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Autore: Flaqui    03/12/2012    10 recensioni
"Vincere significa fama e ricchezza.
Perdere, invece, significa morte certa.
Niente di più.
Ma vincere, perdere, non cambia molto. Se perdi muori. Se vinci, vivi. Ma vivi senza speranza, assillato da incubi che ti tortureranno e ti faranno impazzire, togliendoti il sonno.
Quanto sei disposto a perdere?"
Quando Rose viene scelta per partecipare alla trentaquattresima edizione dei Giochi della Fame, sa benissimo di aver firmato la sua condanna a morte. Ognuna delle dieci scuole magiche europee deve sorteggiare, ogni anno, due studenti, una ragazza e un ragazzo, fino alla maggiore età; questi verranno gettati in un arena a combattere fino alla morte.
Rose sa benissimo che non riuscirà a farcela. Ma ha promesso che farà di tutto per tornare a casa, e non intende arrendersi.
In squadra con lei c'è anche Scorpius, un ragazzo gentile che però non ha la stoffa per farcela. Lui vuole dimostrare di non essere una inutile pedina e fa una appassionata dichiarazione davanti alle telecamere di mezzo mondo. Ma nei Giochi della Fame non c'è spazio per l'amore, per l'amicizia e per i sentimenti.
Che i Giochi della fame abbiano inzio.
E possa la buona sorte essere sempre dalla vostra parte!
Genere: Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Severus Potter, Lily Luna Potter, Rose Weasley, Scorpius Malfoy, Victorie Weasley
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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- Questa storia fa parte della serie 'La Buona Sorte -Il Fuoco Sta Divampando-'
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Ehm... sono piuttosto in imbarazzo, in realtà.
Ecco non mi era mai capitato di aggiornare a distanza di così tanto tempo. So di non essere mai stata l'emblema della puntualità e mi dispiace infinitamente per questo ma... davvero, questa volta ho esagerato e mi sento dannatamente in colpa.
Ho avuto un orribile blocco dello scrittore (se, scrittore! Aspirante scrittore. Aspirante aspirante scrittore!) e ho continuato a rimandare la pubblicazione di questo capitolo per non so nemmeno quanto.
Per questo alcuni ringraziamenti sono assolutamente necessari.
Prima di tutto Bess, senza la quale non ci sarebbe stato nessun capitolo e che mi ha dato una spinta (o calcio nel fondoschiena, che rende di più) per riprendere ascrivere. A Fede che mi sopporta sempre e a Ivana senza i cui scleri non sarebbe più lo stesso.
Ma devo ringraziare anche tante altre persone. MarchHere (Giulia <3), che mi ha dato preziosi consigli nella recensione e che mi vizia con milioni di banner uno più meraviglioso dell'altro. A Daphne, Tefnut e Wynne perchè forse non leggeranno nemmeno queste righe ma poter conoscere le mie autrici preferite e scambiare qualche chiacchiera con loro mi sembra un sogno. A Marti e Alice per il sostegno.
E, sopratutto, a voi, se state ancora leggendo queste parole vuol dire che non sono una cos' pessima persona.
Grazie mille e scusate, scusate davvero.
Ci vediamo sotto.
Fra



Breve Riassunto Per Chi (A Ragione) Non Si Ricordasse Niente.
Rose, sempre più preoccupata per la sua sorte e quella del cugino, James, partecipa ai suoi primi allenamenti con li altri tributi. Qui scopre la variazione imposta ai giochi, per festeggiare la 25esima edizione: i giochi saranno cronometrati.
Sul braccio di ogni partecipante, alla fine del primo giorno, apparrà un orologio a cinque cifre (secondi, minuti, ore etc..). Queste cifre indicano il tempo rimasto al tributo nel gioco e il concorrente può, superando particolari ostacoli o uccidendo un avversario, guadgnare altro tempo. Quando/semmai l'orologio dovesse arrivare a segnare 00:00, allora la vita del tributo sarà interrotta.
Rose è sconvolta e scoprire sua cugina Victoire "fraternizzare" con Scorpius non la tranquillizza affatto.
Quando torna in camera, orami prossima ad una crisi isterica, ecco trovarsi, al posto del quadro di Stephanie, misteriosamente scomparsa.... Lorcan Scamandro, anche lui raffigurato in un quadro.
 

Dedicato a Clare, perchè anche con le pupille dilatate e  gli esami, riesce ad essere la Beta migliore del mondo.

Capitolo XI
Cosa ti è successo, ragazzina?


