalle persiane.
Davanti al letto c'era una piccola scrivania di vetro su cui erano stati accatastati quelli che sembravano dei fumetti -ed erano tantissimi, uno sopra l'altro- e una piccola televisione portatile posata lì di fianco, con l'antenna che pendeva leggermente a destra.
Nella libreria di legno, vicino alla finestra, c'erano dei modellini di dinosauro e delle videocassette con delle etichette. Da una scatola bianca sotto la scrivania spuntava un pallone da calcio di cuoio bianco. Sembrava la camera di un adolescente.
Agata si alzò lentamente in piedi, sgusciando fuori dal piumone a quadri che sembrava essersi appiccicato come una seconda pelle addosso a lei.
Non indossava più i suoi anfibi e le calze, ma aveva ancora indosso il maglione blu della sera prima che le arrivava quasi alle ginocchia arrossate probabilmente per una caduta.
Aprì la porta -anch'essa bianca, come le pareti- che era leggermente socchiusa e si sporse nel piccolo corridoio i cui muri erano coperti da alcune fotografie in bianco e nero e da una tappezzeria a fiori rosa. Nell'aria, c'era odore di caffé e pane abbrustolito.
In punta di piedi, aggrappandosi con le unghie rovinate alla parete, si avvicinò alla stanza da cui proveniva un leggero brusio di sottofondo e il rumore di un rubinetto aperto.
Quando si affacciò alla porta della cucina, Agata vide una signora anziana lavare delle tazze in un lavabo di ceramica bianca, simile a quello che sua nonna aveva nella casa di campagna dove, quando era una bambina, passava l'intero mese di agosto. Stava giornate intere a raccogliere more con cui si sporcava mani e bocca e la sera, quando tornava a casa, si ripuliva in quel lavandino troppo alto per lei, strofinando la pelle con il sapone nero dall'odore che riusciva ancora a ricordare.
Sul fornello acceso c'era una macchinetta del caffé che ogni tanto sputava qualche goccia di liquido scuro che finiva sulle piastrelle bianche della parete, insieme ad una pentola di acciaio in cui stava soffriggendo del sugo.
La donna aveva i capelli grigi legati in una coda bassa e un maglioncino rosso da cui spuntava una camicia celeste. Ai piedi indossava un paio di zoccoli bianchi, di quelli che usano le infermiere negli ospedali e producono un rumore infernale, e muoveva ritmicamente il piede destro sul pavimento dalle piastrelle grigie, quasi fosse un tic.
Quando si accorse della presenza di Agata, lasciò cadere un bicchiere del lavandino e le si avvicinò, zoppicando leggermente sulla gamba sinistra fasciata da una calza color carne.
La sospinse delicatamente verso una sedia posizionata intorno al tavolo di legno, sorreggendola per un polso quasi potesse cadere, lei, all'improvviso.
Agata le sorrise in imbarazzo, cercando di allungare il più possibile il maglione fin sotto le ginocchia. Si sedette impacciata sulla sedia che la donna le aveva spostato e si schiarì la voce guardandosi attorno. Dove era finita? Forse l'avevano rinchiusa in un centro di riabilitazione per dei poveracci senza soldi come lei. Forse stava ancora dormendo. Nessuno l'aveva salvata ed era ancora in quel parco a morire da sola come un cane?
La donna le sorrise asciugandosi le mani a uno strofinaccio logoro. Aveva quel sorriso dolce che ti fa chiudere lo stomaco e sorridere di rimando; che ti imbarazza, che ti fa quasi commuovere e si focalizza nella tua memoria. Un sorriso che abbraccia e conforta. Forse qualcuno, la sera prima, non l'aveva lasciata morire.
- Come stai, tesoro? - La donna aveva gli occhi di un verde che le sembrava di aver già visto. Occhi verdi con ciglia lunghissime.
- Bene, grazie. - Rispose a voce bassa la ragazza, sistemandosi meccanicamente una ciocca arruffata di capelli dietro l'orecchio.
- Sei un'amichetta del mio Leo, tesoro? -
- Leo? -
- È una mia amica, nonna. Un'amica un po' stronza, se devo essere sincero. -
Fecero la loro comparsa nella stanza un paio di capelli biondi scompigliati e una maglia di un concerto dei Metallica, con tanto di boxer a quadri e infradito blu ai piedi.
Agata guardò Leo senza riuscire a connettere il perché della sua presenza in quella casa, se di casa si trattava.
- Stronza? Mi sembra una ragazzina molto gentile ed educata, tesoro. -
- Ti assicuro che è una grandissima stronza. -
- Ma è carina, tesoro. -
Il ragazzo mise a fuoco la figura della ragazza e si aprì in un pigro sorriso mentre inzuppava il primo biscotto al cioccolato dentro la sua tazza di tè caldo.
