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Autore: Light Rain    21/12/2012    6 recensioni
"Cercavo con tutta me stessa si rimanere aggrappata a quelle realtà che mi sembrava ancora di possedere. Ma non mi ero ancora resa conto che erano già diventate irraggiungibili". Questa è la storia di Annie Cresta, prima, durante e dopo i suoi Hunger Games
_SOSPESA_
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il cielo era grigio quel giorno, coperto da uno spesso strato di nuvole cariche d’acqua.
Ma non pioveva, anche se il venticello umido che soffiava mi inzuppava quasi come ci fosse stato un temporale.
Quanto tempo è passato? Dieci, undici anni?
Non ricordo con esattezza, ma nella mia mente è impresso in modo permanente ogni fotogramma di quella giornata così lontana.
Camminavo lenta, sulla spiaggia del mio Distretto, saltellavo di qua e di là raccogliendo dei sassi neri.
Stavo costruendo una specie di piramide ed avevo deciso che sarebbe stata composta solo ed esclusivamente da pietre molto scure; quando ne avevo raccolte abbastanza tornavo alla mia postazione e le aggiungevo alle altre.
Quel giorno non c’era scuola, mio padre era in mare, mia madre lavorava al negozio di stoffe insieme a mia zia, Riza era a casa con l’influenza e suo padre si prendeva cura di lei. Io non avevo voglia di starmene tappata in casa, così mi ero precipitata in spiaggia, l’unico posto in cui mi sento veramente bene.
Stavo giocherellando con le mie pietre organizzandole per grandezza quando dei passi alle mie spalle mi fecero sobbalzare, mi voltai e a qualche metro da me c’era un bambino che mi fissava. Io non lo conoscevo.
—Ciao— mi disse lui.
—Ciao— risposi esitante. Non mi piaceva avere gente nuova attorno, soprattutto se invadevano il mio spazio ed era proprio quello che stava facendo lui, perché a piccoli passi si stava avvicinando a me.
Non lo guardavo, non ne avevo il coraggio, ai miei occhi da bambina lui appariva come un estraneo da evitare, così me ne stavo ferma ad armeggiare con le mie pietre.
Poi svariati minuti dopo mi sentii picchiettare sulla spalla, mi voltai timorosa e trovai il bambino ancora più vicino a me che mi tendeva la mano, lentamente la aprì e mi mostrò il suo palmo ricolmo di piccoli sassi neri.
Alzai il capo indecisa.
—Posso giocare con te?— chiese con la voce traballante.
Lo guardai con più attenzione: capelli color nocciola che circondavano un piccolo viso paffuto, occhi scuri che mi sembrò mi scrutassero l’anima, un sorriso meraviglioso e rassicurante.
Oh sì, il sorriso è sempre stato il suo punto forte.
Annuii senza dire una parola, in un modo ancora a me sconosciuto era riuscito a convincermi.
Lui entusiasta si mise subito a scandagliare ogni centimetro di spiaggia per trovare dei sassi colore della pece, correva avanti e indietro in preda ad una strana euforia.
Poi, quando ne aveva le mani piene, mi portava le pietre e mi concedeva un gran sorriso per poi ritornare in tutta fretta sulla riva.
Dopo un po’, quando davanti a me vi era una distesa di sassi neri, decisi che non era così male e mi convinsi a parlare.
—Io mi chiamo Annie— farfugliai imbarazzata.
—Io sono Lian— rispose immediatamente sorridendomi.
 
Mi rannicchio sulla poltrona di velluto rosso del palazzo di giustizia.
Non credo di esserci mai stata, vorrei non esserci neanche ora.
Lo scricchiolio della porta mi fa sobbalzare, il cuore martella nel petto e la vista di mio padre con gli occhi lucidi non migliora la situazione.
Mi alzo immediatamente e corro ad abbracciarlo, restiamo lì fermi, a dondolarci uno tra le braccia dell’altro. è tanto tempo che non succedeva, troppo. E non posso fare a meno di provare un pizzico di felicità, perché quel contatto a me così caro, mi è mancato. Più di quanto abbia dato a vedere.
Poi succede l’imprevedibile: mio padre si stacca da me, prende delicato il mio volto tra le mani e, con voce spezzata, inizia a parlare.
