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Autore: PaleMagnolia    02/12/2012    3 recensioni
Alternative Universe. Belle non ha mai capito veramente la natura dell'amicizia fra suo padre Moe, gioviale e alla mano, e l'elegante, ambiguo, tagliente Mr. Gold. Mr. Gold, che indossa completi inglesi su misura e cammina con un bastone, Mr. Gold che ha tre volte la sua età e nasconde più di un segreto in quel suo bizzarro, affascinante negozio. Belle ne è stranamente attratta - ma chi è, lui, veramente? Perché tutti - da Leroy al dottor Hopper - cercano di metterla in guardia da lui, e perché lei stessa ha l'impressione che le nasconda qualcosa? E poi, cosa diavolo sta succedendo a Storybrooke, ultimamente?
Genere: Generale, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Regina Mills, Signor Gold/Tremotino, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Questo è probabilmente il capitolo più emozionale che io abbia scritto finora: spero di averlo reso per lo meno decentemente, perché io e le emozioni non andiamo sempre d'accordissimo, e, sì, insomma, non so. :)
Il Gold di questo capitolo si comporta come il Rumpelstiltskin pre-Dark-One, perché lo dico io perché, beh, è quello che mi aspetto che faccia nel rapportarsi a Belle: anche in Skin Deep, il Rumple che vediamo è più simile al suo essere pre-Oscuro; probabilmente l'influenza di Belle lo rende più emotivo, o gli ricorda ciò che era prima di diventare il 'mostro' in cui il potere l'ha trasformato (cioè il povero tenero patetico adorabile triste omuncolo che amava moglie e figlio con tutto il cuore e finisce per perderli entrambi).

O qualcosa del genere.

Beh, insomma, bando alle ciance, beccatevi il capitolo e poche balle.

(Vi voglio tanto bene, lettori)

 

 

 

We've got forever 
Slipping through our hands 
We've got more time 
To never understand

 
The Glitch Mob, The Shortest Distance

 
 
"Sì" Il viso di Gold si contorse. "Sì… . Sono io. Sono io, Belle.”
Belle quasi non riusciva a sopportare la vista del suo volto così straziato: i suoi lineamenti erano distorti in un’espressione che era doloroso persino guardare, speranzosa e tormentata al tempo stesso.
Gold si premette la mano sul petto, all’altezza del cuore, e artigliò il maglione in un gesto convulso. «Oh, sì, sono io, sono io, Rumpelstiltskin!"
Belle lo fissò con sguardo assente. "Sì", sussurrò, infine, dopo una lunga pausa. "Sì, lo so."
Gli occhi di Gold brillavano di lacrime. "Davvero?" Cercò di sorridere. "Davvero mi riconosci? Ti ricordi di me? Belle, Belle - oh, cara, mia cara, Belle, Belle, tesoro... "La sua bocca era dolorosamente contratta; tese una mano come per sfiorarle il viso, ma non lo fece. "Oh, ma tu devi  essere così confusa, così confusa… Belle, tesoro - non era così che doveva andare, avevo pianificato tutto, volevo...” Il braccio gli ricadde lungo il fianco. “Oh, ma guardami. Guarda che razza di sciocco, vecchio patetico sono, a pensare di poter programmare tutto questo…", disse. Cercò di sorridere ancora una volta; la sua voce era quasi irriconoscibile, distorta dall'emozione.
Poi, d’un tratto, si mise a piangere come un bambino. Belle non potè fare altro che guardarlo, le lacrime che gli scorrevano lungo le guance.
"Oh, mi dispiace così tanto, così tanto, Belle, mi dispiace per - per tutto, per tutto quanto. Mi dispiace, mi dispiace."
Alzò la mano per la seconda volta e le accarezzò la guancia, esitante. "Avevi ragione, sai... sul fatto di lasciarti andare via. Me ne sono pentito - oh, Dio, non sai quanto - proprio come avevi detto tu. Ero così solo – e sono stato così solo - da allora. E mi dispiace tanto, Belle, mi dispiace, se solo tu potessi capire, se solo potessi farti vedere quanto disperatamente mi dispiace ... "
Gli occhi di Belle erano ancora spalancati, l’espressione remota. "Lo so.” disse piano, in un tono strano, distante.
"Oh, davvero, davvero?" Gold la fissò con un’espressione di dolorosa speranza negli occhi... ma si rese conto che qualcosa non andava. Ritirò la mano.
"Belle? Sei - stai bene? Sei… sei arrabbiata, o... "
 "No... no, non sono arrabbiata... non credo" Aggrottò la fronte: aveva un’aria stordita, come se fosse stata ubriaca, o drogata, o sotto shock. "Ma io… io penso… forse che è meglio che vada, ora. Io non... non è... non posso – non posso restare. Mi dispiace. Io… devo andare via.", aggiunse, rapidamente (troppo rapidamente), nello stesso tono distratto, e poi si voltò e si diresse verso la porta. Stringeva ancora la tazzina fra le mani.
Il cuore di Gold ebbe uno spasmo. No, pensò. No, no, no…
"Belle?", chiamò, con voce malferma. "Belle? Belle, oh, no, no no no, non andare, ti prego, oh, ti prego, ti prego... mi dispiace, io... per favore, ti prego, non…"
Belle aprì la porta (la campanella tintinnò dolcemente come a confermare la sua decisione) e uscì dal negozio.
"... Belle?" Gold si sentiva male, come se stesse per vomitare. Fissò incredulo la porta che si chiudeva dietro di lei. "No" sussurrò. "No, no, no, no, no, no, no, no...."