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Posso vedere che sei triste anche quando sorridi, anche quando ridi. 
Nel profondo vuoi piangere.
Eminem

 
Qual è il modo più rapido per morire?
Ci penso mentre gioco a fare l’acrobata, le braccia aperte e il viso rivolto in alto, verso questo cielo dai colori tenui e dalle costellazioni diverse da quelle che mi sono così a lungo impegnata a studiare. Non so nemmeno da quanto sono qui, sono qui e basta.
 

***

 
«E allora ci hanno presi. Freddie è riuscito a cavarsela, il mocciosetto. L’hanno riportato a casa e Angelina ha avuto una specie di crisi isterica. Gli Yankee hanno preso le generalità e hanno gettato un Sortilegio D’Allerta Perpetuo sulla casa. In pratica se Freddie si fa una canna o Roxy si sbaciucchia con Cameron sul retro, loro lo sapranno» Lorcan si stringe nelle spalle e passa poi a descrivere i terribili due giorni passati in cella.
Non mi ha spiegato come sia finito in un quadro – e il mio stomaco si serra davanti all’evidenza così palese della sua morte - o che fine abbia fatto James.
Io non gliel’ho chiesto e non sto piangendo, non ne ho nemmeno la forza. È come se in questi giorni avessi prosciugato tutte le mie lacrime.
A volte penso che la mia mente funzioni diversamente da quella degli altri. Non so come spiegarlo. In verità, non lo comprendo nemmeno io. Però è… è come se nella mia testa ci fossero tanti fogliettini e su ognuno di essi fosse scritta una frase, una parola, una lettera. Per la maggior parte del tempo i fogliettini sono ordinati e pronti all’uso, impilati con cura nei cassetti della mia memoria.
E quando devo dire qualcosa di importante io scelgo i fogliettini giusti e dico quello che voglio.
Delle volte, però, capita che un soffio di vento particolarmente forte, un terremoto sotto la mia pelle, spazzi via tutti i foglietti, li faccia volare via.
E i foglietti si mischiano, si mescolano, svolazzano nel turbinio dei miei pensieri. Migliaia di frasi possibili mi passano davanti agli occhi ma nessuna sembra mai essere adatta.
Io corro, scappo, mi precipito, li inseguo. Cerco di afferrarli, protendo le dita più che posso ma non ci riesco. E quando il vento smette di soffiare tutto mi appare così confuso, e i fogliettini giacciono scomposti e in disordine.
Delle volte riesco a riparare il danno, afferro uno dei biglietti e me lo faccio andare bene. Quando poi sono con Albus non mi importa molto di quello che sta scritto sul foglietto, tanto lui lo capisce lo stesso. Quando però è necessario mantenere una parvenza di normalità, in quei momenti mi sento persa. Muta, cieca, sorda. Sola.
Ma altre volte il vento è così forte, il terremoto mi agita così tanto e il baratro sembra essere sul punto di inghiottirmi e davvero non ce la faccio a inseguirli tutti. La mia vita mi scivola via dalle mani e io non posso farci niente.
E allora l’unica cosa che mi rimane da fare è aggrapparmi a quello che ho intorno: contare il numero delle piastrelle del pavimento, il numero dei passi che percorro, la quantità delle venature nel legno della porta, piccoli dettagli che non si contraddistinguono, che non risaltano, che non sono importanti, ma che mi servono per rimanere ancorata a me stessa.
A volte vorrei solo che la mia mente funzionasse in modo normale. Che i fogliettini non esistessero e che il mio cervello fosse come quello di chiunque altro.
E chi ti dice che anche i cervelli degli altri non siano così?
Non lo so perché sto facendo questo ragionamento, ora. Forse sono gli occhi scuri di Lorcan e la sua voce bassa e roca che parla piano, nel silenzio della mia stanza, che mi confondono sempre di più.
È solo che delle volte… mi perdo, ecco.
