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Autore: _MoonShine_    26/11/2012    5 recensioni
Due ragazze, due amiche, due mani che si intrecciano.
Quando la paura prevarrà sul coraggio, quando le nuvole oscureranno la luce, quando il destino chiederà la tua parte, sarà in quel momento che avrai il bisogno di stringere la sua mano.
Ma se una principessa senza un regno ti domanda aiuto, se dentro di te nasce un potere straordinario, se non puoi più fidarti di nessuno, se l’amore della tua vita ti volta le spalle e se ti ritrovi ad amare il tuo peggior nemico, allora basterà stringere quella mano?
Questo Fine e Rein lo dovranno scoprire superando gli ostacoli delle tenebre e del loro cuore, sconfiggendo l’oscurità per tornare a casa insieme. Con una chiave, una spada, sette pietre e due sole parole che le porteranno all’inizio di una grande e magica avventura.
-Carnil, Luinil-
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fine, Rein
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO
 

Quando arrivai a Elbereth avevo solo dieci anni. Io e mia madre traslocavamo da villaggio in villaggio molto spesso. Lei era un’abile cuoca, ma si sa, quando l’economia in un paesino cala si perde il lavoro. Iniziammo questo girovagare poco dopo la mia nascita, i miei genitori non erano mai andati d’accordo stando a quello che diceva mamma, lui era un uomo terribile. Mi raccontava di quanto fosse falso e calcolatore, di come la trattava, la tradiva sempre. Mia madre non poteva sentirlo nemmeno per nome, era per questo che io avevo ereditato il cognome da lei. Fine Nar Caranthir, così mi chiamò mia madre, non voleva nemmeno saperne che io avessi qualcosa a che fare con mio padre, neanche una lettera.
Nar Caranthir, mi è sempre piaciuto tutto sommato, significa “sole dal volto rosso”, ne sono sempre andata fiera, in qualche modo rappresentava sia caratterialmente sia esteticamente me e mia madre. Chissà se anche il capostipite dei Nar Caranthir aveva i capelli rossi come i nostri e aveva preso spunto proprio da questi per il suo cognome.
Mamma non mi aveva mai nascosto nulla, fin da quando ero piccola mi parlava di papà, lei aveva deciso di chiudere ogni rapporto con quell’uomo che considerava come una bestia, lo odiava, al solo nominarlo si innervosiva rovinandosi la giornata. Solamente una volta mi disse il suo nome, poi non lo pronunciò più. Thilgon, era così che si chiamava. Lo avevo sempre considerato un nome strano ma in un certo senso affascinante, anche se ogni volta che accennavo alla mia opinione, mia madre malediva il suo nome allungandolo con qualche insulto poco delicato. Non so come abbia potuto amarlo se poi ci trovava così tanto gusto a parlare male di lui.
Nonostante ciò, mi aveva sempre detto che se avesse avuto la possibilità di tornare indietro nel tempo avrebbe rifatto le stesse esatte cose. Perché alla fine, dall’unione con quell’uomo ero nata io. Diceva sempre che ero il suo sole, la sua vita. E io cercavo sempre di non deluderla, di riempire le sue giornate di gioia cercando, oltre all’amore di una figlia, di sostituire anche l’affetto di un uomo. E lei faceva di tutto per non farmi sentire la mancanza di un padre. Ma sinceramente non avevo mai avuto bisogno di una figura paterna in questi quindici anni e credo che non ne avrò bisogno mai. In fondo a cosa serve un padre se hai una madre magnifica che si impegna in tutti i modi per renderti la vita la migliore di tutte pur non essendo ne nobile ne impercettibilmente benestante? Io e lei eravamo ognuna la vita dell’altra, eravamo sempre state insieme e io le dicevo tutto, non c’era una punta di un capello che lei non conoscesse di me. Avevamo sempre fatto le cose assieme, sempre e in ogni villaggio in cui avevamo vissuto.
Mia madre in ogni posto in cui ci stabilivamo apriva sempre una piccola bottega dove cucinava i suoi dolci speciali e preparava il pane, era un’ottima cuoca e per mia fortuna potevo sempre mangiare ciò che volevo e quando volevo, certo anche se a volte quando mangiavo di nascosto qualcosa della sua bottega se ne usciva sempre con una ramanzina mica male. Ma tutte quelle locande erano state poi destinate a chiudere.
