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Autore: Viproudofthem    11/12/2012    3 recensioni
"Non avresti dovuto riempirmi di parole, parole inutili. Te ne sei andato, dopo tutte le promesse. Chi sono io ora? Cosa è rimasto di me?"
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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 “MADISON, VIENI SUBITO QUI.”
“Ascoltala Mad, dai!”
“NO! Chi siete voi per dirmi questo?!”
“I tuoi genitori tesoro!”
“Ah si? Voi siete degli estranei che vivete nella mia stessa casa! Non ci siete mai stati per me, non sapete niente di me. Non potete essere definiti genitori!”
 
Salii velocemente le scale, sentendo di sottofondo i commenti frustranti dei miei “genitori”.
Entrai nella mia enorme camera, e mi accasciai sul mio tappeto.
Cosa volevo fare?
Semplicemente sprofondare, sprofondare in un mondo che talvolta non è adatto a noi.
Che ci tiene al sicuro fino ad un certo punto della nostra vita, poi tutto ad un tratto ci abbandona.
Così.
Senza neanche una spiegazione di come si può andare avanti.
Un mondo che ti riempie di speranze, sogni, e poi ti lascia con niente.
 
Presi in mano il cellulare, guardai speranzosa lo schermo.
0 chiamate, 0 messaggi.
Niente di niente.
Ero stata abbandonata da tutti, tutti quelli che una volta erano definiti amici.
Ero rimasta con una manciata di sogni e speranze, che avrei preferito buttare via.
Ormai sono quattro mesi, nessuno si farà più vivo.
Continuerò a vivere con rimorsi e delusioni, le ferite non guariranno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO I.
 28 agosto.
 
Mi svegliai sdraiata sul tappeto della mia camera.
Un tappeto che ormai era quasi nero, a causa del mio mascara affogato nelle lacrime la sera prima.
Ero esausta, esausta dai troppi pensieri che finivano sempre per sfinirmi.
Lentamente mi alzai e frugai nell’armadio per trovare qualcosa da mettermi.
Misi dei jeans corti e una canottiera, semplice.
In fondo, come ero io.
Presi il cellulare, proprio come la sera prima.
0 chiamate, 0 messaggi.
Lo riposai nella mia borsa, poi mi resi conto di una cosa.
Quella data, 29 agosto.
Mi sedetti, ebbi un tuffo al cuore.
Mi fece male, così male che quasi il mio viso non  venne rigato da tante lacrime.
Ma poi mi feci forza, tutta la forza che ancora mi rimaneva.
Anche se era poca in fondo in fondo ce n’era ancora.
Presi il mio immancabile borsone e scesi le scale.
 
“Tesoro! Dove vai?” Mi disse la signora definita mamma.
“Non sono affari tuoi.”
Mi chiusi la porta alle spalle e mi addentrai nella meravigliosa Wolverhampton.
Percorsi le stradine colme di gente e negozi, sempre le stesse.
I sorrisi delle persone che si cimentavano negli acquisti, nelle spese, nel servire i tavoli erano quasi strazianti.
Avrebbero contagiato anche la persona più crudele di questo mondo, ma con me proprio non ci riuscivano.
 
Arrivai alla palestra, mi cambiai velocemente a causa del ritardo, poi raggiunsi le mie compagne.
Mi guardavano male, in fondo come sempre, quasi fossi un aliena, e avrei preferito andarmene.
Però quello in un certo senso era tutto quello che rimaneva, la pallavolo era l’unica cosa che mi faceva sentire bene e con la quale riuscivo a sfogarmi.
E loro erano in un certo senso l’unica mia famiglia.
Erano ragazze snob del centro città, quelle ragazze con la puzza sotto il naso che ti considerano una poverella.
Mi avevano visto soffrire in questi ultimi mesi, piangere in silenzio in un piccolo angolo della palestra, fissare un cellulare che pareva l’avessero obbligato a stare zitto.
Avevano visto le mie occhiaie, il mio fisico sempre più magro, la forza con cui schiacciavo un’insulsa palla.
Ma mai nessuna era venuta a chiedermi nulla.
Né come mi sentivo, né se avevo bisogno di aiuto.
Era come se neanche esistessi, tranne nelle partite dove venivano tutte a fare le lecchine per i miei punti fatti.
 
Attacchi, appoggi, palleggi.
L’allenamento si concluse e mi aspettava di nuovo una giornata come tutte le altre.
Mi cambiai e uscii dall’edificio, senza neanche salutare forse le mie uniche conoscenti.
Mi addentrai nella favolosa città, cercando qualcosa che avrebbe suscitato ancora dei sentimenti in me.
Ma ormai niente era più in grado.
Mi sedetti in un piccolo bar affacciato sulla piazza principale, sempre lo stesso.
“Buongiorno Mad!” Mi disse Anita, la cameriera, raggiante come sempre.
“Ehi! Sì, buongiorno anche a te” Le risposi fingendo un piccolo sorriso.
“Il solito?”
“Il solito An, il solito.”
Ormai “solito” era diventato l’aggettivo della mia vita da ben quattro mesi,  e diventava ogni giorno più  pesante da sopportare.
Aspettai la mia colazione, poi presi il cellulare dalla borsa.
Decisi di scrivere un messaggio, in fondo io non ero mai stata una ragazza debole.
Mi ero sempre fatta coraggio, e questo era un altro di quei momenti.
Messaggi.
Componi messaggio.
“Ehi. Non so se ti ricordi ancora di me, ma oggi è un giorno importante per tutti e due. Forse.. Volevo solo dirti Buon Compleanno. Auguri Liam.”
Opzioni.
Invia.
Invio in corso.
Messaggio inviato.
 
Riposi il cellulare nella borsa e fissai il vuoto.
Neanche volessi cercarlo tra l’immensa folla della città.
Ma forse era così, in me la speranza ci era sempre stata e c’era ancora.
La speranza è l’ultima a morire, no?
  
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