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Autore: Aya_Brea    13/11/2012    4 recensioni
“Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance.
Dagli occhi di Gin non trapela mai nulla, ma i ricordi si sa, non possono essere cancellati.
 
Fanfiction sul passato del più carismatico fra gli Uomini in Nero.
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Gin, Nuovo personaggio, Vermouth, Vodka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8. La chimica dell'odio



Gin si strinse nel suo impermeabile nero e stette ad osservare il tramonto per qualche breve istante: conclusasi quella breve pausa di normalità, l’uomo sentì nuovamente il bisogno di riallacciarsi alle dolci consuetudini. Sfilò una sigaretta dal suo pacchetto di Lucky Strike e se la portò fra le labbra gelate dal freddo: la debole fiammella del cerino diede un lieve tepore alle sue mani ghiacciate: doveva ammettere che quella sera il Generale Inverno gli stava dando del filo da torcere. Il cielo rosso cremisi accennava a colorarsi di un violaceo tumefatto e bluastro.
D’un tratto, quel surreale silenzio fu interrotto da un breve calpestio sull’erba, tanto che il biondo non poté far a meno di voltarsi: fra i tronchi degli alberi intravide la piccola Kirsch che si faceva strada, stretta nel suo piumino colore del carbone.
“Buonasera, Gin.” Esordì la ragazza: non appena le sue labbra si dischiusero, una nuvoletta di vapore bianca si sollevò nell’aria. L’uomo in nero pensò che quel corpicino stava combattendo per regolare la temperatura interna: lui, invece, disponeva di uno spaventoso meccanismo omeostatico.
“Fa freddo, eh?” Concluse dunque, Gin.
Kirsch si sfregò le mani guantate l’una contro l’altra, poi quando fu investita dal fumo di sigaretta del suo interlocutore, un violento colpo di tosse la colse alla sprovvista. “Santo Dio, smettila con quella schifezza! Non vorrai mica ammazzarmi prima del tempo?”
Gin inspirò a pieni polmoni e trattenne il fiato, dopodiché, quasi per ripicca, buttò fuori il fumo proprio sulla faccina di Kirsch. “Falla finita, che vuoi che sia.” Ghignò.
“Che tu sia maledetto.” La giovane volse il capo altrove e qualche attimo più tardi fu sorpresa nell’essere avvolta da un altro odore, stavolta decisamente più piacevole. “Noto che hai fatto la doccia nel profumo, stasera. Hai per caso un appuntamento o sei sempre così ...” Non seppe come continuare la frase, anche perché non voleva dargli l’impressione di stare flirtando.
“Sarà il bagnoschiuma.”
“Eccezionale. Se anche il tuo amico fosse così attento all’igiene, forse riuscirei a lavorare con voi molto più volentieri.” Kirsch sorrise lievemente, poi si infilò le mani nei tasconi del suo giubbotto. “Che facciamo, entriamo?”
Gin sollevò la sua sigaretta oramai a metà. “Dammi il tempo di finirla. Intanto entra.”
La ragazza annuì, gli riservò ancora qualche altra occhiata prima di immettersi nel tunnel che l’avrebbe portata nel quartier generale dell’Organizzazione.
Gin si prese del tempo prima di entrare: dopotutto gli piaceva farsi aspettare, specialmente se era quell’arpia di Vermouth a doverlo attendere. Dentro il suo cervello sentiva già le chiacchiere arcigne che gli stava rivolgendo, le sue continue lamentele sul fatto che volesse sempre prendersela comoda, o sul suo comportamento ribelle. Aveva la smania di voler procedere sempre controcorrente, anche perché la normalità non rientrava nelle sue prerogative: lui tendeva all’eccesso, voleva oltrepassare quella linea che demarcava il confine fra la vita e la morte, voleva vivere sempre sul filo del rasoio.
Lasciò che il mozzicone della sigaretta si perdesse fra l’erbaccia; era giunto il momento di mettere alla prova quella ragazzina.
Vermouth e Kirsch lo aspettavano in un laboratorio: la ragazza dalla lunga coda di cavallo era seduta sul lastrone bianco, fra un lavandino ed un altro e alle sue spalle v’erano una decina di provette semipiene. Pareva una bimba con le sue gambette sottili che scalciavano avanti ed indietro. Vermouth invece era appoggiata contro il mobile centrale ed ostentava il suo solito atteggiamento di superiorità: “Dovrei comprarti un orologio. Ti aspettavamo.”