Anche quando venimmo ad abitare qui ero certa che in pochi mesi avremmo cambiato di nuovo villaggio, soprattutto perché Elbereth era un ammasso di casette con circa duecento abitanti, forse meno, nella valle di Narwain, detta anche “Valle del Nuovo Sole”. Era isolato dal resto del mondo, circondato da boschi, valli e monti, poco più a est c’era la costa di un immenso oceano blu.
Mi era piaciuto subito, era accogliente e molto tranquillo, ci si conosceva tutti, e ognuno si dava da fare per mantenere la quiete e il benessere nel villaggio. Non aveva mura attorno, era a pieno contatto con la natura che lo circondava.
Le case erano tutte di legno e di mattoni, molto curate e colorate con fiori selvatici. Non avevano più di tre piani compresa la soffitta, l’edificio più alto era la biblioteca. I tetti si scorgevano da lontano, erano di tegole rossicce sbiadite ma abbastanza visibili, mentre i muri ben puliti di ogni tinta di bianco e grigio, con accurate rifiniture in legno.
Le strade erano in pietra, i gradini delle piccole scale nelle vie in salita per via del rilievo su cui sorgeva il villaggio non erano del tutto regolari, ma molto ben fatti con pietre di ogni genere.
Nella piazza principale c’erano diverse botteghe, una per ogni specialità. Tutti conoscevamo l’artigiano di ogni cosa, per esempio, all’angolo con la via che portava verso la Biblioteca c’era la bottega del fabbro Mich. Invece esattamente alla destra del centro della piazza si ergeva il panificio della signora Helen, una donna molto dolce e gentile, teneva sempre i capelli grigi in un basso shignon come una brava nonna. Ogni volta che andavo da lei mi regalava sempre una pagnotta in più. Accanto c’era invece il calzolaio e a seguire la pasticceria di mia madre. E così via, si susseguivano tutti i negozi del villaggio, molti anche nascosti tra le vie più piccole, come quello del falegname, il signor Dival.
Appena mia madre aprì la sua locandina le dissi di non affezionarsi troppo, tutte le volte che dovevamo lasciare un villaggio lei si faceva sempre lunghissimi pianti per il dispiacere di abbandonare la bottega. Ma questa volta sembrava non voler accadere una cosa simile. Imparammo a vivere lì a Elbereth, ci trovammo bene, molto bene. Inizialmente cercavo di non legarmi troppo alla gente e ai posti più belli di quel villaggio, ma alla fine cedetti: le cose andavano alla grande e sembrava non essere necessario cambiare luogo dove vivere.
Passarono cinque anni, il periodo più lungo che io abbia passato in un posto solo. Ma la cosa non mi dispiaceva per niente, consideravo Elbereth il villaggio migliore che avevamo abitato, e anche la gente era fantastica.
Mamma mi aveva iscritta alla scuola del villaggio, avevo fatto subito amicizia con tutti, i ragazzi erano persone per bene, anche se a volte il gruppo più allegro e dispettoso si divertiva a indispettire la vecchia  megera del villaggio che non mancava mai. E sì, in quel gruppo c’ero anche io. Mamma considerava la signora Hildegard una povera nonnina vedova, che non avendo più l’affetto dei suoi cari si divertiva a fare la pettegola con le altre anziane del villaggio, io invece ho sempre creduto che fosse solo una donna con un pessimo senso dell’ironia.
Anche mia madre conosceva ormai tutti nel villaggio. E posso dire con soddisfazione che era amata da tutti, sia per il suo carattere aperto e generoso, sia per la sua ottima capacità di cucinare prelibatezze di glassa, crema e quant’altro. Lei era felice, si vedeva che finalmente aveva trovato il posto e la vita che facevano per lei e io ero grata per questo. Anche se Elbereth non mi fosse piaciuto credo che non avrei mai avuto il coraggio di dirlo a mia madre, lei avrebbe messo da parte la sua felicità per farmi felice e cambiare ancora abitazione. Ricordo bene il giorno in cui a sei anni ce ne andammo da un villaggio perché ero convinta fosse infestato dai fantasmi. Dopo qualche giorno che ci eravamo stabilite nel “paese posseduto”, ero corsa verso una vetrina molto ricca di oggettini di ogni tipo. Il mio dito puntava verso un gruppo di pupazzi e i miei occhi fissavano al di là del vetro un folletto di peluche color indaco con uno strano copricapo e un mantellino scuro. Mamma era titubante, ma alla fine la obbligai ad entrare. Ricordo bene le sue parole: -Fine, è troppo caro- mi aveva liquidata uscendo per poi rientrare e tirarmi per una mano vedendo che non mi ero mossa.