Lorcan mi sta raccontando di quello che è successo quella sera, quando li hanno presi al confine. Ho tanto desiderato, ma allo stesso tempo temuto, una spiegazione e ora riesco solo a pensare che voglio andare via. Voglio scappare da questo posto. Voglio correre fuori da questo palazzo dalle pareti di vetro che non riflettono alcuna luce, voglio che i Giochi siano solo uno dei tanti ricordi poco piacevoli che affollano la mia mente e che soffiano impetuosi sui fogliettini dei miei pensieri.
Lorcan ha smesso di parlare. Il silenzio pesa sulle mie spalle stanche e davvero, davvero non ce la faccio a continuare così. Forse è per questo che non gli chiedo maggiori informazioni.
I fogliettini sono dispersi in angoli remoti della mia mente e non ho alcuna possibilità di recuperarli ormai. Rimango a fissare Lorcan per un po’. È dimagrito, molto. Sul viso sottile si intravedono le ossa degli zigomi, i capelli sono più corti di quanto ricordassi e, nonostante il viso sia costretto nella sua solita smorfia di superiorità, il ghigno che mette in mostra ha perso tutta la sua strafottenza. Anche gli occhi sono più scuri del solito e si muovono inquieti lungo la stanza. Quando li posa su di me abbasso subito i miei e faccio per allontanarmi.
Sarà stupido, ma non voglio sapere altro. Non voglio ricevere ulteriori notizie in grado di sconvolgermi. Non so se ce la farei. Non so nemmeno se, dopo la tempesta che sta infestando la mia mente, mi rimarranno abbastanza foglietti anche solo per chiedergli qualcosa.
«Smettila» dice, e la sua voce rimbomba nella stanza vuota «Smettila di fare così»
«Così come?» chiedo, e mi sorprendo di sentire la mia voce.
«Così. Non hai mai avuto paura di guardarmi negli occhi» Lorcan irrigidisce le spalle e per un attimo la mia mente torna indietro a quei pomeriggi d’estate in cui, ingenua come ero, avevo una colossale cotta per lui e lo spiavo di nascosto mentre parlava con James.
Credo che lo sapesse, cosa provavo. Ma credo sapesse anche che era una stupida infatuazione infantile, di quelle di cui poi ridi o ti meravigli quando sei grande.
Non ha mai detto nulla, comunque. E nemmeno io avevo detto nulla. Mi limitavo a guardarlo, ad osservare come i raggi del sole si riflettessero sui suoi capelli biondi e come la sua bocca si contraesse spesso in un ghigno, quando voleva farsi bello agli occhi delle altre ragazze. Lui era più grande di me, di quasi due anni – lui e Lysander, essendo nati a fine settembre, erano i più grandi della comitiva di James - e aveva già fatto le sue prime esperienze. Io avevo appena compiuto undici anni, frequentavo Hogwarts da appena un mese e l’unico essere maschile che mi si era avvicinato, oltre ad Albus, era Josh Calvinson, un Corvonero con i capelli cortissimi e la faccia paffuta.
Ma rideva sempre, quando mi beccava a guardarlo e mi diceva che era un grande pregio, il mio.
«Non hai paura di guardare qualcuno negli occhi, ragazzina. È una bella cosa»
E ora, rivederlo qui davanti a me dopo tanti anni da quel momento è qualcosa di troppo strano perché riesca a comprenderlo.
«Non capisco cosa stai cercando di dirmi» sussurro piano, mentre mi allontano sempre di più dalla sua cornice. Anche se evito il suo sguardo, noto con estrema dovizia di particolari le sue mani grandi che si protendono verso l’alto, verso di me, irraggiungibile.
«Sì che lo capisci, invece» Lorcan non ha una voce triste o spaventata. Anzi, sembra piuttosto arrabbiato, e il suo tono fa uno strano picco di intensità alla fine della frase «Lo sai, Rose. Questa non sei tu»
«Forse non so chi sono»
«Ma io sì»
Scuoto la testa e corro via, mi chiudo la porta le spalle e fuggo dal suo sguardo indagatore e dalla sua comprensione. Sbatto il legno della porta, affinché il rumore sovrasti anche i miei pensieri confusi e ingarbugliati.
Ma lo sento comunque.
La sua voce, come se mi stesse sussurrando all’orecchio: «Cosa ti hanno fatto, ragazzina?»
 