Gin avanzò noncurante delle solite prediche della donna: il suo sguardo cadde immediatamente su Kirsch e sul suo visino angelico, privo di qualsiasi preoccupazione, ed al contrario, completamente rilassato.
Vermouth non mancò di notare i loro sguardi, ma decise di infischiarsene. “Ho già accennato a Kirsch che stavolta l’obiettivo non è un regolamento di conti, ma è qualcosa di molto più grosso che ha a che fare col futuro della nostra Organizzazione.”
Gin strinse i denti. Non tollerava quelle introduzioni, lui era un mercenario, un killer professionista, non uno statista. Per ora si accontentava di svolgere delle semplici mansioni, tutto l’apparato che stava dietro alle questioni dell’Organizzazione non lo aveva mai minimamente interessato.
“Taglia corto, arriva al dunque.”
Kirsch sbraitò, agitandosi e gesticolando con le sue manine avvolte dai guanti neri. “Quante storie, lascia che parli.”
Il biondo le riservò un’occhiataccia: doveva mettere in riga quella sgualdrinella.
Vermouth inspirò: il sopracciglio destro ebbe un tic nervoso e si sollevò spontaneamente. “Dicevo: Miyano sta svolgendo delle interessanti ricerche sul nuovo farmaco che abbiamo intenzione di sintetizzare e pare che in un laboratorio non lontano da qui si stiano svolgendo delle sperimentazioni poco ortodosse. Il vostro compito è quello di recuperare i documenti compromettenti e gli studi effettuati dai loro ricercatori. E’ molto probabile, inoltre, che ci sia una spia che gli fornisce informazioni sul nostro farmaco sperimentale, per questo motivo, il vostro ultimo obiettivo sarà quello di disporre delle cariche esplosive nei pressi dei punti nevralgici della struttura. And then… Boom! L’edificio salterà in aria assieme a tutte le prove.”. La donna si scostò dal tavolo, facendo vibrare la doppia elica di DNA protesa verso il soffitto, poi si avvicinò ad una scatola posta nel bel mezzo della stanza. Si chinò per permettere ai due di visionarne il contenuto. C’era dell’esplosivo imballato e trattenuto da uno scotch marrone, un paio di mascherine nere per la protezione di bocca e naso, ed infine, due telecomandi per azionare il meccanismo di detonazione. “Qui c’è tutto l’occorrente. Dividetevelo. Quell’edificio deve sparire dalla faccia della terra.”
Kirsch scivolò già dal lastrone luccicante con un abile balzo e la sua coda saltellò sulla sua schiena come uno schiocco di frusta. “E come faremo a riconoscere i nostri documenti, Vermouth?”
Gin osservava entrambe le donne: l’una, elegante e posata, l’altra, disinvolta nella sua aderente tuta nera. Erano due individui completamente differenti.
“Credo che siano delle cartellette con una denominazione particolare. Il farmaco imperfetto, il metabolita secondario imperfetto, qualcosa di simile. Prendete tutti i fascicoli che ritenete interessanti.”
“Diciamo che me la cavo con la chimica, ma se avessimo a portata di mano un ricercatore, credo che sarebbe tutto più facile. Che ne pensate?”
Il biondo si leccò le labbra, poi le storse in una specie di smorfia. “Dovremmo portarci un imbecille al seguito? Ci rallenterebbe.”
Vermouth seguì Kirsch volteggiare fino a raggiungere il biondo: fra i due c’era una notevole differenza in termini di altezza, specialmente per la ragazza che non indossava scarpe alte, ma semplici anfibi. “Ma che dici! Secondo me invece è un’ottima idea, anzi, potremmo ottimizzare i tempi con un esperto al nostro fianco. Perché non coinvolgiamo direttamente Akemi?”
“E’ fuori discussione.” La donnona bionda si mise a braccia conserte, un gesto dichiaratamente difensivo. “Gli scienziati non possono uscire dalla nostra base.”