- È molto bella, sì. -
Ad Agata le fu posata una tazza verde davanti agli occhi insieme ad una zuccheriera di ceramica.
Il telefono squillò in un'altra stanza e la donna anziana uscì a piccoli passi dalla porta, pronunciando delle scuse a bassa voce, mentre aveva ancora il sorriso sulle labbra per quello che aveva detto il nipote.
La ragazza guardò Leo immergere due biscotti insieme nella tazza che poi masticò energicamente a bocca piena con una smorfia di piacere. Agata si portò una mano sugli occhi per evitare quello spettacolo poco gradito, cercando di reprimere la risata che le stava risalendo la gola che bruciava.
- Perché sono a casa di tua nonna? -
- Perché io vivo con lei che fa i migliori biscotti al cioccolato di tutta la città con cui mi piace fare colazione ogni mattina. Se non li mangio almeno una volta al giorno, divento una bestia. -
Leo tirò in aria l'ennesimo biscotto e lo fece finire direttamente nella bocca aperta, sorridendo alla ragazza che continuava a girare lo zucchero nel suo tè ormai freddo. Non resistette più e gli sorrise apertamente. Con quel ragazzo era tutto un mostrare sorrisi storti e denti bianchi, un ridere fino a sentire male allo stomaco.
- Mi piace. -
- Il mio riuscire a centrare la bocca con il biscotto? Lo sai che riesco a mangiarmi anche l'unghia del pollice mentre sono al telefono? -
Agata rise di nuovo e Leo le si avvicinò, toccandole delicatamente con l'indice la fossetta appena accennata sulla guancia sinistra.
- Mi sono innamorato. -
- Di me? -
- Macchè, parlavo di quella fossetta lì. Sì, proprio quella lì. Non è che la puoi regalare? -
Agata continuò a sorridere mentre Leo le percorreva con il dito la pelle del viso e la guardava con quegli occhi dalle ciglia lunghissime, che le facevano sentire la necessità di abbassare lo sguardo. Non meritava che qualcuno la guardasse con quegli occhi.
Quando lo guardò di nuovo, Leo si era avvicinato quanto bastava per notare che aveva due nei sul mento e una cicatrice sulla tempia destra.
Quando la baciò, la sua lingua sapeva di tè ai mirtilli e biscotti al cioccolato e sentiva sulla sua pelle, quasi come un soffio leggero, i riccioli chiari che l'accarezzavano come stava facendo la sua bocca.
Leo riusciva a sorridere anche mentre baciava e a lei, improvvisamente, venne voglia di mangiarsi due o tre di quei biscotti al cioccolato di nonna Paola, per sapere se fossero così buoni come aveva percepito dalla sua bocca.






Agata era sparita nel nulla e non era certo che lei avrebbe voluto essere ritrovata.
Leo non la sentiva da quella volta che, per la strada buia, si era lasciato bagnare la pelle dalle sue lacrime disperate ed era scappata con la sua macchina senza un minimo di esitazione.
Il ragazzo continuava a condurre la vita di tutti giorni come se nulla fosse successo, come se Agata si fosse presa una breve vacanza dal mondo, sapendo che, prima o poi, sarebbe tornata, trovando la porta dell'appartamento in Via del Campo spalancata.
D'altronde, non era la prima volta che lei se ne andava per un certo periodo e poi tornava, con una nuova cicatrice, con un nuovo colore di capelli o un sorriso forzato. Leo non sapeva dove se ne andasse, dove si nascondesse dal mondo in quei periodi. Sapeva soltanto che non doveva fare domande e, bene o male, l'aveva accettato.
Sentire il suo odore sulla pelle quando l'abbracciava dopo intere settimane di lontananza era la ricompensa al suo non chiedere niente, a rispettarla in un certo senso.
La sera che Agata se ne era andata, Leo aveva dormito a casa di Aldo, nel letto della figlia maggiore che era andata a convivere con il fidanzato da ormai cinque anni.
Costanza gli aveva parlato una tazza di latte e miele e gli aveva rimboccato le coperte verso la mezzanotte, tirandogliele fin sopra al mento in modo che non prendesse freddo. Aveva anche alzato il riscaldamento per lui, sapendo quanto fosse freddoloso. Gli aveva accarezzato i capelli per qualche minuto, in silenzio, prima che il marito la invitasse ad uscire dalla camera per lasciarlo dormire tranquillamente.
Leo quella notte non dormì, ma riuscì a sorridere la mattina dopo, assistendo al bacio del buongiorno che Aldo diede alla moglie. Secondo Costanza, era dal 1998 che non gliene dava uno.