Le luci del corridoio sono tutte accese e, sul momento, mi feriscono gli occhi.
Non so come ho fatto ad arrivare qui. Ho semplicemente avuto bisogno di uscire, di allontanarmi dal passato che mi tortura.
Un minuto fa ero in camera mia, ad autocommiserarmi. E ora sono qui, arrancando verso un qualcosa di cui nemmeno io sono certa.
Lo trovo negli occhi sorpresi di Derek, apparso all’improvviso, che si scontrano con i miei.
«Cosa ci fai qui?» chiede con una punta di rimprovero nella voce.
Quando si affretta a chiudere la porta da cui è evidentemente appena uscito, registro distrattamente che non è quella dei suoi appartamenti, visto che non è nemmeno questo il suo piano. Poi però penso che non me ne frega un accidente di quello che sta facendo qui.
Sarò egoista, ma sono più preoccupata per me.
E mi sembra anche ora, Rose. O pensavi che qualcuno l’avrebbe fatto per te?
«Niente. Volevo parlare con Dominique» invento sul momento, stringendomi nelle spalle. La mia voce è troppo bassa e ho una grandissima paura di scoppiare a piangere da un momento all’altro, ma la bugia sembra convincerlo.
«Tua cugina non è dell’umore giusto per parlare con nessuno. Non credo che anche tu sia così masochista da volerti far urlare addosso» Ha una voce dura, seccata. Evidentemente anche lui non è al massimo del buon umore. Perciò decido di non contraddirlo e lo seguo lungo il corridoio buio.
Le pareti sembrano così strette, pronte ad inghiottirmi mentre cammino.
Questo posto fa paura di notte. Ad Hogwarts era diverso. Era tutto diverso. E io non l’ho mai saputo apprezzare.
«Cosa?» la voce brusca di Derek mi coglie alla sprovvista.
«Hmm?»
Derek deve essersi accorto del mio sguardo vacuo e degli occhi rossi evidentemente, perché mi afferra per un gomito e inizia a trascinarmi via. Io non dico niente e mi lascio trasportare, mentre camminiamo veloci e superiamo la cucina. In questa zona dell’appartamento le luci sono spente e mi ritrovo a chiedermi che ora sia. Il tempo passa troppo velocemente, in questi ultimi giorni. Forse sa come mi sento e vuole solo abbreviare il dolore.
Ma il tempo è bastardo, e forse vuole solo strapparmi gli ultimi attimi di vita che mi rimangono.
Derek mi lascia il braccio quando arriviamo nel bel mezzo della piccola stanzetta accanto alla cucina; dagli odori diversi che coesistono in questo piccolo spazio comprendo che deve trattarsi di una specie di dispensa, o perlomeno di un posto dove conservano il cibo. Si abbassa fino ad arrivare all’altezza di un piccolo scaffale semi-nascosto.
Lo sento armeggiare al buio con quelle che potrebbero essere delle bottiglie di vetro contenenti chissà cosa. Quando si risolleva, le mie congetture sembrano essere confermate e Derek mi lancia uno sguardo strano al di sopra delle sue spalle larghe. Tiene un paio di bottiglie dal collo sottile e sofisticato strette al petto con il braccio destro a circondarle e, con la mano sinistra, lasciata molle lungo il busto, mantiene due bicchieri.
Sono quelli delle grandi occasioni, quelli che si usano alle feste o alle cerimonie di grande importanza. Le utilizzavano nei miei primi anni ad Hogwarts al banchetto di Halloween.
Evidentemente qui non devono necessariamente avere qualcosa da festeggiare per utilizzare i bicchieri da festa.
Scuoto la testa e penso che alla fine sono soltanto dei bicchieri.
Derek, intanto, ha chiuso con un colpo di tallone il piccolo sportellino dello scaffale e mi sta guardando con una strana espressione in volto.
«Andiamo» mi dice, e si fa largo nel buio come se riuscisse a vedere tutto alla perfezione.
«Cosa hai intenzione di fare?» chiedo mentre gli arranco dietro.
«Ubriacarmi come se non ci fosse un domani, fino a dimenticare tutto» risponde lapidario mentre, ritornati nel corridoio principale, svolta a destra «E tu?»
Ci rifletto un po’, prima di dare una risposta.
Provo a concentrarmi, ma la mia mente sembra insofferente a qualsiasi tipo di ragionamento questa sera. Così mi limito ad afferrare i primi fogliettini che volano davanti ai miei occhi rossi e stanchi e a leggere le parole scritte sopra con tutta la convinzione che mi rimane.
«Immagino ubriacarmi. Per me non c’è davvero, un domani»
È buio quando Derek si volta a guardarmi. Eppure posso sentire sulla pelle, sotto la pelle, che sta sorridendo.
Derek ha preso a salire su una piccola scala a chiocciola che conduce verso l’alto e il rumore dei bicchieri che si scontrano fra loro accompagna anche la mia salita, guidandomi sui gradini alti e nel buio.
Quando finalmente la scala termina siamo parecchio in alto, e il rumore del vento ne è testimone. Derek spalanca una porticina bianca ed esce fuori, sotto la luce bianca della luna.
Sono sul tetto del palazzo più alto di Royàl e mi sento in cima al mondo.
 