“Ed invece la trovo un’ottima idea.” Un’altra voce soverchiò tutte le altre e d’improvviso, senza alcun tipo di preavviso, comparve sullo stipite della porta, la figura magra e longilinea di Akemi Miyano, completamente a suo agio nel suo morbido camice bianco. “So che non è carino origliare, ma in questo momento voi siete proprio nel mio laboratorio.” Sorrise debolmente. Notò subito la presenza di Gin, che, come si sarebbe aspettata, aveva preso a fissarla intensamente con lo sguardo del predatore: evitò gli occhi dell’uomo ma si mantenne ferma sulla donna bionda.
“E’ rischioso. Lo sai?”
Akemi annuì. “Dal momento che sono io la responsabile del progetto, ritengo opportuna la mia partecipazione diretta alle operazioni.” Sino a quel momento aveva cercato di non guardare Gin, ma non appena ebbe pronunciato quella frase, si sentì la risata colma di scherno provenire propria dalla bocca di quell’assassino.
“Ci rallenteresti soltanto. Ma se ci tieni tanto potremmo anche fare un’eccezione.”
Vermouth ci pensò su per qualche secondo: “E va bene. Portate anche Akemi.”
La scienziata fece il suo ingresso definitivo nel laboratorio e prese posto di fronte ad una centrifuga per la separazione dei costituenti delle soluzioni. “Quando sarà ora di andare al centro di ricerche venitemi a trovare qui.” Concluse lei, risoluta.
Gin osservò il profilo di Akemi, delineato dalla linea dritta del camice bianco: non era cattiveria, la sua. Si trattava di pura deformazione professionale. E’ quella spasmodica curiosità e quell’ebbrezza terribile, che fanno sprofondare nel baratro anche lo scienziato più serio e ligio ai principi morali. Prima o poi, tutti i migliori facevano quella fine: attratti maledettamente dal proibito, e distrutti fatalmente dalla loro stessa, eccezionale creazione.





L’organizzazione preferiva colpire nel bel mezzo di una notte fredda e anche quella volta, gli uomini in nero non abbandonarono la loro abitudinaria modalità operativa.
L’automobile di Gin era parcheggiata qualche chilometro fuori città, in una distesa ove era possibile scorgere una vegetazione molto fitta ed intricata: le strade asfaltate si erano rapidamente trasformate in delle lingue sabbiose prive di contorni definiti, mentre la moltitudine delle villette aveva preso a digradare sempre più. Il centro di ricerca, infatti, sorgeva in una zona ampia, spaziosa, ma lontana da occhi indiscreti. Nel bel mezzo di una landa desolata e buia, Akemi, Gin e Kirsch intravidero la struttura delinearsi gradualmente. Erano edifici grigi e dall’aria vagamente futuristica, inseriti all’interno di un inquietante perimetro in filo spinato: fra il tessuto metallico dell’intelaiatura pendevano numerosi cartelli di pericolo, accompagnati da frasi realizzate in caratteri cubitali e scheletri che presagivano morte. Gin aveva lasciato la Porsche a qualche metro di distanza, preferendo piuttosto il percorso a piedi.
Nonostante fosse notte, e nonostante le attività di ricerche fossero ferme, alcune guardie stavano effettuando il loro classico giro di ronda. Le loro teste ciondolavano a destra e a sinistra; probabilmente il peso delle armi imbracciate ed il freddo che penetrava loro nelle carni, non doveva essere piacevole, tutt’altro. Erano stanchi. E questo Gin e Kirsch, non mancarono di notarlo.
Il biondo fece scivolare il mozzicone della sigaretta in terra ed impugnò la pistola. “Kirsch.” Il suo sguardo ghiacciato si posò fra le iridi tremolanti della ragazza. “Tu posizionerai gli ordigni sul lato retrostante e nelle condutture più profonde, nei sotterranei. Dovrebbe esserci il pannello comandi o la sala dove è centralizzata la corrente elettrica. Se piazzerai una bomba lì dentro, sarà più facile innescare una reazione a catena. Io e Akemi procediamo verso i laboratori.”