—Vedrai, Finnick ti riporterà a casa— inizia lui —è un bravo ragazzo infondo e ci tiene a te. So che farà di tutto per riportarti a casa, quindi andrà tutto bene— mi dice —andrà tutto bene— balbetta abbracciandomi di nuovo.
—Andrà tutto bene— ripeto affondando il capo sul suo petto.
L’ho detto, più per convincermi che per altro.
Può davvero andare tutto bene?
Io non sono pronta per questo, io non...
Si spalanca nuovamente la porta, io mi aggrappo con forza a mio padre ma due pacificatori lo trascinano via da me.
—Ti voglio bene!— mi dice poco prima che la porta si chiuda.
—Anche io!— grido tra i singhiozzi ma ormai me lo hanno già portato via.
Mi strofino istericamente le guance con il dorso della mano con la speranza di scacciare via tutte le lacrime, poi torno rassegnata sulla poltrona.
In questo momento vorrei poter galleggiare sul pelo dell’acqua, vorrei poter chiudere gli occhi, svuotare la mente e lasciarmi trasportare dalla corrente, lasciarmi trasportare lontano dal polveroso palazzo di giustizia, lontano dalla poltrona pungente di velluto rosso, lontano, non mi importa dove.
Lontano e basta.
La porta si apre in uno stridio agghiacciante.
Non sono preparata per la persona che mi si para davanti. Non me lo aspettavo, non è nella lista delle persone a me più care, in effetti è nella lista delle persone che preferisco evitare.
Ma tutto questo passa in secondo piano ora, non mi importa dei nostri bruschi precedenti, non mi importa di niente in questo momento.
Se non di riuscire ad aggrapparmi ad un’ancora, perchè è come se stessi inesorabilmente sprofondando in un vortice oscuro ed ho bisogno di un appiglio per ritornare un po’ in me.
E quando mi alzo per andare ad abbracciarlo, Thom è pronto ad accogliermi, mi stringe forte e mi accarezza delicatamente la nuca mentre io singhiozzo spiegazzando la sua camicia.
Io non voglio andare, non voglio partire perché so già che non ho speranze di tornare a casa, io non...
—Sai circa un anno fa ero in mare con mio fratello— inizia d’un tratto Thom con voce dolce —era una giornata come tutte le altre, la pesca non rendeva molto bene, tiravamo su le reti e le trovavamo quasi sempre completamente vuote— prosegue continuando a cullarmi delicatamente —così, annoiato, mi ero appollaiato sul lato destro della barca, giocherellavo con una vecchia rete e guardavo le piccole onde che si infrangevano sull’imbarcazione ed è allora che l’ho  vista— si ferma per qualche secondo —una sirena— afferma convinto.
Tiro su leggermente la testa, sbucando dalla camicia umida di Thom.
—è vero— ridacchia lui —è inutile che mi guardi così— dice con voce ferma sorridendomi.
I singhiozzi iniziano a farsi più radi e il respiro meno affannoso.
—L’ho vista per un attimo ma giuro che era una sirena— continua lui deciso —aveva lunghi capelli dorati, la pelle squamosa ed una lunga...—
—Tu ti immagini le cose Thom— lo interrompo bruscamente sciogliendo l’abbraccio.
—Stai forse insinuando che sono un bugiardo— obbietta lui.
—No sto insinuando che ti immagini le cose e che probabilmente hai visto un tonno e lo hai scambiato per una sirena— proseguo asciugandomi le guance.
Sta per ribattere ma la porta si spalanca di colpo, lui mi guarda nel panico mentre un pacificatore lo trascina fuori.
—Ci vediamo quando torni a casa!— mi dice prima di sparire.
Annuisco, anche se ormai sola.
Quando torno a casa?
C’è speranza per me di tornare? In mezzo a tutti gli altri ragazzi, in un mondo che non mi appartiene, insieme a...
—Lasciatemi passare!— sento gridare fuori dalla stanza —lasciatemi passare!— ripete ma questa volta la porta si apre e riesco a vedere a chi appartiene.
—Annie!— urla Riza correndomi incontro.
E mentre mi tuffo tra le sue braccia tutte le orribili sensazioni che mi era sembrato di dimenticare poco prima tornano ad emergere con vigore, dilaniandomi in petto.
—Annie come ti senti?— chiede mia cugina.
—Non bene— rispondo con la bocca impastata.
