24 dicembre
A Natale puoi,
fare quello che non puoi fare mai…
Violet
guardò in cagnesco la pubblicità che erano soliti dare ogni anno alla
televisione, come parte integrante di quel magico momento che rendeva unite
tutte le famiglie del mondo davanti a un camino – per chi ce lo aveva –, a una
tavola imbandita di ogni genere di pietanze o semplicemente davanti a un
televisore che ritrasmetteva ogni santo
anno gli stessi film: “Santa Claus è nei guai”, “Babbo Natale si sposa”, “Il
figlio di Babbo Natale”, “Babbo Natale e la solitudine delle renne”, “Babbo
Natale e gli elfi alcolizzati”, “Il Grinch”, “Babbo
Natale e Aveterottoimaroni”…
Quel momento
era altrimenti conosciuto come Natale.
Un’ottima
occasione per i centri commerciali di attirare i compratori nei suoi negozi
carichi di sconti del 20-30% e far dimenticare loro che c’era la crisi.
Pensando a
tutto questo durante la pubblicità, osservò con più intensità i volti
sorridenti dei bambini che si stringevano le manine, che cantavano all’unisono
– cosa che nessun moccioso delle elementari era in grado di fare –, e infine
guardò quasi con disprezzo bambini e genitori che addentavano voraci il pandoro
della Bauli come se si trattasse di ambrosia divina.
A Natale puoi…
Lei non
odiava il Natale, e neppure il pandoro, che poi era uno dei suoi dolci
preferiti.
Non odiava
neppure i bambini o i genitori ebeti.
Odiava però
la falsità delle pubblicità che infarcivano le menti di buoni ideali e
propositi, quando, alla fin fine, non c’era niente di vero neppure in quelle
frasi di circostanza.
“Che
amarezza…” sussurrò, rivolta allo schermo che aveva cambiato subito le
immagini.
“Che hai
detto?” le gridò suo fratello, impegnato nell’ultimare un cartoncino nero
ricoperto di cotone, polverina oro e chiazze rosse e bianche che dovevano
rappresentare – con un enorme sforzo di immaginazione – la figura tondeggiante di
Babbo Natale.
“Niente,
pensa a finire quel… Coso!” disse
lei, distogliendo lo sguardo disgustato dalla televisione.
“È il regale
per Babbo Natale!” protestò suo fratello, alzando gli occhi marroni e
puntandoli sulla sorella.
“Ma non
dovrebbe portarteli lui i regali? Lo fa ogni anno!”
“Ma così lo
ringrazio…”
Violet
sospirò e alzò gli occhi al cielo, sconfitta in prima linea dalle
giustificazioni di suo fratello; gli andò vicino e osservò meglio il
cartoncino, facendo un enorme sforzo per vederci una figura umana.
“Vabbé, devo ammettere che è… Carino”
“Bugia”
“No, dico
sul serio: a Babbo Natale piacerà di sicuro!” mentì.
Se saprà riconoscersi…
“Tu non hai
mandato la letterina?”
“Edoardo,
sono ormai sette anni che non scrivo più a Babbo Natale”
“Ma così non
ti porterà nulla…”
L’innocenza
di suo fratello, sebbene le costasse molto ammetterlo, la disarmava ogni volta.
Per lui, la sorella non si trovava nella fase adolescenziale – ovvero
abbastanza lontani dall’infanzia, non troppo vicini alla fase adulta –, ma in
una fase senza tempo, nella quale i bambini sono soliti inserire i “giovani
adulti” per non sbagliarsi: una fase in cui si può ancora credere in Babbo
Natale, ma fare cose proibite per i bambini.
Per loro,
questa è la fase migliore di tutte.
Con una
scrollata di spalle, Violet si allontanò e alzò gli
occhi alla parete in alto, per poi voltarsi immediatamente.
“Ehi, sono
le dieci e mezza, perché sei ancora qui, sveglio e con le mani occupate? Vai a
dormire!”
“Ma non ho
sonno!” si lamentò il fratello, tornando al suo lavoretto.
Violet
si massaggiò le tempie e, facendo ricorso al suo miglior tono cattivo e
intimidatorio, si apprestò a usare l’eventuale minaccia che era solita
rivolgergli ogni anno.
“Se non vai
a dormire, Babbo Natale non passa, quindi niente regali”
L’effetto
delle parole fu immediato.
Suo fratello
abbandonò la sedia e, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere, si rifugiò
nella sua camera, chiuse la porta, si infilò sotto il letto e spense la luce,
sicuro che non avrebbe chiuso occhio per la prima parte della notte.
Con un’espressione
soddisfatta, Violet rivolse un’occhiata fugace
all’albero di Natale addobbato con ogni genere di palline, ninnoli e altro.
Ricordava che una volta da piccola tentò senza successo di nascondersi dietro
l’albero, sveglia, in attesa di vedere Babbo Natale e scoprire finalmente come
riuscisse a entrare nella sua casa, che non aveva un camino.
Ma non lo
scoprì mai.
Stiracchiandosi,
spense la luce del salotto e si diresse nella sua camera, con l’unica compagnia
di un libro e del silenzio.
E con l’opprimente
sensazione che quella notte sarebbe successo qualcosa di inspiegabile.
Forse
proprio per questo non riuscì a chiudere occhio, eccitata, in attesa di quel qualcosa, e forse proprio grazie a
questo sentì, nel cuore della notte, picchiettare alla sua finestra.
*
“Re del blu, re del mai, non ho più dentro me
quella voglia di terrore e di guai…” canticchiò Elena in giro per la casa,
in preda ad un evidente attacco di sonnambulismo cronico.