La dottoressa Miyano aveva il capo chino, le ciocche scure dei suoi splendidi capelli lunghi ondeggiavano a tratti per colpa del vento, e proprio al di sotto delle palpebre, gli occhi si stavano riempiendo di lacrime calde: una, piccola e furtiva, le rigò il viso, divenendo così, immediatamente fredda. Le guance erano rosse e pulsanti per via della tensione: a dirla tutta, Akemi aveva paura di quel che avrebbe visto lì dentro, perché una simile visione, ne era certa, non sarebbe stata dissimile da quel che l’aspettava. In quel centro di ricerca, lei avrebbe ritrovato il proprio destino. Un brutto presentimento l’aveva completamente bloccata. Quasi come di scatto, la mano dell’uomo biondo si serrò intorno al suo collo e risalì con violenza contro il mento: si ritrovò col volto reclinato all’indietro, e con gli occhi dritti in quelli cinici di Gin.
“Si può sapere che hai? Muoviamoci. E’ già un peso averti fra i piedi. Datti una mossa.”
Kirsch aveva già percorso una decina di metri e si era inoltrata fra la fitta vegetazione ormai scura come la pece per via dell’oscurità della notte.
Il biondo avvertì con fastidio, che le sue labbra erano secche e riarse; dovette leccarsele piano per poterne riacquisire la giusta percezione. La mano si strinse ancora al calcio della pistola, poi si sfilò dalla tasca dell’impermeabile, il silenziatore. Lo ruotò attorno alla canna dell’arma e la puntò in direzione della prima guardia per controllare che la mira fosse ben calibrata: un ulteriore sguardo gli permise di scorgere le posizioni delle sentinelle. Sul lato della principale porta d’ingresso v’erano delle guardie e decise che avrebbe fatto fuori semplicemente quelle quattro.
“Non fare passi falsi, qualsiasi cosa succeda rimani dietro di me.”
Akemi colse quell’ammonizione come un commento sarcastico e le parve piuttosto strano perché una frase simile, in un altro contesto, l’avrebbe addirittura confortata. Non ebbe neanche il tempo per pensare, che vide l’uomo sollevare il braccio per sparare il suo primo colpo. Seguì il percorso della pallottola e qualche secondo dopo il corpo della guardia crollò giù come un sacco dapprima ricolmo di farina e poi improvvisamente vuotato del proprio contenuto. Il suo cuore ebbe un sussulto non appena la mano di Gin si strinse intorno al suo polso: Akemi venne sbalzata dalla sua posizione e costretta a correre verso il filo spinato: quest’ultimo sfrigolava incessantemente e fu allora che la ragazza comprese il motivo di quegli innumerevoli cartelli affissi lì vicino. Erano fili elettrificati. Che orrore.
Una sentinella si volse e vide chiaramente la massa di capelli platinati ondeggiare a pochi passi da lui, ma fu troppo tardi perché quelle sue grida d’aiuto potessero fuoriuscire dall’epiglottide: il respiro gli si mozzò in gola ed un fiotto di sangue gli schizzò dalla tempia.
“Vai a vedere se ha una tessera.” La voce di Gin risuonò pacata e dal tono basso. Stava ordinando ad Akemi di frugare nelle tasche di un cadavere bello fresco.
“Non mi starai chiedendo di …?” La ragazzina rabbrividì nel ritrovarsi quegli occhi piantati su di lei: erano più eloquenti di qualsiasi altro tipo di ordine. “Va bene.”
“Sbrigati.” Gin strinse i denti e si avvicinò con cautela al dispositivo di lettura delle tessere magnetiche, posto proprio al fianco della porticina metallica che sbucava chissà dove. Le sue dita erano percorse dal brivido adrenalinico che solo la morte sapeva regalargli: nulla, in vita, era così eccitante ed al contempo, entusiasmante, che avere il pieno di controllo sulla vita delle persone. Il suo sangue pulsava di endorfine, non poteva nasconderlo. Non a se stesso. Sorrise a mezza bocca ed osservò il corpo di Akemi flettersi a terra: le sue manine rovistavano nei tasconi della guardia con un timore ed una premura ridicole. “Guarda che è morto.” Sibilò, colmo di sarcasmo.
La scienziata si sollevò da terra e in un improvviso impeto di rabbia gli scaraventò fra le dita quella fottuta tessera magnetica. “Io nutro del rispetto per le persone, al contrario di qualcuno qui presente.”
Gin osservò la scheda. “Come sta la tua piccola sorellina?”
Akemi deglutì: un piccolo bolo di saliva cercava di farsi strada lungo la faringe, trovando l’ostacolo della sua subitanea agitazione. “Cosa c’entra, ora?”
