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Autore: AltheaM    29/12/2012    1 recensioni
Una leggenda celtica racconta che nel cuore dell'oceano sorga un'isola dove dimorano le anime dei morti, in una perenne primavera. Su di essa, uno solo calca le sue fruttifere terre recando il dono della vita...Colui che è destinato a tornare.
" Fin dove è pronto a spingersi il destino per te, Jim Hawkins? [...] E se Avalon non fosse solo una leggenda? Saresti pronto a seguirmi? "
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 5

Nel buio


Pioveva.
Gocce diamantine precipitavano fitte dai ventri scuri delle nuvole bitorzolute, regine adipose di un cielo ormai privo di qualsiasi colore. Le poteva sentire picchiettare con insistenza sui vetri delle finestre, come a voler entrare per ripararsi dal vento gelido che soffiava impietoso su Montressor.
Era rimasta immobile a fissare quello spettacolo, così ordinario, eppure segretamente seducente, affondando lo sguardo paglierino in quel manto nebbioso che sembrava avvolgerli.
Aggrottava la fronte pensierosa, mentre i suoi occhi tentavano invano di seguire il percorso rettilineo di quelle gocce, una ad una, e la sua testa si riempiva di reminiscenze.
C’era l’acqua nei suoi ricordi. Tanta acqua.
A volte aveva la sensazione di annegare quando, di notte, essi tornavano a farle visita nei suoi sogni, sfocati.
C’era molta acqua. Troppa.
Nascondeva ogni cosa dietro la sua superficie irrequieta, impedendole di guardare cosa vi fosse sul fondo, di scorgere i frammenti del suo passato che sembravano essere oramai andati perduti. Uno specchio d’acqua torbido, troppo agitato per mostrare le immagini, i segreti che custodiva nel proprio ventre.
C’era solo acqua, così tanta da sommergere la sua mente, da renderla cieca.
La sentiva negli occhi, nella gola, nelle narici, pregne di quel flusso inconsistente che irruente scorreva senza sapere dove sfociare. Era sola in balia di quel mare, trascinata in un punto in cui i suoi piedi non riuscivano più a toccare il fondo sabbioso, sospesa nel fluido, insolitamente leggera.
“Hela!”
Jim la strattonò con sgarbo, minacciando di farle cadere dalle mani i piatti ingombri di strane sostanze viscide, alcune esalanti ancora vita. Esse traballarono pericolosamente, cercando di cogliere l’occasione per fuggire al loro destino, sospingendosi con disperati e affannosi spasmi verso il pavimento. La ragazza si riscosse al suono di quel nome, sentendo l’acqua scomparire, dissolversi, evaporare dai suoi pensieri. Si voltò ancora trasognante, rivolgendo uno sguardo interrogativo verso il ragazzo che l’aveva appena strappata ad un altro dei suoi molti momenti di riflessione, di perdita completa della percezione della realtà.
Hela, saggiò nella bocca dei suoi pensieri, socchiudendo gli occhi, guardando oltre il volto di quel giovane bruno. Era così che Jim aveva cominciato a chiamarla, e con il passare del tempo quello era diventato il suo nome…Era sulla bocca di tutti.
“Montressor chiama Hela!”
Insistette Jim, passandogli una mano davanti agli occhi. La ragazza li sbattè più volte, sorpresa, quasi disturbata.
“Eri finita fuori orbita?”
Scherzò lui, dandogli un buffetto sulla testa e scompigliando la cascata di ricci che lei aveva inutilmente cercato di ordinare in una treccia. Hela arricciò il naso, cacciando fuori la lingua. Routine quotidiana per loro due.
Si trovava lì alla locanda oramai da qualche settimana, ma per quanto si sforzasse, ancora non era riuscita ad adattarsi agli strani individui che erano soliti infestarne la sala da pranzo, inorridendo a volte sotto gli sguardi languidi o strabici in cui incorreva.
Sarah aveva deciso che era rimasta per troppo tempo a letto, e data la sua spiccata incapacità di relazionarsi con gli altri, aveva pensato che, forse, dandole qualcosa da fare si sarebbe calmata. Chiacchiere, aveva pensato lei. Era solo una scusa per costringerla a passare più tempo con quel ragazzo arrogante nell’assurda speranza che smettessero di rimbeccarsi ogni volta che gliene veniva data la possibilità.