Il primo sorso è stato difficile da mandare giù.
«Questa roba è forte, ragazzina. Non credere che sia come quella sbobba che vi danno in Inghilterra. Com’è che si chiama? FireWhiskey? Ridicolo» Derek aveva ciondolato il capo mentre tirava fuori la bacchetta e faceva evanescere il tappo della bottiglia con un movimento rotatorio del polso «Persino i cocktail babbani sono più potenti di quella roba!»
Poi mi aveva offerto il bicchiere da festa colmo fino all’orlo di un liquido ambrato dall’odore forte e acre e io mi ero ritrovata la gola in fiamme ancora prima di far scendere completamente giù il primo sorso. Era come se il mio intero corpo fosse stato messo davanti ad un focolare e tutti i miei arti, fino alle punta dei piedi irrigiditi dal freddo, si erano ridestati e risvegliati al tocco di quel liquido rosso.
Improvvisamente avevo sentito una gran voglia di ridere e di scrollare il capo perché –dannazione! -era dicembre inoltrato ed ero seduta sul cornicione di un tetto senza sentire nemmeno un brivido di freddo, non più almeno, e beh… ero ancora viva.
Derek, che aveva già finito il primo bicchiere, se ne stava versando un secondo e allora io avevo pensato – pensato, poi. Il liquore mi ha raggiunto il cervello perché sento il bruciore sordo anche lì- che meritavo un altro goccio anche io.
Avevo afferrato il collo – sottile e lungo, raffinato. Come i bicchieri di Hogwarts ad Halloween. Ad Halloween. Mi piace Halloween - della bottiglia e me ne ero versata un altro po’ di quel Whisky che incendiava le vene. Avevo ciondolato un po’ il capo – la testa mi si sta staccando dal collo. La mia testa si sta… oh, no. Ce l’ho ancora - e avevo ridacchiato. Era divertente, in fondo.
So ancora sorridere, Lorcan? Hai visto? Hai visto! Hai…?
Non importa. Non importa, non fa niente.
E poi me ne ero versato un altro. E un altro ancora.
La seconda bottiglia era ormai finita e la terza ci stava occhieggiando – quella bottiglia mi sta guardando! Mi guarda! Ha un bel colore, il vino. Sto bevendo il vino! È vino? È rosso, comunque. Albus dice sempre che io sono una persona rossaFa freddo qui e anche caldo. È un… un contrario? Come si dice? Molly la dice sempre quella parola. Ossimoro. Ossimoro. Mi piace dirlo. Ossimoro. È come se mi si arrotolasse sulla lingua. Ossimoro. Albus dice che sono rossa, ma che non è per i capelli. Ma io ho i capelli rossi, sono l’unica cosa rossa che ho.
E ora?
Ora voglio bere. Voglio continuare a bere fino a che non mi dimenticherò anche il mio nome.
 
