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Autore: Jericho XVIII    07/12/2012    3 recensioni
Vendo tre quarti della tua vita
Al mercante Dal Mare,
in cambio dell'oro
dell'incenso
e della solitudine.
Firmato,
Tuo fratello Hanid
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giorno 4

 

Nel sogno, una carezza. I miei capelli corvini scompigliati e rimessi a posto. Il calore di una mano, poi il vuoto. Un ticchettio. Come di un piede che batte sul pavimento.

Aprii gli occhi e Skandar mi mise un dito davanti alle labbra. Mi strinsi tra le coperte soffocando un urlo, fissando il suo viso trasfigurato per metà in quello della donna della servitù. Ammiccò in direzione di Binko. La creatura scintillò intensamente per un attimo, e il suo sorriso tornò intero.

« Auguri » bisbigliò.

Era una situazione troppo assurda perché mi ricordassi che giorno fosse. « Cosa ci fai qui? »

« Un rapimento. Un premio. Un regalo. Una pretesa. Decidi tu »

Si girò, in attesa. Capii che dovevo vestirmi. Mi infilai rapidamente gli abiti del giorno prima e mi piazzai di fronte a lui.

Gli occhi di Skandar mi percorsero, critici. « No. Prendi quelli. » Mi indicò i vestiti fuori dalle finestre ad arco, i calzoni di tela della servitù ed una giubba rossa molto ampia.

Lo feci senza protestare. Ci defilammo dalla porta di servizio.

La città era in subbuglio per la festa di mezza estate che coincideva con il mio compleanno. Carichi di mercanzia e persone bloccavano le strade principali, mentre le vie attorno e sulle case pullulavano degli individui più stravaganti e dalla mercanzia meno usuale. Skandar si intrattenne per dieci minuti con un nano che vendeva uova puntinate e ne intascò sei barattandole con il frammento di uno specchio d'oro che aveva raccolto nelle mie stanze. Mentre continuavamo a fendere la folla mi porse due dei suoi nuovi acquisti con un sorrisetto. « Guardale con attenzione » mi intimò, « quella con le macchie azzurre, sai indovinare cos'ha dentro? »

« Un drago? » tentai.

Schivò il manico di una pala che sporgeva da un carretto e mi aiutò a fare altrettanto.
« Sbagliato! Quaglia. E quell'altra allora? »

« Sempre quaglia? »

Skandar si fermò un momento per sorridermi con complicità. « È un uovo del pavos yerikù che fa da simbolo alla tua casata. Anche le altre quattro lo sono, quella di quaglia è l'unica che non ho visto bene. Non valgono un frammento del tuo specchio. Valgono tre volte la tua camera »

Me le mostrò tra le dita, quattro ovali perfettamente anonimi non più grandi di un grosso bottone.

« La cosa divertente è che le due uova sono perfettamente uguali a parte quella differenza di colore. Azzurre la quaglia del deserto, grigio-azzurrino il pavone... credo » mi spiegò, riprendendole tutte.

A me parevano esattamente identiche. Ma parlandomi Skandar doveva essersi distratto, perché finì contro la bestia da tiro di un buffo carretto tutto scomparti. Il vecchio alla guida fece arrestare il cavallo.

« Whoo, Zaradè, whoo! Scusateci. » Le facce di due bambini spuntarono dal carretto, incuriosite.

Skandar però era immobile, scrutando il cavallo. Che non era proprio un cavallo. « È... » mormorò, prendendo il muso striato della bestia tra le mani.

« Ibrido. Bionico. Shht, ragazzo. Non so come tu riconosca la differenza ma - fidati, non è cosa per le piazze di Gerico » La voce del vecchio era cambiata, si era fatta seria e autorevole.

Ma Skandar sorrise. Un sorriso grande, simile a quello che avrei voluto vedere. Mi strinsi a lui, con la folla che ci spingeva contro.

« È cosa soltanto da grandi inventori » mormorò con aria complice.

Il vecchio si fece tutto una luce. « Skandar? »

« Ah, vecchio stupido! Come potevo non riconoscere Zaradè? Chi te l'ha fatto aggiustare, chi? »

Insieme risero e si diedero grandi pacche sulla schiena, per poi iniziare a parlare fitto a bassa voce. Il vecchio chiedeva, Skandar rispondeva con serietà. Alla fine il vecchio mi guardò, un lungo sguardo. « Andate dagli hakko? »

« Come lo hai capito? » si meravigliò Skandar.

« La postura da cavaliere. E la pelle. Solo la tua famiglia ha quel colore olivastro qua a Gerico... » rispose rivolto a me.

Mi coprii le spalle, a disagio. Cercavo di tenermi distante dalla mente del vecchio, come sempre facevo con gli sconosciuti, ma sentivo come un messaggio provenire da lui.

L'anziano ci squadrò un momento, Skandar soprattutto, poi chiese al bambino di prendergli una cosa da dentro il carretto e ce la porse. La presi io e la ficcai velocemente nella borsa, come Skandar mi fece cenno. Poi il vecchio ci ammiccò e salutò con calore Skandar, lanciando un'altra lunga occhiata su di me.