Sospirò all’idea, come rassegnata: d’altronde era lei che le forniva vitto e alloggio, il minimo che potesse fare era assecondare quella sua idea stravagante, ingoiare il rospo e continuare a convivere con quella situazione. Ravvivò la presa sui piatti, scrollandosi di dosso la solita malinconia che, di tanto in tanto, amava calare il suo caldo e rincuorante abbraccio su di lei, e ricompose la propria espressione, in modo da sembrare meno stralunata, evitando in tutti i modi il suo sguardo.
Jim, immobile davanti a lei, se ne stava in silenzio a fissarla, cercando nei suoi occhi l’ennesima risposta che Hela gli rifiutava, interrogandosi sul perché quella ragazza apparisse, giorno dopo giorno, sempre più taciturna, più misteriosa…Sempre più maledettamente intrigante. Rimase fermo, mentre lei si staccava dalla sua inerzia e si allontanava a passi rapidi, chinandosi su quegl’indefinibili mostri che troneggiavano con il loro untuoso lardo ai tavoli, spogliandola con sguardi lascivi e maliziosi. Avvertì un’indicibile morsa allo stomaco, un fastidio improvviso, quasi qualcuno avesse deciso di cavarglielo dal ventre e calpestarlo; una smorfia gli venne strappata dal volto, senza che lui potesse controllarla, mentre le sopracciglia si aggrottavano aggressivamente e i denti si serravano come le fauci di una tagliola. Socchiuse le palpebre, sostando con gli occhi su quel lurido individuo che si ostinava a trattenerla al suo tavolo, allungando la mano mutila di tre dita verso di lei e mostrando in un ghigno inquietante una dentatura sporca, ingiallita, segnata da ampi spazi vuoti. Un ringhio gli grattò la gola, sospinto da un istinto quasi animalesco che era avvampato nel suo petto.
“Oh Jim, eccoti qua! Temevo di averti perduto! L’ho trovato Sarah!”
Le urla sconnesse e frenetiche di Ben gli giunsero alle orecchie come il ronzio fastidioso di una zanzara, costringendolo ad abbandonare quella pietosa scena per rivolgergli la sua attenzione che, senza minimo dubbio, si sarebbe comunque preso. Il robot, con il capo coperto da un ampio cappello da cuoco pieno di sbuffi e risvolti, gesticolava animosamente davanti a lui, sfiorandogli a volte il naso di pochissimi centimetri.
Jim fremeva.
Tamburellava sulla coscia con le dita in modo irrequieto, trattenendosi dal guardare Hela per paura della spiacevole sensazione che pareva accendersi in lui ogni volta che la guardava, simile ad un interruttore di cui solo lei era padrona.
“Ma…Ma cosa stai guardando?”
“Mph?”
Rispose quasi di getto lui, aggrottando le sopracciglia in un’esagerata espressione di sorpresa e sporgendosi in avanti con tutto il busto, forse nell’assurda convinzione di potergli nascondere quello che stava avvenendo dentro e fuori di lui. Ben rimase interdetto, comprendendo subito che qualcosa girava macchinosamente nella testa di quel ragazzo.
“Cosa c’è?”
Domandò allora, facendosi più vicino e circospetto, sussurrando con un filo di voce e portandosi la mano davanti alla bocca per coprire le sue parole. Si guardò intorno lentamente.
“Chi o cosa stiamo guardando?”
“Ben che stai dicendo? E perché parliamo così?”
Cambiò subito discorso Jim, assumendo un’espressione falsamente intimidita, imbarazzata, senza però muoversi. Sentiva gli occhi di tutta la sala su di lui. Gli occhi di Hela.
“Non lo so, hai cominciato tu.”
Sbottò allora il robot interrompendo quell’immaginario dialogo segreto, facendo un passo indietro e alzando il tono di qualche ottava. Jim si portò un dito alle labbra facendogli segno di tacere e cominciò a spintonarlo verso la cucina. Come se non fosse abbastanza evidente la sua presenza, ora si metteva anche a gridare! Non riuscì a far a meno di chiedersi se anche le li stesse guadando, se avesse colto quel dolore che gli infliggeva la sua persona ogni volta che qualcuno si fermava anche solo per dirle “ciao”, la sensazione di imbarazzo che gli provocavano quegli occhi a mandorla. Scosse la testa, spingendo Ben farfugliante oltre la porta della cucina, senza però riuscire a trattenersi dal guardarla ancora una volta…Trovando gli occhi di lei a ricambiare i suoi.