La prima volta che Derek mi rivolge la parola, senza contare i borbottii, è quando stiamo iniziando la seconda bottiglia e sono ancora abbastanza lucida.
«È un tuo amico?» chiede.
«Cosa?» ribatto, vagamente perplessa. Le piccole Luci Portatili brillano appese al muro e i contorni del mio allenatore sembrano così indistinti.
«Il prigioniero, il ragazzo nel quadro»
«Non capisco»
«Cosa non capisci? Ti sto chiedendo se il ragazzo che hanno intrappolato nel quadro è un tuo amico. Non mi sembra difficile»
«In che senso intrappolato nel quadro? Lorcan è…» Smetto di parlare, non voglio saperlo. Non voglio sapere niente, questa notte.
 
«Tu credi che io sia uno stronzo» La voce di Derek mi appare così distante, così lontana «Credi che io mi diverta, a fare questo lavoro»
Io non dico nulla e continuo a fissare incantata le sue mani grandi – le mani di Albus sono sottili invece. Mi fanno paura delle volte. Le guardo e penso che potrebbero circondarmi tutta, se volessero. E allora immagino che quelle mani mi possano…- con le dita lunghe e callose.
«Tu e tua cugina credete di sapere tutto, non è così? Credete che mi piaccia ogni anno mandare a morte certa due ragazzi la cui unica colpa è quella di essere nati nel posto e nel tempo sbagliato?» Le sue mani si chiudono di scatto sul collo della bottiglia -io ho le mani piccole. Credo. Nella classifica delle mani, dico. Sono… normali, penso. Quelle di Derek non mi fanno paura, neanche quelle di Albus… le mani di Albus sulle mie. Non è paura, è pace, forse. Non lo so. Cioè sì, Derek mi fa paura, ma non quella paura cattiva, che ti fa… correre.
«Credete di sapere tutto di me. E non sapete un cazzo. No, non sapete niente. Voi non ne avete idea. Di quello che succede lì dentro. Di come ti cambia» Scuote la testa e contrae la bocca mentre beve un altro sorso dal suo bicchiere. Lo regge bene, l’alcool. Le sue mani – mi piacciono le sue mani, anche se fanno paura - non tremano e io ho davvero bisogno di qualcosa che non tremi, che non crolli. Tutto mi sta crollando addosso - cade, cade tutto. Il muro che ho costruito mi sta crollando addosso, mattone per mattone. E non so se riuscirò a uscirne fuori.
«Quando sei lì dentro, quando entri… non so cosa ti succede. Forse diventi… pazzo. L’unica cosa che conta è sopravvivere, non importa come. Le persone che conoscevi, che amavi nella tua… vita precedente… le odi. All’improvviso le odi, non puoi fare altrimenti. Perché… perché è così. Loro sono fuori, tu sei dentro. E vuoi solo…» Derek si interrompe, come se avesse anche lui finito i fogliettini per esprimersi «Non so, uscirne vivo. I primi giorni, se non muori subito, credi davvero di potercela fare. Pensi che, magari, se ti tieni alla larga da tutto quello che ti circonda… beh, magari puoi farcela anche tu. Anche se non sei il migliore. Poi però i giorni passano e tu… beh, tu inizi a contarli. E li conti perché sono l’unica cosa che ancora ti lega alla realtà e pensi… “arriverà il giorno in cui uscirò di qui”. Ma poi perdi il conto e tutto… tutto… tutto perde significato»
Non riesco a muovere un muscolo. Il vento mi sferza la schiena coperta solo dalla leggera maglietta del pigiama e tutto… tutto perde significato. Derek muove ancora le sue mani – le mani di Derek fanno paura, ma una paura buona. Perché c’è anche quella paura buona che ti avvisa quando è arrivato il momento di fermarti o ti suggerisce come rimanere vivo - e io penso che… che non ha senso. Come fa a sapere questo? Come può capire cosa si prova? Come… come… Non lo so.
«E un giorno, quando finalmente siete rimasti in pochi, quando è passato così tanto tempo che sei solo e perso da non ricordare nemmeno il tuo nome… incontri qualcuno, nella foresta. In un primo momento hai i sensi in allerta, ma poi… poi capisci che è un essere umano, che è come te. Che ha i tuoi stessi problemi. E vuoi… corrergli incontro, dirgli qualcosa. Poi ti ricordi che devi ucciderlo. E tutto diventa buio, tutto diventa un incubo»
Derek rimane in silenzio per un po’, poi improvvisamente si alza, raccoglie le bottiglie vuote e, dopo aver lanciato una breve occhiata al panorama che si gode da qui sopra, mi volta le spalle e se ne va, lasciandomi sola con un’ultima bottiglia di - vodka? - alcool.
Improvvisamente mi coglie una grande smania di muovermi, di ridere, di ballare: mi aveva colta ed ero balzata in piedi perché il mondo mi sembrava così maledettamente bello quella sera, così… vivo. Ero viva anche io – sono viva, alla faccia vostra! Sono viva, sono viva, sono viva!
«Sono viva!» avevo urlato e poi ero balzata in piedi anch’io. Non so dove l’ho sentita, questa cosa. Ma so che l’alcool fa venire a galla i tuoi desideri più profondi. In quel momento, desideravo unicamente, disperatamente, profondamente la vita.
Ero incespicata fino al cornicione e ci ero salita con non poche difficoltà. E ora, in precario equilibrio sul vuoto, sento il vento che mi accarezza il viso e ho il cuore più leggero.
«Sono viva!» urlo al mondo che si agita trenta piani sotto di me.
«Sono viva!» urlo a me stessa.
«Sono viva!» urlo. Perché fra poco non lo sarò più.
 