L'ho persa, pensò. Di nuovo.

Com’è successo? Come è potuto succedere?
E poi, capì – o almeno, credette di aver capito.
Regina aveva ragione: Belle lo odiava. Non l’aveva perdonato per quello che aveva fatto.
Non l’avrebbe mai perdonato.
Gold gettò la testa all’indietro e gridò, un grido basso, rauco, disumano. Non ricordava l’ultima volta che aveva provato una disperazione così totale, così terribile – anzi, no.
La ricordava.
Era stato quando aveva visto Baelfire svanire nel portale creato dal fagiolo magico della fata, e la terra richiudersi su di lui senza speranza, separandolo da suo figlio per sempre.
Allora, non aveva saputo cosa fare: era successo tutto così in fretta… ma questa volta aveva avuto ventotto anni - ventotto anni! - a disposizione. Aveva avuto tutto il tempo che serviva, aveva avuto un’eternità per far sì che lei potesse conoscerlo, per far sì che potesse amarlo... tutto questo tempo, e l’aveva sprecato.
Ma, oh – avrebbe potuto avere cento anni, per quel che valeva, un milione di anni… e non sarebbe stato sufficiente. Perché quella era la prova finale – lui non poteva fare in modo che qualcuno lo amasse. Nemmeno avendo tutto il tempo del mondo.

Stupido. Sono solo un povero, stupido, patetico illuso.

Gli anni potevano scorrere come sabbia in una clessidra - interi regni potevano sorgere e cadere, i mondi potevano girare intorno ai loro soli, e le stelle potevano raffreddarsi e morire. Universi potevano contrarsi su se stessi e svanire, e lui non avrebbe comunque trovato nessuno, nessuno disposto ad amarlo.
In trecento anni, aveva amato due persone, e se le era lasciate scivolare fra le dita, entrambe. In trecento anni, non aveva imparato nulla.
Perché - semplicemente, proprio come aveva detto a Belle – nessuno, mai, avrebbe potuto amare qualcuno come lui.
 "Avevi ragione, Regina.” disse, in un roco sussurro. “Non sono migliore di te. Sono un mostro. Lo sono sempre stato. Lo sarò sempre."
Gold gridò di nuovo, stavolta con rabbia, con la furia della disperazione, poi afferrò il suo bastone e usandone il manico colpì la vetrinetta con l'uovo Fabergé, mandandola a ridursi in frantumi sul pavimento con un terribile schianto; poi colpì un altro espositore di vetro, e poi un altro, e un altro, scagliando intorno schegge di vetro e frammenti di porcellana, riducendo il negozio in un ammasso caotico di soprammobili distrutti e bottiglie e lampade e piatti in frantumi.
Preso dal suo furore, poggiò, senza rendersene conto, una mano sul telaio di una vetrina distrutta; una scheggia di vetro gli si piantò nella carne e tagliò una ferita profonda e frastagliata sul palmo. Gold urlò di rabbia e di dolore, ritrasse la mano e fissò il sangue sgorgare dalla ferita: come in trance, si passò la mano sul petto, lasciando una larga traccia rosso cupo sul maglione. Il bastone gli cadde di mano e il suo respiro affannoso si trasformò in singhiozzi.