Sorpreso, si sbrigò ad entrare, paonazzo in volto, richiudendosi con velocità la porta alle spalle. Il respiro gli si era fatto improvvisamente corto ed il cuore pulsava nevrotico dentro di lui; sentiva caldo. Molto caldo.
“Qualcosa non va Jim?”
Intervenne allora Ben che lo stava studiando da un po’, la voce allusiva. Jim scosse la testa vigorosamente.
“No, è che…Con tutti questi sbuffi e vapori la cucina sembra un dannato inferno.”
Tagliò corto lui, gettandosi sui primi piatti pronti che riuscì a trovare.
“Vai di fretta Jim?”
Chiese il robot. Non lo degnò nemmeno di una risposta.
 
Era sera tarda quando tutti, finalmente, si decisero a pagare ed andarsene. La locanda si svuotò in un fuggi fuggi generale, neanche avessero appiccato un incendio, lasciando la sala nel silenzio più totale. Niente più tintinnii di forchette, o fastidiosi risucchi, nemmeno un bambino a correre all’impazzata fra i tavoli, né rutti sonori a ravvivare l’ambiente. Solo silenzio e buio.
Hela se ne stava appoggiata pesantemente sul manico della scopa in un equilibrio estremamente precario. Sentiva le gambe così affaticate che parevano tremare come fuscelli, incapaci di sostenere ancora il suo peso; i piedi le dolevano atrocemente, quasi qualcuno avesse deciso di riempirli di spilli per scherzo.
Non ricordava di aver mai provato una stanchezza simile, una stanchezza tale da sopraffarla, rendendole difficile anche solo l’abbandonarsi s’una sedia. Sospirò rumorosamente quando infine si concesse un po’ di riposo, rilasciando con sgrazia la schiena e la testa all’indietro, avvertendo i muscoli rilassarsi. Era leggera, eppur estremamente pesante per la fatica su quella seggiolina che doveva aver sopportato corpi più gravosi. Aveva la testa sgombra, ma piena di un nuvolo ronzante di pensieri sconnessi, di memorie di quella serata, di immagini lasciate lì dal caso. Amava ricalcare ogni passo della giornata,fiera di avere finalmente dei ricordi da custodire e sentendosi per qualche istante viva, realmente esistente.
La notte illuminava ogni cosa con il suo pallidissimo bagliore di latte, trasformando la sala in un abisso di legno, tinta com’era di varie tonalità bluastre; di tanto in tanto qualche sfumatura più chiara interrompeva quell’andamento piatto di ombre, quasi mimando l’ondeggiare pigro delle onde.
Distesa nel silenzio, Hela si sentiva come intrappolata in un antico vascello incagliato nelle profondità marine.
“Già finito?”
Domandò Jim, puntuale intruso nei suoi momenti di calma, disturbando la quiete di quel luogo. Senza volerlo, si era lasciata sfuggire uno sbuffo di fastidio, sorpresa dall’incredibile capacità di quel ragazzo di capitare sempre nei momenti in cui preferiva starsene sola con se stessa. Lo sentì ridere, arrestarsi nel buio.
“Scusa, pensavo volessi un po’ di compagnia.”
La rimproverò quasi con tono ferito. Hela non ebbe nemmeno la forza di alzarsi, di ricomporsi, limitandosi solo ad agitare un braccio, facendogli segno di raggiungerla. D’altronde quella sera le era stato stranamente alla larga, non l’aveva infastidita in nessun modo; si sarebbe potuto dire che avesse quasi sentito la sua mancanza…Ma solo un pochino! Sentì di doverglielo quel momento…O meglio, di non poterne fare a meno.
Jim nel frattempo le si era seduto di fronte, racimolando rumorosamente una sedia dal mucchio; le sue ginocchia urtarono delicatamente quelle di lei. Appoggiò infantilmente il volto sullo schienale della sedia, ponendo una barriera fra di loro, come non fosse sicuro di tutta quell’improvvisa “gentilezza”.
Hela sorrise divertita. Che la temesse? Si lasciò scappare un risolino. Contrasse ironicamene le mani a mo’ d’artiglio, mimando il gioco crudele del gatto che stuzzica la sua preda prima di finirla.
“Perché ridi?”
“Perché mi va.”
Disse secca lei, senza troppi giri di parole. Lo sentì muoversi un poco, intravedendo la sua sagoma nel buio. Gli occhi. Non riusciva a vederli. Per la prima volta riuscì a sentirsi a suo agio, non costretta a dover tirar fuori le unghie e starsene sulla difensiva…Forse perché era impenetrabile al suo sguardo. Si rilassò.