Qual è il modo più rapido per morire?
Ci penso mentre gioco a fare l’acrobata, le braccia aperte e il viso rivolto in alto, verso questo cielo dai colori tenui e dalle costellazioni diverse da quelle che mi sono così a lungo impegnata a studiare. Non so nemmeno da quanto sono qui, sono qui e basta.
Il tetto del Palazzo Addestramenti è alto, troppo, e dalla sua posizione, lì sul cornicione estremo, riesco ad abbracciare con lo sguardo quasi tutta Royàl.
In fondo riesco ad intravedere palazzi più alti, ma non mi importa molto.
Sul tetto la temperatura è abbastanza alta, soprattutto considerando che siamo in Dicembre inoltrato e ci stiamo avviando verso l’inizio del nuovo anno.
Se ora fossimo in Inghilterra, penso mentre fisso assorta le luci colorate che brillano molti metri sotto di me, in questo momento sarebbe praticamente impossibile fare un passo all’aperto, fra neve e precipitazioni varie. È sorprendente notare come qui il gran freddo invernale sia sinonimo di un venticello freddo che mi scompiglia i capelli e fa frusciare i pantaloni del mio pigiama. Non è troppo freddo, anzi, è piacevole sentire la sua carezza fredda sulla mia pelle sudata.
Sono in piedi sopra il vuoto e, per quanto delle volte mi colgano picchi di vertigine, non riesco a fare a meno di guardare in giù.
Sono davvero in alto, a giudicare dalla moltitudine di piani che ha questo palazzo. Almeno trenta o quaranta metri di distanza mi separano dal marciapiede bianco. Molta gente passa per strada. O forse sono quegli strani mezzi di trasporto che usano qui. Sono troppo distante per poterlo dire con certezza.
È che mi sento così piccola e insignificante, qui.
Di solito mi è sempre piaciuto, salire in alto. Arrampicarmi sugli alberi nel giardino della Tana, spiare il mare dalla piccola finestra nella soffitta di Villa Conchiglia, filosofare sul senso della mia vita dal balconcino con vista poco prima della Torre di Corvonero.
Il punto è che… non so come spiegarlo, ma più salgo in alto più i miei pensieri e le mie preoccupazioni sembrano sparire. Perché, quando hai il cielo sopra di te – così dannatamente immenso - come puoi preoccuparti seriamente di qualcosa – così dannatamente piccolo, al confronto? È come avere un’altra prospettiva di me stessa.
Delle volte mi serve. Isolarmi un po’. Solo io e il cielo, il mondo fuori. Sentire il vento fra i capelli… il mio cuore che batte.
Ancora per poco.
Mi concedo un ennesimo sguardo a questo posto. Nonostante tutto, è di una bellezza quasi struggente. Il sole che sta per sorgere all’orizzonte, le fulgide luci che illuminano le strade ancora trafficate, le sagome dei palazzi che si stagliano contro il cielo.
Mi mancherà, il mondo.
Sento ancora in bocca il sapore acre e disgustoso della Vodka che ho bevuto poco prima con Derek. È strano pensare che sarà l’ultima persona ad avermi vista viva.
Che io abbia visto viva.
L’alcool mi circola in viso e per un attimo penso che sto per fare la cosa più stupida della mia vita. Mi sono ubriacata e sono sul tetto di un palazzo.
Ma a cosa serve vivere? Morirò comunque fra qualche giorno. Non serve a niente continuare così. Proprio a niente.
In questo modo, almeno, deciderò io come farla finita.
La mia morte sarà come la desidero io, non per mano di qualche ragazzino spaventato.
Chiudo gli occhi e mi concedo di pensare alle persone care che hanno popolato la mia vita. A mio padre, mia madre, Hugo, Lily, James. Victorie, Dominique. La mia famiglia.
Albus.
Scorpius. Scorpius che mi fissa con i suoi occhi “Foresta Proibita” spalancati e mi supplica mentalmente di non farlo. E sarei persino in grado di ascoltarlo, volubile come sono al momento.
Faccio un passo in avanti e nel frattempo immagino cosa potrebbero scrivere sulla mia tomba.
Qui giace Rose Weasley. Amava così tanto l’amore che le veniva negato, che ha scelto di morire. Aveva tanta paura di ricordare che ha deciso di morire per ricorrere all’oblio. Non lascia niente e nessuno, solo una disperata e lacerata voglia di vivere.
Al diavolo.
 
 
«Rose!» Una voce urla dietro di me e delle luci mi accecano.
Ma io non la ascolto, la voce, perché ce ne sono già troppe intorno a me.
 