“Era per ammazzare il tempo.” Gin spinse la maniglia della porta ed il piccolo spicchio di ambiente che andava diradandosi mostrò ad entrambi un lungo corridoio illuminato soltanto da una luce lattea proveniente dal pavimento. La sua battuta gli piacque, per la strana analogia con quel che aveva appena compiuto poc’anzi.
“In realtà la stanno spedendo in America per continuare gli studi.”
“Magari si troverà più a suo agio, lontana da una sorella così eccessivamente premurosa e maestrina.” Rise sommessamente e nel frattempo compì i primi passi sul pavimento lastricato, completamente bianco e quasi trasparente: al di sotto si osservava un fitto intreccio di cavi colorati e circuiti. Akemi lasciò che quella conversazione morisse lì, e la sua attenzione fu fortunatamente rapita dall’ambiente così cupo e silenzioso.
“Credo che non si aspettino visite.” Gin avanzò ancora e si guardò intorno: un numero elevato di porte dava su quell’unico corridoio, e non aveva la più pallida idea di come ispezionare tutti quei luoghi e quelle stanze. Azionò la ricetrasmittente per potersi mettere in contatto con Kirsch.
“Dove sei?” Sussurrò il biondo. La risposta tardò ad arrivare, ma fu accompagnata come da uno strano crepitio.
“Sono fuori: sto mettendo il primo carico di C4. Voi?”
“Siamo dentro, ma è un labirinto, qui.”
“La zona era oscurata dal satellite, mi dispiace. Comunque i laboratori dovrebbero essere nei sotterranei.”
Akemi stava osservando ancora il pavimento, dal quale si levava una strana scia luminosa: era assorta nei propri pensieri, quando istintivamente afferrò il braccio di Gin. “I laboratori sono nella parte sotterranea, si. Solitamente è sempre così.”
Il biondo chiuse la conversazione con Kirsch senza che la ragazzina potesse avere l’opportunità di parlare: fu subito interessato al tono concitato che mostrava Akemi. Sembrava aver compiuto una scoperta a dir poco sensazionale. Continuò: “Anche da noi, abbiamo bisogno di materiale inorganico per svolgere determinati esperimenti, e quel tipo di materiale è contenuto in delle grandi cisterne. Ci sono degli enormi bomboloni che contengono questi elementi altrimenti presenti sottoforma di gas nell’atmosfera.”
“Dovremmo andare nei sotterranei?”
“Ci dev’essere un ascensore qui dentro. Basta trovarlo.”
Il biondo allungò il proprio sguardo e continuò a camminare: gli bastò svoltare l’angolo per scoprire la presenza di un ascensore: la pulsantiera sulla destra era grande, un bottone verde diffondeva un alone luminoso del medesimo colore. Il lungo corridoio parve ad entrambi ancor più ampio di quanto non lo fosse realmente. Non appena furono di fronte alle porte metalliche, Gin premette il tasto alla propria destra e si mise in attesa. “Santo cielo, avrei proprio voglia di una sigaretta.”
Akemi lo osservò: c’erano momenti in cui non gli sembrava così cattivo come voleva far credere, ma alla fine si convinse che probabilmente quella era tutta apparenza; probabilmente quella che indossava era una maschera, una bellissima maschera completamente sprecata e rovinata da quei due occhi pieni di odio. Un sibilo metallico accompagnò l’apertura delle porte, così che sia Akemi che Gin, potessero entrare nell’ascensore. Ci furono altri istanti di silenzio, ma tacquero entrambi.
Gin si tenne premuto contro la parete laterale, ma non appena le porte si aprirono nuovamente, egli tentò di articolare una fugace e rapidissima avvisaglia, rendendosi conto, pochi secondi più tardi, di aver sbagliato totalmente i propri tempi.
Akemi si vide strappata da terra e sollevata di peso nel preciso istante in cui le sue suole ebbero varcata la soglia: due mani robuste le si arcuarono alla gola, mentre un braccio possente le avvolse l’addome in una presa da cui non avrebbe potuto liberarsi in alcun modo. Gridò, ma fu tutto inutile. Trascorsero pochissimi frammenti di secondo: la ragazza fu letteralmente scaraventata contro il muro: la schiena scivolò contro il muro e lei giurò di aver sentito addirittura il suono macabro delle sue ossa rompersi per via del violento impatto.