Il giorno dopo andai da sola a fare un giro per la stessa via. Mi fermai a guardare il peluche e vidi al di là della vetrina il vecchio proprietario dalla particolare abbronzatura, se abbronzatura si poteva chiamare un verdognolo scolorito, farmi cenno di entrare con un dolce sorriso. E io, ingenuità di bambina, lo feci.
Gli dissi che mi piaceva quel peluche a forma di folletto blu, ma che era caro così non potevo comprarlo. Quell’uomo fece qualcosa che non mi sarei mai aspettata: me lo regalò. Disse che non c’era alcun bisogno di pagarlo perché era destinato a me, doveva essere mio amico. Io non avevo obbiettato, volevo quel pupazzo e così lo ringraziai milioni di volte ma senza mai dire “ no, non posso accettarlo”, in fondo ero solo una bambina.
Ma dopo quell’episodio convinsi mia madre a partire di nuovo: il giorno dopo che ricevetti quel peluche in quel grazioso negozio, l’edificio non c’era più. C’era un enorme spiazzo di terra vuoto nell’esatto punto dove sorgeva quella piccola bottega di artigianato, e la cosa non era umanamente possibile. Penso che fu il momento più terrificante della mia vita, un edificio di pietra con un simpatico proprietario dalle orecchie un po’ troppo allungate per essere normali, perché sì, le avevo notate, erano spariti nel nulla. O forse no, nessuno in quel villaggio ne avevano mai sentito parlare, non avevano mai visto nemmeno il suo negozio. Sostenevano che mi ero sbagliata. Ma io lo sapevo che quell’uomo e quel negozio erano veri, io ci ero entrata. Così mi arresi alla credenza che dei fantasmi avessero rapito l’uomo con la bottega intera. Poi ipotizzai che quell’uomo era lui stesso un fantasma.
Lì, mia madre, vedendomi terrorizzata e incapace di uscire di casa, decise di partire ancora, ero grata alla mamma per questo, il dubbio e lo spavento non mi erano ancora spariti. Restava il fatto che da quel giorno, Fil, il folletto di peluche, rimase sempre con me, era il mio oggetto preferito, il mio amico a cui potevo dire tutto quando mamma non c’era. Anche ora è sulla mensola sopra la mia scrivania, pronto ad ascoltare ogni cosa che io abbia da dire.
Qui a Elbereth per mia gioia non incontrai nessun fantasma, almeno non in questi cinque anni. Ma una cosa strana c’era davvero: Rein Marillie Gaerys.
Lei era una ragazza della mia classe, posso benissimo definirla la mia migliore amica. È una di quelle persone con cui ho legato subito appena arrivata, è stata la prima a condividere con me la sua merenda il primo giorno di scuola a dieci anni. Anche se poco, in questo lustro di tempo ha saputo tutto di me, credo abbia imparato a conoscermi fin troppo bene, che sappia più cose di me di quanto ne sappia la sottoscritta. Ma posso dire con orgoglio la stessa cosa, lei è un libro aperto per me. Conosco ogni sua abitudine, ogni suo gusto e ogni suo hobby. Dopo mia madre, è la persona che conosco meglio, non mi nasconde mai nulla, tutto quello che sa lei lo so anche io. Mia madre è sempre andata matta per quella ragazza, penso che abbia iniziato a considerarla come una sua seconda figlia dopo tutte quelle volte che Rein è stata a casa nostra. Non mi ha dato per nulla fastidio il loro rapporto, ero felice che mamma andasse d’accordo con i miei amici, ed ero anche contenta per Rein, sua madre morì quando aveva solo quattro anni, ma anche se non ha mai sentito la mancanza materna, credo che le faccia piacere avere una donna con cui ridere e che le prepari spesso i dolci, ma soprattutto che vada molto in simpatia con suo padre, Tolouse Marillie Gaerys. Lui è esattamente la copia di Rein, un brav’uomo, la cosa che mi piaceva più di lui erano i suoi occhi turchesi, come quelli di Rein. Lei come da tradizione prese il cognome da lui, significava “perla della schiuma di mare”, quel nome mi ricordava molto il color oceano dei loro capelli.