“Bella serata…”
“Orribile!”
Commentò subito lei per correggerlo, ricalcando ogni lettera di quella parola con eccessiva teatralità.
“Credevo non fisse più!”
Confessò con tono disperato.
Jim ne rimase, chissà perché, piacevolmente sorpreso; forse fu questo a dargli la spinta per parlare ancora, per insistere, o forse non voleva rinunciare a quel magico momento in cui finalmente lei gli stava veramente parlando, temendo che un qualsiasi silenzio la facesse desistere dal continuare.
“Ho visto che ti sei data da fare con i clienti.”
La imboccò lui, sperando di cavare di più da quelle labbra silenziose, impenetrabili. Hela rise ancora.
“Già, beh…Sai come si dice!”
“Veramente no.”
Rispose subito, troppo velocemente. Seguì un lungo attimo di silenzio.
“Già nemmeno io…Era tanto per dire.”
Borbottò Hela, risollevandosi finalmente da quella sgraziata posizione e portandosi in avanti, appoggiando le braccia sulle gambe, più composta. Lo sentì pericolosamente vicino al suo volto.
Nel buio avvertiva amplificate le proprie sensazioni, quasi esplodessero con veemenza dal proprio cuore per prendere corpo vivo al di fuori di lei. Avvertiva il piacevole tepore del suo respiro accarezzarle gli occhi, che chiuse golosamente, volendolo assaporare appieno; socchiuse le labbra, come a voler restituire quel fiato delicato, mentre i muscoli della schiena si tendevano involontariamente, spingendola verso di lui, verso quella bocca profumata che l’attraeva magneticamente. Strinse i pugni. Prima con forza, poi sempre più piano, mentre il cuore rallentava progressivamente i suoi battiti, dilatando il tempo. Non lo vedeva, eppure avvertiva la sua presenza più tangibile che mai e questo scatenava in lei un turbinio di dolore e piacere che divampava dallo stomaco e sfumava ovunque, fino alla punta dei capelli.
Lentamente avvertì qualcosa sfiorarle il dorso delle dita, leggerissimo, timoroso, come se qualcuno la stesse accarezzando con una piuma. Il sangue si gettò precipitosamente nelle vene, gonfiandole e scaldandole, lasciando dietro la propria corsa un sentiero di brividi. Là, dove i polpastrelli di Jim la stavano sfiorando inesperti, la pelle cominciò a formicolare.
“Sai…”
Bisbigliò, facendo scivolare le dita di lui sulla propria mano, la testa china per evitare di stargli troppo vicina. Ogni ostilità si era improvvisamente spenta nella sua voce.
“Dimmi.”
La incoraggiò lui, tentando di mantenersi il più neutrale possibile, mentre le sue dita la sfioravano con più pressione, avide di sentire quella pelle morbida sotto di loro. La testa era un’esplosione di sensazioni, di emozioni, pensieri, parole, accalcate le une sulle altre senza dargli nemmeno il tempo di capire; le orecchie, incendiate da un calore interno, erano sorde a quello che accadeva intorno, infondendogli un inspiegabile sensazione di vertigine. Poi, senza che se ne accorgesse, la brama di sentirla contro la sua pelle guidò le sue dita fin nei capelli di lei, osando, però, sforarne solo le punte morbide.
Hela aprì gli occhi.
“Forse dovremmo andare a dormire.”
Borbottò tutto d’un tratto, separandosi di scatto da lui, come spaventata da quell’esagerata vicinanza, da quella che ai suoi occhi appariva come una violazione, un eccesso per nulla gradito. Si alzò, ponendo precipitosamente un piede dietro l’altro per aumentare la distanza tra di loro.
Jim rimase in silenzio, sbigottito.
“Sono…Sono molto stanca…D-dovremmo proprio andare.”
Aggiunse sconclusionata, toccandosi i capelli nel punto esatto in cui le sue dita aveva sostato pochi secondi prima, cacciando via ogni traccia di quel contatto.
“V-vabene.”
Si limitò a rispondere lui, ancora scosso. Hela si sforzò a sorridere, dimenticandosi che, in ogni caso, lui non avrebbe potuto vederla.
“Bene…Allora…Buonanotte.”
Arrabattò in tutta fretta, schizzando su per le scale e lasciando dietro di sé solo il rumore di passi frettolosi.