—Annie non ti preoccupare si sistemerà tutto— dice un’altra voce.
Mi stacco da Riza per incrociare gli occhi di mia zia, le vado incontro per abbracciarla.
—Tuo zio ti vuole far sapere che ti vuole bene— dice stringendomi forte.
—è con mio padre, vero?— chiedo preoccupata.
—Non se la sentiva di lasciarlo— mi dice lei.
Sono un po’ più rassicurata, non è da solo, e non lo sarà neanche dopo.
—Noi tutti ti vogliamo bene e crediamo in te— aggiunge Riza.
—Lo so, ma...— balbetto io.
—Ma niente, Annie tu tornerai a casa e si sistemerà tutto— mi interrompe mia cugina.
Mi volto per guardarla, Riza ha sempre avuto un gran carattere, e sentirle pronunciare queste parole mi da un po’ di forza, ma nel mio animo questa battaglia la vince la paura.
Perché è impossibile che si possa sistemare tutto.
—Judianna ti voleva salutare ma...— prosegue mia cugina.
—Judianna— sussurro io. La ragazzina che mi fa sempre sorridere, la sorella di...
Alzo lo sguardo, gli occhi di mia cugina sono rossi e lucidi, sembra che stia per crollare da un momento all’altro.
—Come sta lui?— azzardo io. Sono sicura che lei ha avuto modo di vederlo.
Ed è in quel momento che Riza esplode, iniziando a piangere rumorosamente.
—Perché Annie? Perché deve succedere tutto questo!— grida lei tra i singhiozzi.
Non lo so, vorrei risponderle, ma ho perso l’uso della parola.
In effetti ho perso molto più della parola, ho perso la capacità di ragionare, di formulare un pensiero che sia più di un monosillabo.
Forse non sono io che non ne sono più capace, forse è che mi rifiuto proprio di pensare, perché tutto quello che mi frulla in testa non è confortevole, è distruttivo, macabro, semplicemente orribile.
—Annie ti vogliamo bene— sento dire da mia zia.
La porta si è già nuovamente spalancata e stanno portando Riza e sua madre fuori.
—Andrà tutto bene— urla lei scomparendo dietro la porta.
Ora quelle parole mi appaiono chiare, mi attraversano l’anima in meno di un secondo.
Ed è in quel preciso istante, sola con me stessa, che il mio cervello torna a funzionare, non so se sia un bene o un male.
—Andrà tutto bene— ripeto in un sussurro.
E questa volta sono profondamente convinta che sia la più grande cazzata che abbia mai sentito.
Non puà andare tutto bene, non può andare neanche minimamente bene.
Perchè io andrò agli Hunger Games, in un’arena piena di gente pronta ad uccidermi a sangue freddo, in un’arena dove solo uno torna a casa.
Ma noi siamo in due.
è questo il punto che cerco di evitare da quando sono entrata qui, è questo il punto che mi sta letteralmente mandando fuori di testa: Lian, il mio migliore amico entrerà in quell’arena insieme a me.
Nel migliore dei casi uno muore e l’altro torna a casa.
Il mio peggior incubo non è neanche minimamente comparabile con questo.
Quindi come può andare tutto bene?
Nel migliore dei casi uno muore e l’altro torna casa.
Dopo aver preso coscienza di questo la mia testa si svuota di nuovo, mi ritrovo alla stazione davanti ai fotografi senza ricordare come ci sono arrivata, esattamente come è successo alla mietitura.
Incrocio per un istante gli occhi di Lian, sposto immediatamente lo sguardo, non è questo il posto adatto per parlare, davanti alle telecamere, questo è il posto per sorridere e farsi vedere forti e determinati agli occhi di Panem, ed è quello che faccio io, per quanto mi è possibile.
Quante cose vorrei dire a Lian, ma tutte mi sembrano allo stesso tempo sia giuste sia sbagliate.
Perché solo uno torna a casa. Solo uno. Ma noi siamo in due.
Come posso mettere la mia vita davanti alla sua? Come posso scegliere tra me e lui? Come posso voler vincere sapendo che Lian...
Ed infatti non posso.
E questa consapevolezza mi fa affondare di nuovo nel mio vortice di disperazione.
—Sù, sù salite che è tardi— squittisce Cloude spingendomi sul treno.