‘Maledizione’. Il biondo era ancora lì, nel punto cieco dell’ascensore: la sua mano era stretta al calcio della pistola, stava soltanto aspettando il momento giusto per uscire allo scoperto e piantare un paio delle sue pallottole nel cranio di quegli idioti. Contò mentalmente fino a tre, poi si sporse con uno scatto: istintivamente, la prima cosa che vide, fu il corpo della ragazza steso in terra, poi, immediatamente dietro la sua testa, un rivolo di sangue che corrompeva irrimediabilmente il bianco della parete. Successivamente, i suoi occhi si sollevarono sulle uniformi delle guardie. Tutto questo avvenne in un lasso di tempo molto breve.
“Sparategli! E’ l’intruso, sono quelli dell’Organizzazione!” Uno dei due loschi figuri evitò prontamente il colpo sparato dalla pistola di Gin, e con un balzo furioso si lanciò in un violento corpo a corpo col biondo: Gin ricevette un pugno in pieno volto, sferrato con veemenza e con la precisa intenzione di fracassare il naso dell’avversario. L’uomo in nero sentì il suo cappello scivolargli lungo la schiena, poi percepì un dolore lancinante proprio in mezzo agli occhi. La vista si offuscò quasi subito, ma fortunatamente riuscì a riprendersi con rapidità, anche per via dell’affronto subito. Parò l’avambraccio contro il collo della guardia e lo spinse indietro in un impeto di rabbia, poi, non appena quest’ultimo mostrò il primo segno di cedimento, Gin ebbe il tempo per riafferrarlo alla collottola, con uno strattone. Non si era dimenticato dell’altro soldato lì affianco, che nel frattempo, stava tirando un paio di calcioni alla ragazza: Akemi urlava, piangeva, si contorceva fra innumerevoli spasmi di dolore, fin quando uno sparo silenzioso non riecheggiò nella sua testolina: il suo aggressore cadde in terra con un foro appena fresco, proprio nel bel mezzo del cranio. Il cadavere giaceva a pochi centimetri da lei, era così vicino che la scienziata dovette tentare di retrocedere ancor di più, nonostante fosse già parata contro la parete: la schiena le faceva male, incredibilmente male. Dopo l’ennesimo tentativo di colluttazione, Gin pose fine alla miserabile vita di quella sentinella, il cui ingegno era da sempre stato sprecato per compiere quel lavoro così ignobile: l’ennesimo proiettile di piombo si fece largo nel torace dell’uomo. L’ennesimo morto.
Akemi fece leva sulle braccia indolenzite, ed improvvisamente le sue ossa emisero uno scricchiolio sinistro, macabro. Attraverso le sue palpebre smorte e stanche, intravide la figura di Gin che si chinava con nonchalance per poter riprendere il cappello caduto in terra: anche il suo volto era ricoperto da sottili rivoli di sangue, ma pareva non curarsene affatto.
Soltanto più tardi, diedero un’occhiata al corridoio: era differente da quello al piano superiore. Le pareti erano ugualmente bianche, ma i pavimenti erano di metallo, il soffitto disseminato di gigantesche condutture. Un fiotto di acqua passò proprio sopra alle loro teste.
“Sono i rifornimenti di materiale chimico. Siamo vicini ai laboratori.” Akemi si avvicinò ad una prima porta, poi vi appoggiò piano il capo in modo che l’orecchio potesse premere contro di essa. Nel silenzio, ella poté udire chiaramente delle urla, dei rantoli: non appartenevano alla specie umana, ma parevano piuttosto provenire dalle fauci di qualche strano animale. “Sento qualcosa qui dentro.”
Gin sospirò, seccato. “Entra e da’ un’occhiata. Io rimango qui a perlustrare la zona.”