“Buonanotte…”
Bisbigliò Jim soprappensiero, rimanendo con gli occhi fissi, la mano ancora sospesa nel vuoto, tesa verso di lei. Non capiva, non si capacitava di quello che era appena accaduto; non riusciva a cogliere il significato di ogni suo singolo gesto, né la reazione di Hela. Cos’era successo? Com’era finito a ritrovarsi da solo? Cosa aveva fatto per farla fuggire in quel modo? Sentiva che tutte le sensazioni che aveva provato fino a pochi attimi prima si erano come spente, dissolte; Hela aveva premuto l’interruttore e la sua anima si era acquietata. Sbattè le palpebre, chiudendo di scatto il pugno, alzandosi dalla sedia e allontanandosi da essa, quasi conservasse ancora nel legno le emozioni provate in quella manciata di secondi; si passò nervosamente un mano nei capelli, afferrando i pensieri, mettendo ordine in quella testa annebbiata dall’insicurezza.
Non era successo niente. Non era successo proprio un bel niente.
Aveva ragione Hela: doveva andare a dormire. Era stanco e la stanchezza confondeva i suoi sensi e gli faceva credere cose che in realtà non c’erano mai state.
Non era successo nulla. Nulla. Se ne sarebbe andato a letto e domani si sarebbe reso conto che quello che lui aveva creduto “qualcosa” in vero non era “niente”. Nel buio era tutto più confuso. Il buio rendeva le cose misteriose…Cose che alla luce erano, invece, normalissime. Il sole, la mattina avrebbe gettato senso su quei pochi secondi passati insieme a lei e li avrebbe trasformati in normalissimi attimi in cui non era avvenuto proprio…
“Nulla.”
Bisbigliò lui, affrettandosi a salire le scale.
Nulla. Non è successo nulla.
 
Hela se ne stava silenziosamente accovacciata sul proprio letto, le gambe incrociate e la schiena ingobbita dal peso dei propri pensieri. La luce entrava flebile nella stanza, riuscendo a delineare a malapena i contorni delle cose che l’affollavano e, che sonnecchiavano pigramente in ogni angolo; tutto appariva avvolto di una calma strana, piatta, eppure incredibilmente agitata e tesa.
Si sentiva totalmente incapace di muoversi, pietrificata nel suo stesso corpo. I capelli, ormai privati della loro costrittiva acconciatura, ondeggiavano selvaggiamente, danzando sospinti dal vento che soffiava dalla finestra spalancata, forse l’unica cosa veramente mobile in quel momento. Persino nei pensieri si sentiva bloccata. Rigirava distrattamente lo sguardo sul palmo della propria mano, là dove troneggiavano quegli strani simboli che ricordava di aver sempre avuto, ma dei quali non le era mai interessata l’origine. Perché? Si chiese. Eppure erano evidenti, erano lì. Li guardava con insistenza quasi ossessiva: righe biancastre che le deturpavano la mano fino al polso, contornate da un rosso vivido simile a quello della carne; ma non sentiva alcun dolore. Non ricordava di averne mai sentito.
Per quanto si sforzasse, in quel momento non riusciva a suscitare dentro di sé un minimo d’interesse per quegli strani segni, nonostante vi si aggrappasse con tutta la forza, pur di non ritornare al ricordo di quella strana sera. Obbligava i propri occhi a starsene fissi su di essi, la mente a non viaggiare da nessun’altra parte se non lì, stringeva le labbra trattenendo i tremori che le passavano per tutto il corpo. Ma non ci riusciva.
Nel buio le sembrava di scorgere ovunque quella presenza che le faceva vibrare il petto e agitare la mente.
Nel buio sentiva di essere imprigionata nell’istante esatto in cui tutte le sue emozioni erano esplose, invadendola con una veemenza tale da spaventarla.
Nel buio, per la prima volta, le parve di non essere più sola.
Scosse la testa, ridestandosi dalla sua forzata immobilità: che sciocca! Si disse, passandosi stancamente una mano sulla fronte, grattandola nell’intenzione di penetrare nella propria testa, di afferrare ogni cosa e fare pulizia. Si chiese per quale assurdo motivo Jim si fosse comportato in quel modo, perché si fosse preso la libertà di quel contatto, perché fosse rimasto in silenzio. Di nuovo, le mani corsero ai capelli, lisciandoli con vigore ossessivo, come volendone piegare i ricci, ma inutilmente: essi tornavano ogni volta al proprio posto, sempre più voluminosi e morbidi. Voleva cacciare via ogni traccia, ogni ricordo. Domani voleva svegliarsi e far finta che non fosse successo nulla. Nulla.
  
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