Mia mamma e suo padre avevano fatto amicizia subito, parlando inizialmente di noi per poi passare a qualsiasi argomento, anche il più futile. E questo perché si piacevano tanto, o almeno questo è ciò che continuammo a sostenere io e Rein. Molte volte avevamo cercato di combinare un appuntamento tra quei due finendo poi per ricevere un “Fatevi gli affari vostri”. Sia a me che a Rein non dispiaceva l’idea che quei due si mettessero insieme, non perché sentissimo il bisogno di avere quel genitore mancante che era il rispettivo dell’altra, ma perché si vedeva che andavano pazzi l’uno per l’altra, ma nessuno aveva il coraggio di fare il primo passo. E poi io e Rein saremmo potute diventare due specie di sorelle. Tutti nel villaggio sostenevano che Elza e Tolouse sarebbero stati una bella coppia, ma ahimè, credo che avrebbero dovuto aspettare ancora una decina d’anni prima di assistere al loro matrimonio o almeno alla prima dichiarazione.
Ma relazioni a parte, c’era una cosa davvero inquietante nel mio rapporto con Rein: lei aveva un peluche uguale al mio. Ero convinta di essermi lasciata alle spalle la faccenda del signore scomparso con la bottega, ma la prima volta che andai a casa della mia nuova amica credetti che la mia vita fosse stata segnata da una morte sicura a dieci anni. Eravamo bambine, all’inizio ci spaventammo, ma alla fine lo prendemmo come uno scherzo del destino che aveva voluto che ci incontrassimo. Il suo folletto di peluche era bianco, con un copricapo molto simile a quello del mio. Rein mi raccontò di averlo trovato davanti alla porta di casa sua quando compì sei anni, la stessa età che avevo io quando lo ricevetti. Non sapeva chi lo avesse messo lì o se fosse stato perso, anche se la cosa era poco plausibile.
Io le raccontai di come avevo avuto il mio, ma Rein non ebbe mai la mia stessa reazione, non credeva ai fantasmi, era molto più coraggiosa di me che potevo ritenermi la regina delle fifone. Già dopo qualche giorno però non ci pensammo più, anche se ogni volta che una andava a casa dell’altra a passare la notte si portava dietro il folletto, era una specie di usanza, per stare solo noi quattro. Anche lei faceva le stesse cose che facevo io con il mio folletto Fil, gli raccontava tutto come se fosse la sua coscienza. Il suo si chiamava Rin, era buffo come entrambe avevamo dato al rispettivo peluche un nome che ricordava i nostri.
Eravamo coscienti che fossero solo pupazzi, ma nonostante ciò rimanevano i nostri fedeli compagni anche ora a quindici anni, i nostri piccoli tesori che all’infuori di mia madre e suo padre nessuno aveva mai visto.


Prossimo capitolo: Dreams ~ Sogni






Prologo dedicato ad Alice, gliel'ho promesso ^^
Ok, ora vi starete chiedendo per quale assurdo motivo arrivo io bella tranquilla con una nuova storia. Beh mi è venuta di colpo l'ispirazione! E poi The Damned Kiss ormai è quasi al termine, due o tre capitoli massimo, quindi mi dedicheò a My sky, your World che la devo finire e a questa.
Inizio con il dire che sono consapevolissima che questa storia magari non avrà un successone perchè è incentrata su Fine e Rein e non sull'amore, però spero che vi piaccia. Ci tenevo tanto a fare una storia così, le vere protagoniste sono loro e non quel bell'imbusto di Shade che le fa litigare!
E' un fantasy, e l'argomento principale sono le avventure delle due ragazze. Poi ovviamente ci saranno i due fighetti, sicuro, ma non subitissimo.
So che sono noiosa ma volevo dire una cosa: il villaggio che ho descritto me lo immagino simile a quello di Fairy Oak (ma voglio precisare che la storia non c'entra assolutamente nulla con quella saga), e che il modo di vestire è sempre tipo quello di Fairy Oak, ma anche un po' tirolese.. non so se avete presente. Scuste, ma io se so tutti i particolari mi immedesimo meglio nella storia xD
Beh, credo di aver finito. Non so quando potrò aggiornare. Magari prima mi impegno a finire The Damned Kiss, così poi ho una fic in meno.
Spero di avervi un po' incuriosite, ditemi i vostri pareri, tutto, consigli, critiche, quello che volete! ;)
Buona serata 
Ross
 

  
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