 
 
 
La porta dietro di lei si richiuse piano, fino a quando anche il più piccolo spiraglio di luce non si fu spento. Quei suoni gutturali divennero sempre più acuti, ma ad essi se ne accavallarono degli altri, dannatamente intensi e terrificanti. Akemi sfiorò il muro con le dita e procedette a tentoni nella disperata ricerca di un interruttore: trovatolo, un bagliore luminoso si diffuse nella parte inferiore della stanza. Su tutto il perimetro più basso correvano delle luci al neon che gettavano la loro luce rossa. La ragazza decise di compiere i suoi primi, timidi passi. Era tutto così inquietante là dentro. Il pavimento risuonava ma un rumore più forte degli altri scatenò letteralmente il putiferio: si sentì un continuo sferragliamento, poi dei lamenti animaleschi provenire in fondo alla sala. Fu allora, che Akemi riuscì a scorgere il resto del laboratorio: in un’ala nascosta, decine di gabbie arrugginite erano ammassate le una sopra le altre ed in ognuna di esse albergava un animaletto diverso. Ratti, scimmie, conigli. Erano tutti terrorizzati, tutti con gli occhi riversati fuori dalle orbite, tutti spelacchiati e costretti da qualche cartellino. La scienziata si morse il labbro ed avanzò verso di loro: una piccola scimmietta se ne stava attaccata alle sbarre della gabbia, serrando le sue zampe e reclamando aiuto con i suoi occhioni pieni di lacrime. C’era un velo di tristezza che ricopriva quelle cavie costrette vigliaccamente al di là delle sbarre.
“Piccola, ma come ti hanno ridotta? Come?” In un flebile sussurro, Akemi sfiorò le lunghe dita della scimmietta ed in breve anche i suoi occhi si colmarono di lacrime: il suo pensiero corse immediatamente alla sua sorellina, Shiho. Non voleva che quella realtà divenisse il destino dell’unica persona a cui teneva di più al mondo. Non lo avrebbe permesso. Sua sorella non avrebbe dovuto sporcarsi le mani a quel modo.
Inaspettatamente, la scimmia si dimenò frenetica, i suoi occhi schizzavano sangue: la ragazza dovette ritirare la mano con prontezza, per evitare che quella cavia la mordesse. Dio solo sapeva quali esperimenti si tenevano in quel centro di ricerche. Fu quasi felice nel sapere che nel giro di pochi minuti quella struttura sarebbe saltata in aria. Però aveva paura, voleva salvare quelle piccole creature innocenti divenute vittime di un’inutile carneficina.
“Si può sapere che diavolo stai combinando?” Gin aveva fatto il suo ingresso nel laboratorio e Akemi constatò che la luce rossa non faceva che aumentare quell’inquietante gioco di ombre che aleggiavano sul volto del biondo, ancora macchiato di sangue. Lo vide avvicinarsi al tavolo centrale, poi pian piano, egli prese a rovistare fra le mille scartoffie lì presenti. “Smettila di frignare e vieni a dare un’occhiata. Non ti ho portata per fare la crocerossina.” Gin non staccò gli occhi da quei fascicoli, né tantomeno dalle proprie mani che scivolavano fra mille documenti.
Akemi strinse i denti nell’udire quelle parole cariche di sarcasmo: come diavolo faceva, un uomo, ad essere tanto crudele e spietato? I suoi passi divennero delle falcate nervose. Afferrò il tavolo con entrambe le mani e dovette trattenersi dal rovesciarlo in terra: gradualmente, le sue dita sottili presero a visionare il contenuto di quei fogli. C’erano tantissimi appunti sparsi qua e là, alcuni scritti a penna, altri a matita: fra le mille righe svettavano esagoni e strutture molecolari, equazioni di reazioni chimiche, reagenti e prodotti che lei non aveva mai visto in vita sua. Trapelava, da quelle righe, un fascino ambiguo, particolare.
Gin la osservava, silenziosamente.
“Credo che siano tutte formule di neurotossine. Stanno effettuando degli studi tossicologici sugli effetti di alcune strane sostanze chimiche. Non ho mai visto queste molecole prima d’ora. Sono modificate. Qualcuno qui, dev’essere esperto in ingegneria molecolare. Sanno come manipolare i composti. E questo vuol dire che sono finanziati in maniera piuttosto generosa. Porto tutti questi fogli.” Asserì lei con convinzione disarmante, talmente decisa che persino Gin se ne stupì.
“Tutti? Come faremo a portarli?”
Akemi aggirò il tavolo e cominciò ad aprire ogni singolo cassetto, ogni singolo armadietto, nella speranza di trovare qualche grande busta in cui inserire tutti quei documenti.
“Muoviti, Kirsch ha piazzato l’ultima carica.”