«Ciao, Scorpius» trillo deliziata, perché la luce che viene dalla porta aperta mi acceca e i suoi contorni sembrano indefiniti e tremolanti «Benvenuto alla mia festa!»
Ridacchio fra me e me per la battuta - La mia festa. Perché sto per morire. E daranno una festa. Perché ora mi butto. E faranno festa. Perché diavolo si dice così, poi?
«Rose» La voce di Scorpius ha una tonalità bassa che non riconosco «Cosa stai facendo?»
Fa un passo in avanti, cauto. È come se avesse paura di me.
«Sto ballando, ovvio!» asserisco e per tutta risposta accenno a qualche movimento strano.
Non voglio che rimanga con quell’espressione in viso, non mi piace. Provo un passo in avanti ma traballo pericolosamente indietro, mentre il mondo si muove vorticosamente contro di me.
Non so perché mi sento così instabile, ma Scorpius è impallidito sempre di più e si avvicina a piccoli passi. Forse non ha paura di me, forse non vuole che io mi spaventi.
“Io non voglio spaventarmi, voglio solo divertirmi un po’, qui non ci si diverte mai. Mai. Mai. Mai.”
«Rose, basta. Scendi da lì»
“Lì? Lì, dove?”
Sono confusa e non mi piace il tono lamentoso che Scorpius sta usando con me. Mi sembra di essere di nuovo una bambina piccola che viene rimproverata dalla mamma.
“Mia madre non mi rimprovererà mai più.”
Smetto di ascoltarlo allora, perché non voglio ricordare. La bottiglia che ho preso in cucina mi sfugge dalle mani e cade giù, per metri e metri di altezza, schiantandosi contro il marciapiede e rompendosi in mille pezzi. Mi sento come quella bottiglia, adesso.
“Ho fatto trenta piani di colpo e ora mi sono sfracellata.”
«Smettila, tu non sei così, Rose. Questa non sei tu!» Scorpius si è avvicinato e protende le sue mani verso di me – ha le mani grandi, Scorpius. Come quelle di Derek. Le sue mani, però, sono una paura cattiva. Sono una paura cattiva perché… perché quando lo guardo ho voglia di correre. Ma tanto lo so, Scorpius mi inseguirebbe se corressi via. È tanto veloce, Scorpius. È bravo, è tanto… Perché dovrei correre? Non me lo ricordo.
«E chi sarei, allora?»
«Tu sei Rose Weasley e io…»
«Sono Rose Weasley, gente!» Lo urlo, come ho urlato prima. Continuo e continuo tanto… tanto non importa «Sono Rose Weasley! E non importa a nessuno…»
«A me si!»1 Scorpius mi fissa e il cuore batte, e io penso a quello che ha detto Derek prima.
“E un giorno, quando finalmente siete rimasti in pochi, quando è passato così tanto tempo che sei solo e perso da non ricordare nemmeno il tuo nome… incontri qualcuno, nella foresta. In un primo momento hai i sensi in allerta, ma poi… poi capisci che è un essere umano, che è come te. Che ha i tuoi stessi problemi. E vuoi… corrergli incontro, dirgli qualcosa. Poi ti ricordi che devi ucciderlo. E tutto diventa buio, tutto diventa incubo.”
«Tutto diventa…»
 
Ci sono delle mani a stringermi. Mani grandi e che, a pensarci bene, non mi fanno paura. Mi bloccano le spalle e mi impediscono di saltare, ma non possono impedirlo al mio cuore.
Cosa ti è successo ragazzina?
Non lo so, Lorcan. Non lo so proprio.


1- Da Gossip Girl, ovviamente. Chuck, Blair e un tetto. Vi ricorda niente?
La storia dei fogliettini nella testa di Rose è un chiaro riferimento alla mia serie preferita. Vediamo chi lo indovina.


Note Finali.
Non mi uccidete.
Se non avete smesso di leggere e siete arrivate fino a qui... beh, non so, mi volete davvero bene!
Io non sono affatto sicura di questa scelta. Insomma ci ho pensato un sacco.
Ho riscritto il capitolo una ventina di volte ma... niente.
Avevo questa idea in testa, non era programmata, e non sono riuscita ad eliminarla.
Ah, comunque non fate delle connessioni e supposizioni affrettate. Il finale non è come voi credete! (???)
Ma, sappiatelo, se non dovesse aggradarvi, scrivetemelo! Vi giuro che modifico il capitolo e lo riscrivo secondo la mia idea iniziale.
So che questa storia risulta essere piuttosto pesante e non mi sorprende un calo di recensioni ma... grazie se siete ancora qui.
Fatemi sapere che ne pensate.
Fra
   
 
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