Finalmente, mentre il carro ci oltrepassava, mi aprii alla sua mente.

Hai avuto fortuna a trovare uno come Skandar per te. Buona fortuna.

 

« Come fai a sapere dove sono gli allevamenti? » chiesi.

Le basi erano segrete. Dal momento che gli hakko si muovevano pressoché liberi, il problema non era lo spazio, visto il deserto sconfinato attorno a Gerico, ma che nessuno sapesse esattamente dove. A me la visita era stata fatta fare da piccolo, durante una cerimonia che avevo dimenticato.

« Mi ci portano a prelevare gli esemplari da cavalcare » disse stringendosi nelle spalle. Sospettai che non fosse solo per quello. Banko scintillava in un taschino della sua giacca. Così capii.

« Non ti preoccupare e avvicinati a me » mi intimò. Mi prese per un braccio e poggiò la fronte sulla mia. « Vai pure, Banko ».

Una luce, e non fummo più.

 

Il piccolo pezzo di terra galleggiava nel vuoto. Cercai di non guardare in basso.

« Paura del vuoto? » chiese Skandar urlando sopra il vento.

« Mi viene voglia di buttarmi giù » risposi. Lo sentii scoppiare a ridere.

« Anche a me! » replicò, facendomi voltare, « ma poi qualcuno mi ha insegnato a fare di meglio... »

Lo spettacolo che avevamo davanti mi fece indietreggiare di qualche passo, rischiando di farmi cadere. Ma c'era Skandar a sostenermi.

 

Hakko. Ovunque. Le zolle di terra galleggiavano come arcipelaghi tra le nuvole, facendosi ombra a vicenda o coprendo col loro oscillare i tre soli di Gerico. A terra, il deserto mandava bagliosi che ne illuminavano la parte inferiore facendone svanire i contorni. E sopra ogni cosa, sguscianti, veloci, a fare piroette e a lanciarsi verso il basso o a gettarsi in alto, gli hakko. Hakko di tutti i colori e varietà, dal pelo crema, indaco, rosso spento, oro, acquamarina, corto a raso pelle o lungo e setoso, con le ali piccole e spesse o sottili e ampie, le corna lunghe come se non fossero mai state tagliate, talmente cresciute da affiancare le zampe ed arrivare quasi alla coda in alcuni. Le loro dimensioni. Finora avevo visto gli hakko adulti solo in immagine, ma non mi sarei mai aspettato che fossero veramente così grandi. A lezione mi avevano parlato dei giganti marini di Atlantis; gli hakko dalle corna marroni e nere erano di quella stazza. Decine e decine di metri di pelo tosato o meno, corna ritorte come riccioli, il muso gentile, ammorbidito dall'età, e zampe forti che con un solo movimento avrebbero spazzato via Bassa Città. Le madri, dalle corna già brune e quindi molto grandi, si muovevano pigramente attorno alle zolle sospese più grandi, con i piccoli a terra o attaccati al pelo della schiena.

E il canto regnava su ogni suono.

Bastò che il vento cambiasse un attimo perché venissimo investiti da quella sinfonia di voci.

Le corde vocali degli hakko, di tripla estensione rispetto agli umani, possedevano uno strumento naturale alla base che rendeva il suono che producevano fino a quattro volte più lungo del normale. Un hakko adulto poteva tenere la stessa nota per ore, senza mai smettere di respirare.

Quel branco sembrava cantare da tutta una vita.

Le note si alzavano e scendevano, acceleravano e rallentavano, composte da mille gole diverse nei mille modi possibili. Non mi ci volle più di un secondo per rendermi conto che la melodia seguiva il volo degli animali. Coordinati col vento, col movimento delle ali, delle zampe e della coda essi producevano continuamente un suono che naturalmente si accordava con quello dei loro vicini, esattamente nel modo in cui si regolavano nel dividersi lo spazio di volo. C'era spazio per ogni movimento, per ogni accordo. Il frusciare del vento sul loro pelo morbido faceva appena da accompagnamento.

Sentii la voce di Skandar accanto al mio orecchio. « Vuoi volare, piccolo pavone? »

 

Era enorme. Una distesa soffice e calda al tatto, percorsa dall'aria calda che spirava tra le zolle e dalle vibrazioni del canto dell'hakko stesso e degli altri. Non ebbi da prendere il comando; i globi mi aderirono automaticamente alle palme delle mani, tanto lunghi da attorcigliarmisi attorno ai polsi in una stretta che non era un legame ma un abbraccio. Le corna lunghissime della bestia mi sfioravano la pelle senza mai ferirmi, passando a neanche un centimetro dalle mie tempie nelle evoluzioni del collo, perfettamente a tempo con tutto, senza compiere neanche il minimo errore.