Non ho neanche il tempo di guardarmi un po’ attorno che ci stiamo già muovendo, la velocità mi toglie il fiato.
—Dov’è?— sento gridare d’un tratto —dov’è lei?— prosegue con più disperazione.
Non finisco neanche di pronunciare il suo nome che Finnick mi sta già abbracciando.
Quanto mi è mancato. Poter sentire il suo calore, il suo profumo, le sue mani sul mio corpo, poter sentire che lui c’è, che lui è qui e lo sarà fino alla fine e questo mi conforta un po’.
—Annie...— inizia lui, ma si ferma quasi subito.
—Ti prego non dire niente— farfuglio.
Perché non ho voglia di sentire altre cazzate del genere che “andrà tutto bene”, perché non c’è niente che possa andare per il verso giusto, niente. E questo Finnick lo sa.
—Ti amo— sussurra dolcemente.
Questo sì, questo mi va di sentirlo.
—Anche io— rispondo con la voce traballante.
Restiamo ancora lì per un po’, a dondolarci respirando uno il profumo dell’altro, ce ne freghiamo della voce squillante di Cloud che ci incita a staccarci, ce ne freghiamo che questo treno ci sta portando nel luogo più detestabile di tutta Panem, ce ne freghiamo semplicemente del mondo intero, perché adesso ci siamo solo io e lui, indivisibili.
E questo mi basta per essere felice ora, Finnick è tutto ciò che mi serve.
Allentiamo l’abbraccio e finalmente ci possiamo vedere negli occhi.
Quanto è bello. Me ne sorprendo tutte le volte
Mi metto in punta di piedi in cerca delle sue labbra, ci incontriamo immediatamente in un bacio che non ha niente di casto, non mi trattengo, non ho la minima intenzione di farlo, anche Finnick sembra pensarla come me.
—O mio dio! Cosa state facendo!— strilla Cloud in preda ad una crisi isterica.
Non la ascoltiamo, perché dovremo? Probabilmente tra due settimane sarò morta.
—Insomma smettetela voi due!— continua lei.
Le mani di Finnick si spostano sui miei fianchi mentre io gli accarezzo la nuca giocherellando con una ciocca dei suoi capelli color del bronzo. Le nostre labbra si muovono sempre più frenetiche, mosse da una irrefrenabile passione arrivata, piacevolmente, nel giorno più brutto della mia vita.
Ma come ho detto prima, ce ne freghiamo.
Andiamo a sbattere contro un muro e lì restiamo, fino a quando Finnick si stacca da me dopo l’ennesimo urletto contradditorio della nostra accompagnatrice.
—Per la miseria Cluod stai zitta!— urla Finnick.
Lei sembra arrabbiarsi ancora di più e dopo averci fulminato con lo sguardo si sposta in un altro vagone.
Dopo di che lui torna su di me, mi guarda con i suoi magnifici occhi color verde mare e mi bacia, dolcemente.
Poi sprofondo dinuovo tra le sue braccia finché non mi sento sufficentemente pronta per affrontare il mondo reale, quello dove io e Finnick non possiamo essere felici.
Afferro la sua mano e ci dirigiamo lenti nell’altro vagone, dove, si sono spostati tutti gli altri.
Cloud ci lancia una occhiata per poi tornare ad incipriarsi il naso, noi la ignoriamo.
Poi una figura si alza e si dirige verso di noi: Lian mi fissa senza parlare, neanche io lo faccio, ma quando spalanca le braccia io non esito un istante nel tuffarmici dentro.
Elian Havelock, il mio migliore amico, conosciuto più di dieci anni fa raccogliendo sassi color della pece, di cui ho scoperto da poco l’intero nome, per cui provo un’affetto che non è neanche quantificabile.
—Ci siamo infilati in un bel casino— inizia lui —ma supereremo anche questa— conclude baciandomi sul capo.
E per un unico fugace secondo io ci credo davvero.
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fine del mondo non ti temo!
Mi scuso per il ritardo, ma la scuola mi toglie un sacco di tempo e aggiornare oggi è il massimo che ho potuto fare.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere che ne pensate ;)
Vorrei ringraziare tutti coloro che seguono la mia storia, è grazie a voi se è arrivata così lontano, quindi grazie di cuore!
Alla prossima
Baci
Light Rain
  
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