Andò regolarmente ogni mattina da Luciana come avevano concordato. Un martedì, alle sette e cinquanta era già davanti al portone di legno scuro, con in mano delle buste della spesa di plastica bianca contenenti cinque ananas e del pesce da cucinare per il pranzo.
- Cosa dovrei farci con questi cazzo di ananas, eh? -
- Mangiarli? -
- Vuoi vedere se te li ficco uno per uno su per il naso? -
- Avrei detto che saresti stata più volgare. Stai migliorando, Luciana! -
- Zitto, coglione. Perché hai comprato cinque ananas? -
- Perché fanno bene alla diuresi e sciolgono i grassi. -
- Mi stai dando della grassona? -
- No, ma ho notato che la tua vestaglia non si allaccia più come un tempo. -
- Ma senti questo stronzo! -
- Luciana, sei ingrassata e lo sai anche tu. Il pomeriggio ti sedimenti su quella poltrona sfondata a guardarti le repliche di C'è posta per te! Sei come una cozza con lo scoglio. -
- Ah, ora mi stai dando anche della cessa? -
- Ma no, Lucianina! Con i tuoi capelli come potrei dirti che sei brutta? -
- Comunque io non le farò delle cazzo di camminate per dimagrire. -
- Anche il Dottor Andreotti ti dice che devi fare del movimento. Da domani, una mezz'oretta al giorno ci facciamo un passeggiatina al parco della stazione. Ci sono anche tutte quelle belle paperelle da vedere nel laghetto di fronte alla fermata degli autobus. -
- Io ti ci affogo nel laghetto di merda. -
- E ora ti mangi anche due rondelle di ananas che male non ti fanno. Ti ho raccontato di quando mia nonna Paola riuscì a dimagrire 25 kg mangiando per un mese solo ananas? -
- E che cazzo me ne frega? -
- Io lo so che te vuoi un uomo. -
- Un cazzo voglio! -
- Esattamente di quello che stavo parlando! -
- Figlio di… -
- Senti, te la faccio una bella sogliola per pranzo? Guarda come è fresca! I suoi occhietti si muovono ancora! -






Leo rimase a casa di Luciana fino alle sei del pomeriggio.
Pranzarono insieme, fecero tre partite a canasta finché la donna non tagliò cinque carte con le forbici dopo aver perso l'ennesima partita e guardarono insieme Forrest Gump alla Paytv. Il ragazzo fu quasi sicuro di aver visto una lacrima all'angolo dell'occhio destro della donna. Quando glielo fece presente, Luciana si chiuse in bagno per quarantatre minuti.
- Domani ci guardiamo Arancia Meccanica. È di Stanley Kubrick, mai sentito? -
- Quello del cubo? -
- Ma no, Luciana! Quello è Rubik! -
- Sempre nomi del cazzo sono. -
- Se me lo ricordo ti porto anche la bottiglia di Limoncello che il mio vicino di casa mi ha regalato l'altro giorno. È fatto con il latte di capra. In due minuti sei ubriaca fradicia! -
- Ti vuoi approfittare di me? - Luciana iniziò a ridere di gola, mentre si alzava lentamente dalla poltrona di pelle del salotto e, zoppicando sul suo bastone, si avvicinava alla portafinestra che dava sul piccolo terrazzo dove c'erano i vasi con le begonie, che quel pomeriggio era per metà oscurata dalla serranda.
Leo si era accorto che alla donna piaceva guardare il tramonto prima che il cielo si scurisse.
Si posizionava sempre davanti al vetro freddo verso quell'ora e osservava l'arancione sfumato che sembrava coprire i tetti del palazzi in lontananza come un mantello.
Una volta, l'aveva scoperta mentre sorrideva a quei colori accesi. Era un sorriso di malinconia.
- Luciana, lo sai che ho un debole per i tuoi capelli per cui se a te va bene possiamo anche darci da fare. -
- Ma se sei accasato, mi hai detto! -
- Beh sì, ma io sono per un rapporto aperto. -
- Rapporto aperto o no, che mi dici di quella sciacquetta con cui stai? -
- Cosa le dovrei dire? - Leo la raggiunse davanti alla portafinestra, osservando anche lui le nuvole di zucchero filato rosa perdersi all'orizzonte in quella giornata fredda che stava giungendo al termine.
- Che cazzo ne so! Il colore dei capelli, il suo nome, se è fuori di testa come te… cose così. Non voglio sapere se ha mai avuto le emorroidi! -
Leo chiuse per un attimo gli occhi e dietro le palpebre disegnò la figura minuta di Agata, con i suoi sorrisi freddi e i maglioni troppo grandi; con gli anfibi rovinati ai piedi piccoli e le sue labbra rosse come il fuoco; Agata dai pochi abbracci e dai baci che gli lasciava sempre dietro l'orecchio.