Tutto quello che ho amato, l'ho perso.
E non una volta soltanto, ma ancora e ancora.

Si lasciò scivolare a terra, tra le schegge di vetro, le spalle sussultanti, piangendo senza ritegno.
Non gi era rimasto più niente.
Era davvero, davvero un mostro.
Ed era di nuovo solo. Solo, ancora una volta, e per sempre.

...
 
Belle lasciò il negozio in uno stato mentale di completa, assoluta, paralizzante confusione. Non sapeva cosa fare. Era successo tutto così in fretta, ed era stato così strano, così spaventoso. Non sapeva più chi fosse, non sapeva più chi fossero le persone che conosceva…
Per un momento, nel negozio, aveva sentito il disperato, doloroso desiderio di gettare le braccia intorno al collo di Gold e di baciarlo, baciare quel viso straziato e contorto e alleviare il suo terribile dolore, poggiargli la testa sul petto dicendogli che lo amava, che era tutto perdonato, tutto – solo che… quell’uomo, quella persona dal volto contratto che le stava davanti non era davvero Gold, giusto? Non era l'uomo che conosceva – o, almeno, l’uomo che pensava di conoscere. Era Rumpelstiltskin: un altro uomo che un tempo aveva amato, sì – molto tempo fa.
O, almeno, una parte di lui lo era.
Perché, per un attimo, in quel negozio c’erano stati entrambi, Mr. Gold e Rumpelstiltskin, due persone diverse in una, ed era tutto così strano, così assurdo, così incredibile...
Perché quello che aveva lasciato nel negozio era, sì, il signor Gold: l'uomo che era stato una costante nella sua vita, che l’aveva sempre trattata con infinita gentilezza, l’uomo elegante ed enigmatico per cui aveva sempre avuto un debole.
L'uomo che aveva imparato a conoscere e ad amare.
Ed era anche Rumpekstiltskin, il Signore Oscuro: l’inquietante, l’eccentrico, triste folletto con la pelle squamosa e gli occhi grandi, che l’aveva portata via dalla sua famiglia ei suoi amici e la teneva chiusa in una cella. La strana creatura solitaria con la risata grottesca e malinconica. Un altro uomo che aveva imparato ad amare, in un modo diverso, in un mondo diverso.
Sì, li amava entrambi - con la stessa intensità - ma non erano la stessa persona, e lei doveva prima capire chi era, cos’era.
Proprio come lei.
Perché - chi era, davvero lei? L’ingenua adolescente che avrebbe dovuto frequentare il liceo - o la principessa di sangue consapevole del suo rango e di ciò che comportava, che non aveva paura dei propri doveri, che era pronta sia a sposare un uomo che non amava, sia a sacrificare la sua stessa libertà, per sempre, per il bene del suo paese?
E chi era suo padre? Un re? O il fioraio sull’orlo del fallimento di una cittadina di provincia?
Chi era lei, se tutti i suoi ricordi erano falsi, se la sua infanzia, la sua intera vita, non era stata che un’illusione? Perché, in questa realtà, lei non era mai stata bambina; non si era mai seduta sulle ginocchia di Gold come tutti continuavano a ripeterle, non era mai davvero andata a scuola – tutto quello che aveva fatto era stato frequentare la stessa classe delle superiori anno dopo anno dopo anno: tutto quello che aveva fatto era stato ripetere gli stessi atti ancora e ancora e ancora, per ventotto anni.
Quando la maledizione aveva colpito, tutti erano stati trasportati dal loro mondo a questo, e per ventotto anni – ventotto anni - erano rimasti immutati, uguali a se stessi, senza mai crescere, senza mai invecchiare - dimenticandosene un giorno dopo l’altro, non ricordando che quello che Regina concedeva loro di ricordare. Tutti i loro ricordi erano un inganno, la loro vita una commedia nel quale tutti erano al tempo stesso attori e spettatori, una sciarada al contrario il cui scopo era di non arrivare, mai, alla soluzione.