E iniziammo a danzare. O a volare. O a ballare. E fu fantastico. I globi nelle mie mani bruciavano ma senza che sentissi dolore, ed io e la bestia eravamo una cosa sola – tanto che neanche per un momento pensai di essere io a guidarlo, per quanto facessi ballare le braccia attorno al mio corpo e al suo, né che fosse lui a muovere me – anche nella voce. Mi uscì senza che potessi farne a meno, e appena un istante dopo avvertii quella forte di Skandar farmi eco – mi volava accanto, a petto nudo su di un hakko vermiglio dalle corna color cobalto, intervallando il canto ad una risata forte e piena che riempiva il vento, riempiva l'aria, faceva guizzare gli hakko vicini contagiati dalla sua allegria. Volammo per un'ora, per due, forse per quattro o per cinque, sul deserto non c'è il tempo, oltre le nuvole non c'è il tempo, non finisce il giorno con tre soli diversi che guardano lo spettacolo e ascoltando chiedono soltanto il bis.

Ci posarono a terra, sfiniti, su di una zolla che pareva appoggiata direttamente le cielo. Le note dei nostri hakko calarono mentre loro calavano noi sull'erba. Skandar rimase con la fronte sul suo per qualche istante, in un silenzioso ringraziamento.

Il mio strofinò la coda contro il mio fianco e mandò un saluto acuto, per poi tornare tra le nuvole. Non ero il suo padrone, lì. Non ero nessuno. Ricordai le parole di Skandar. Non sono nessuno. Per quelle bestie, in quel momento, non c'erano eredi, non c'erano famiglie, non c'era Gerico, non c'era nulla. C'erano solo i venti, tre soli e un unico cielo da saziare col canto. E di cui saziarsi cantando.

Mi sentii a casa come mai mi ero sentito tra le quattro mura delle mie stanze o nell'abbraccio del padre che di me aveva fatto undici cloni migliori.

« Skandar! » gridai in preda ad un moto di gioia, e mi tuffai su di lui. Cademmo e rotolando finimmo ad un passo dall'abisso. Togliendoci la terra dai capelli raggiungemmo un posto sicuro e là ci sdraiammo, fronte alle nuvole e al serpeggiare di bestie che ad intermittenza ci facevano ombra.

Voltò il viso verso di me. « Auguri » ripeté.

E mi sembrò di capire altro oltre le parole. Altro che forse faceva parte di quel linguaggio di cui mi aveva parlato, che forse prima non avevo mai capito, per imparare il quale forse serviva volare e ballare con un hakko, o magari... essere semplicemente se stessi, anche per un secondo soltanto.

Ma capii. E un grazie non bastava.

Così gli raccontai tutto.

 

Non so se vidi le sue lacrime o erano le mie a fare il tutto un po' più triste di quello che fu. La notte calava ma non così il canto. Anzi sembrava che gli hakko alzassero la voce per convincere i soli a rimanere ancora un poco, e forse riuscendoci, ma il freddo del deserto già raggiungeva le zolle sospese. Skandar prese dalla mia borsa il fagotto che gli aveva dato il vecchio e lo aprì. Era come un globo in cui entrammo, e dentro v'erano solo coperte e cuscini e un caldo che fece sentire caldo quel qualcosa dentro entrambi.

Quando la notte arrivò definitivamente e le nostre parole finirono, Skandar disse: « Ascolta. Per tredici anni hai sentito il giorno del tuo compleanno la città celebrare la mezza estate con un'ora intera di silenzio, ovunque, in ascolto. E a tutti pareva che la città cantasse in lontananza. Capisci di che canto si tratta, ora? »

Ci fu poco più di un minuto di silenzio, poi il canto esplose. E fu più grandioso di ogni altra mezza estate della mia vita. Sembrava che il cielo si stesse sciogliendo in musica, che le stelle suonassero la notte stessa. Durò un'ora. Quando infine la musica si affievolì, le nostre bocche che non concepivano più altro suono si cercarono, si trovarono, e celebrarono il silenzio.

 

A notte fonda mi svegliai sul suo petto.

Guardammo le stelle. Avevo visto la luce a Gerico e mai ero andato per più di mezza giornata nel deserto. Per me era uno spettacolo completamente nuovo. Skandar mi parlò dei loro nomi, mi tracciò le loro forme, inventò animali nelle loro linee. Io per lui creai storie di eroi che addomesticavano le fiere o se le facevano amiche. Avremmo continuato fino all'alba se non avessimo all'improvviso sentito un pigolio.

Scostammo i cuscini. In un punto particolarmente caldo dove avevo lasciato i miei vestiti, tra gusci rotti e liquidi, cinque pulcini cinguettavano verso di noi.

« Ma sono quaglie! Allora il sesto uovo era... » si meravigliò con disappunto Skandar.

Risi forte e lui mi baciò.

Per un anno ancora, sarei stato il ragazzo più felice di tutta la grande città di Gerico. Poi... chissà.

Har baje.

 

 

Urbino,

6-7 dicembre 2012

  
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