- La stai immaginando nuda? -
Leo sorrise apertamente e si appoggiò con la fronte al vetro, soffiando il suo fiato freddo sulla superficie. Con l'indice scrisse il nome della ragazza in una calligrafia poco precisa.
Luciana gli si avvicinò e si mise gli occhiali che teneva nella tasca della vestaglia per leggere cosa avesse tracciato.
- Ma come cazzo scrivi? Cosa c'è scritto? -
- Agata. -
- È il suo nome? -
Leo annuì brevemente e Luciana sorrise come non l'aveva mai vista sorridere. Si allontanò dalla stanza, chiusa su se stessa, e con la mano che tremava sul manico del bastone. Sulla soglia della porta sussurrò a bassa voce: - Un giorno un uomo pronunciò il mio nome nello stesso modo in cui oggi tu hai pronunciato il suo. -
Il ragazzo rimase immobile davanti al vetro, lasciando la donna sola con i suoi ricordi che in quel momento potevano essere percepiti attraverso i suoi occhi chiari.
Leo continuò a pronunciare il nome di Agata a bassa voce, nel silenzio della stanza.





All'angolo di Via del Campo, proprio accanto al panifico del Signor Giuliano Pasolini, che qualcuno diceva fosse parente del famoso regista, c'era una piccola pasticceria aperta qualche mese prima che lui si trasferisse nel suo appartamento.

La proprietaria era una giovane ragazza francese di nome Laetitia che faceva la migliore meringata di tutto il paese. E lui, quando era triste, necessitava di una meringata fatta come si deve.
Aveva i capelli biondi che le arrivavano fino alla vita, che teneva sempre legati in una coda, degli occhi verdi così belli che non li truccava mai e pronunciava il suo nome con talmente tanta dolcezza che Leo, ogni volta che entrava in quel negozio, glielo faceva pronunciare per almeno sei o sette volte di fila.
Quella sera di aprile la pasticceria era vuota e Leo, ghiacciato dal vento che aveva iniziato a tirare appena era uscito dall'appartamento di Luciana, si era sentito subito riscaldato dal sorriso sincero della ragazza dalla R moscia.
- Leò! -
- Dillo ancora. -
- Leò, entra dentro prima che ti venga un malanno per colpa de moi. -
- Potrebbe venirmi la broncostroncopolmonite per quanto mi riguarda, sentire il mio nome uscire dalle tue labbra mi riempie di gioia e gaudio. -
La ragazza si mise a ridere e si pulì le mani sporche di farina bianca sul grembiule legato ai suoi fianchi stretti.
- Cosa posso fare per te, Leò? -
- Facciamo dei figli insieme. -
- Smettila, sciocco! Davvero, in cosa posso esserti utile? -
- Una meringata da portare via, per favore. -
- Ma... la tua fiancè ne ha comprata una prima. -
- La mia cosa? -
Laetitia si avvicinò al bancone e sorrise gentile mentre due clienti entravano nel negozio.
- La tua ragazza, quella dagli occhi belli. -
Leo rimase in silenzio, osservando il volto sorridente della ragazza, cercando di metabolizzare le sue parole.
Dopo qualche secondo le sorrise ed uscì correndo dal negozio, poi per la strada schivando un impiegata in sella a una bicicletta rossa e due ragazzini che si baciavano in mezzo alla strada. Salì le scale del palazzo di corsa, con il fiatone e le mani che stringevano le chiavi che tremavano appena.
La vide subito appena mise piede sul pianerottolo.
Agata era seduta davanti al portone di casa, con le ginocchia strette al petto, il viso nascosto da una sciarpa rossa e una scatola contenente la sua meringata vicino ai piedi. I capelli sembravano dello stesso colore dell'ultima volta che l'aveva vista.
Quando alzò lo sguardo su di Leo, il ragazzo si accorse che al naso arrossato per il freddo portava un piccolo cerchietto d'argento. I suoi occhi erano socchiusi ma lo guardavano dolcemente.
Leo si mise a ridere forte e si sedette sul tappetino logoro insieme a lei, le ginocchia vicine e le braccia che si sfioravano.
- Ma non è che durante la notte ti metti a muggire, vero? -
Agata sorrise apertamente con le labbra secche e rosse per la tramontana. Il suo viso era lo stesso e identiche erano anche la labbra che lo baciarono appena lui le prese la testa tra le mani che continuavano a tremare.
Si baciarono finché non sentirono il sedere ghiacciarsi e le loro mani perdere la sensibilità.
- Hai comprato la meringata per festeggiare il tuo nuovo piercing? -
- No, per il mio ritorno a casa. - E la parola casa, sulle sue labbra rosse, era la parola più bella che avesse potuto dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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