Ventotto anni.

Ventotto anni, e tutto quello che aveva sempre saputo, tutto quello che conosceva, tutto quello che amava – era stato una menzogna. Lei, suo padre, Leroy, tutti quanti…
Regina.
Rumpelstiltskin.
Ma oh, era tutto così confuso, e la testa le faceva così male...
Come avrebbe potuto rimanere nel negozio, come avrebbe potuto rispondere alle domande che lui gli faceva, come avrebbe potuto prendere la decisione giusta - quando non sapeva nemmeno più chi era lei stessa? Quando la sua testa girava da impazzire e lei si sentiva così strana e instabile, e il suo cuore sanguinava per due uomini diversi… o forse uno solo, che era la somma dei due?
Come poteva?
Aveva dovuto uscire da quel posto, allontanarsi da lui... Oh, non per sempre, oh, no. Sarebbe tornata da lui, questo era certo, perché non importava chi fosse - il buono o il cattivo, il folletto o il proprietario del negozio, il Signore Oscuro. O il vigliacco, il padre, l'assassino, il salvatore, il mago, il potente, il solitario, l'uomo – lei lo amava.
Doveva solo chiarirsi le idee.
 
Belle vagò  per la città per un po’, poi entrò nella tavola calda di Granny.
Ruby era china sul bancone del bar e stava raccontando una storiella ad un paio di ragazzi, con gli occhi che le brillavano di malizia. "... così ho detto alla nonna 'oh, andiamo, pensi davvero che io non possa per una volta fare qualcosa per te solo per gentilezza?', e lei ha fatto una faccia, tipo ‘non mi freghi, ragazzina' – sapete di che faccia sto parlando, no? E poi io metto il muso, cioè, voglio dire, mi metto a fare l’offesa e assumo la mia espressione da innocenza ferita e tutto quanto, e questo per, non so, una mezz'ora, e lei era ancora sospettosa, capite?" Ruby strabuzzò gli occhi con aria esasperata. "Ma devo essere stata parecchio convincente, perché a un certo punto lei si è convinta e ha messo su un'aria tutta imbarazzata, mi ha persino chiesto scusa e mi ha preparato un sandwich per farsi perdonare, capito?” Risatine.
Fece una pausa, sorrise maliziosamente e si sporse ancora di più. "E a quel punto le ho detto che cosa avevo combinato con la macchina." Scoppiarono tutti a ridere, e Ruby improvvisamente notò Belle sulla porta. Le rivolse uno dei suoi larghi sorrisi rosso-fuoco. "Ehi, guarda chi c'è. Ciao, zuccherino. Come va? Vieni a bere qualcosa con noi!"
Ma Belle era già fuori dalla porta. Aveva pensato che andare in un posto affollato magari l’avrebbe fatta sentire meglio, o almeno che si sarebbe sentita meno straniata, ma era stato un errore: non poteva rimanere lì.
Tutte quelle persone: non riusciva nemmeno a guardarle senza sentirsi in qualche modo in colpa, senza provare una specie di vergogna per quello che lei ora sapeva e loro ancora no. Si sentiva come se stesse mentendo, fingendo di essere qualcuno che non lo era.
Perché lei non era più la ragazzina che loro conoscevano - era una donna adulta, di sangue reale, che era passata attraverso molte avventure – attraverso la guerra, attraverso l'amore, il dolore, la reclusione, la perdita. No, proprio non ce la faceva a parlare con loro, tutti ancora misericordiosamente ignari del loro passato, del loro destino, della loro prigionia in un mondo a cui non appartenevano.
Alla fine, anche se era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, si diresse verso casa. Il cielo cominciava a scurirsi quando aprì la porta di casa.
“Ehi?” chiamò.
Sentì un tramestio di pentole e la voce di suo padre. “In cucina, tesoro.”
Moe si sporse e la vide. “Ehi, piccola. Va tutto bene?”
Belle prese un respiro profondo e lo guardò. “Padre, devo dirti una cosa. E, sempre ammesso che tu mi creda, penso che quel che ho da dire non ti piacerà.”
  
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