La ragazza non riusciva a togliersi dalla mente il musetto di quella scimmia, che, in un brevissimo istante, aveva abbandonato i suoi spasmi di follia per lasciarle, o per meglio dire, per regalarle, un ultimo, straziante sguardo. Doveva andare avanti, non poteva permettersi di morire. La posta in palio non era mai stata così preziosa.
Alcuni minuti più tardi, Akemi aveva riordinato tutte le proprie carte nella busta, prelevando assieme a quelle informazioni, molteplici campioni disseminati sui banconi del laboratorio. Stava facendo scivolare l’ultima provetta di plastica nella sacchetta, quando un tonfo non la fece letteralmente sobbalzare. Gin fece altrettanto ma non ebbe il tempo per potersi voltare: una pistola fredda gli premeva contro la schiena. Riuscì a ruotare soltanto il capo, appena in tempo per poter vedere il volto del suo aggressore: una poliziotta dai lunghi capelli neri e col berretto blu calato sulla fronte.
Il biondo rise sommessamente. “Ci mancavano solo i piedi piatti. Chi vi manda?” La canna della pistola si inoltrò quasi fra le sue vertebre.
“Taci, cane!” Urlò lei. “Ci manda la polizia, chi vuoi che ci mandi? Non prendermi per il culo.” Un altro agente entrò dalla porta alle loro spalle, stavolta puntando il suo fucile verso Akemi. Quest’ultima lasciò che la busta scivolasse a terra e non esitò a sollevare le braccia in alto, spaventata. Le parole le si erano bloccate nei pressi dell’epiglottide, sapeva che non avrebbe spiccicato una sola lettera. Per la prima volta da quando l’aveva incontrato, ella osservò il volto placido di Gin e si ritrovò istintivamente a frugare nei suoi occhioni verdi, anch’essi fissi in quelli di lei, nel vano e disperato tentativo di richiedere aiuto: se l’avessero portata in centrale, non avrebbe potuto aiutare Shiho a liberarsi di loro. Per la prima volta, Akemi Miyano si ritrovò costretta ad implorare l’aiuto di quell’assassino. Ma accadde tutto così in fretta …
Il biondo tentò di divincolarsi dalla presa, si sentì un colpo sordo vibrare nell’aria, poi conficcarsi nel muro: a quello sparo il tripudio di animali nelle gabbie cominciò ad agitarsi vertiginosamente, latrando e sputando, gemendo. Era l’inferno. Gli artigli di quelle bestie graffiavano contro le sbarre ed in quel caos, Akemi giurò di aver visto la poliziotta brandire un’enorme siringa pescata alla rinfusa in uno di quei cassetti: la scienziata era crollata a terra, con le ginocchia doloranti per via della caduta, ma questo non le impedì di sollevare il capo e di vedere come l’agente Kirara avesse piazzato l’ago nel collo morbido di Gin. La vista le si era offuscata, sarebbe svenuta di lì a poco.
Il biondo lottò con tutte le proprie forze, ma quando quella cannula affondò nella sua carne, egli sentì chiaramente il liquido penetrargli nelle vene e cominciare a scorrere assieme al suo sangue. Qualcosa si stava mescolando ai suoi globuli rossi. Fu impossibile provare ad opporre resistenza. L’ultima cosa che vide,fu il volto di quella poliziotta, fiera nello sfoggiare il suo sorrisino tronfio.
“Ti farò a pezzi, dolcezza.” Gli aveva sussurrato, Gin, prima di svenire.








Ok, ok. Questo è decisamente un tempo da bradipo.
Ma son successe tante cose, specialmente dal punto di vista MEDICO-SALUTARE che mi hanno angosciata e non mi hanno permesso di scrivere. Davvero. 
Mi dispiace, scusateeeeeeeeeeeeeeee se non ho aggiornato, mi sento talmente arrugginita ora a scrivere ç_ç aiuto ç_ç spero che continuerete a seguirmi, nel bene e anche nel male. Anche perché qui la storia si complica veramente molto. 
In compenso, credo di aver scritto davvero un bel capitolo lungo, spero che vi sia piaciuto. 
L'università procede benissimo, l'ambiente è meraviglioso ed ho trovato davvero il mio futuro. 
Un abbraccio a tutti, from la pazza...



Aya_Brea
  
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