Aveva
l’inspiegabile e irrefrenabile voglia di cantare quella canzone di Jack sotto
la luna, fuori al freddo e al gelo, con la neve, che in quegli ultimi tempi non
smetteva più di cadere, alta un metro e mezzo sotto casa. E tutto questo, come
tentava lei stessa di autoconvincersi, non era dovuto al fatto che in quella
settimana aveva visto sei o sette volte di seguito “Nightmare
Before Christmas”.
Né al fatto
che aveva ingerito una quantità esorbitante di zuccheri che le avevano fatto
salire il sangue al cervello.
Era talmente
euforica ed eccitata – e non era solo colpa dello zucchero – che in quel
momento avrebbe creduto a qualsiasi cosa e avrebbe dato per reale perfino
l’impossibile. Quasi si aspettava di vedersi comparire sui tetti delle case lo
scheletrino con la voce di Renato Zero che tanto amava – Jack, non Renato – e
con cui avrebbe fatto uno splendido duetto.
Solo che,
quella notte, avrebbe ricevuto un altro tipo di visita…
Con gli
occhi sbarrati, il volto stravolto e le movenze di una spiritata, si avviò letteralmente saltellando alla finestra
che portava sul terrazzo e l’aprì, sempre cantando.
“E tutto va via, è la mia routine e mi sento
stanco di quest’aria qui…”
E come se la
Natura stessa l’avesse presa in parola, l’aria gelida della sera la colpì in
pieno volto. E non solo quella.
Anche le
tendine di perline che sua madre aveva tanto insistito di mettere, delle foglie
secche che le finirono in bocca e infine, sospinto da un buon vento, un Jack
Frost che, invece di atterrare con agilità e grazia sul muretto del terrazzo
come aveva lui stesso pianificato, finì addosso, per il volere sadico della
scrittrice, alla povera Elena, risospingendola dentro casa.
Entrambi
rotolarono per un buon tratto fino a sbattere contro il frigorifero, visto che
la finestra si trovava nella sala da pranzo, direttamente collegata alla
cucina.
E nessuno,
nella casa, si accorse di niente.
Jack Frost,
resosi conto dell’enorme figura del menga che aveva fatto, si rialzò subito in
piedi con un salto agile e, tentando di recuperare quel poco di contegno
rimastogli, la guardò dall’alto con superiorità e sbatté a terra il bastone per
richiamare l’attenzione della ragazza.
Elena, al
contrario, rintronata prima per i dolci e poi per la botta, ci mise qualche
secondo per capire che quello che le era finito addosso non era lo scheletrino,
né un enorme uccello. E con un’espressione alquanto vacua, lo osservò
attentamente, chiedendosi mentalmente se nei dolci ci fosse stato anche
qualcos’altro.
Era
esattamente come lo aveva visto nel film: un ragazzo alto, pallido, con i
capelli bianchi e gli occhi azzurri come il cielo, con indosso una felpa del
medesimo colore e in mano il mitico bastone che ghiacciava tutto.
Un’altra
ragazza, al suo posto, lo avrebbe guardato con aria sognante e cominciato a
tessere elogi sulla sua bellezza. Elena, invece, lo guardò come si poteva
guardare un professore che tentava di fare una battuta spiritosa per strappare
una risata agli alunni. Senza risultati.
E la domanda
che gli rivolse, fece cadere quell’ultimo brandello di sicurezza che Jack
conservava nonostante il rovinoso atterraggio.
“Dov’è il
Coniglio Pasquale?”
“Oh, ma cosa
vuoi che t’importi di quel coniglio?! Adesso ci sono io!” sbottò Jack,
sbattendo più forte il bastone.
Elena lo
guardò delusa e, tenendo d’occhio il bastone che temeva glielo avrebbe dato
sulla testa se avesse di nuovo nominato il Coniglio, si rialzò sorreggendosi al
frigorifero.
Con sua
enorme sorpresa, era calma, come se tutto ciò fosse nella norma: infatti,
avveniva ogni notte che si catapultasse un ragazzo che ricordava vagamente
l’Omino Bianco nelle camere di giovani pulzelle e le minacciasse con un bastone
simile a quello di Gandalf.
Come non
poteva far parte della routine?
Questa sua
tranquillità sorprese molto il guardiano.
“Non sei
spaventata?”
“No, solo
delusa”
“Perché?”
“Perché
volevo il Coni…” la bastonata in testa arrivò subito, impedendogli di finire la
frase.
“Intendevo,
perché non sei spaventata? Insomma, uno sconosciuto ti è appena entrato in casa
e pensavo che avresti cominciato a urlare terrorizzata…”
“Ma
spaventare non è compito di Pitch?” fece notare lei.
“Sì, è vero…
Ma non è normale il tuo comportamento! Stai parlando tranquillamente qui con
me, quando chiunque si sarebbe
spaventato!” disse Jack, dandole le spalle e cominciando a guardarsi intorno,
curioso.
Elena lo
lasciò fare per un po’, come si farebbe con un bambino piccolo, fino a che quel
bambino non cominciasse a mettere le
mani dove non doveva.
“Se tocchi
il microonde di mio padre, la tua carriera di Guardiano è finita” gli fece
osservare Elena, pensando all’incredibile potere di suo padre: se qualcuno
toccava la sua roba, non importava dove si trovava in quel momento, lui lo
percepiva e la sua furia era temibile.
Jack si
voltò di nuovo verso lei, dimenticatosi per tutto quel tempo della presenza di
Elena nella stanza.
“Conosci la
mia storia…”
“Chi non la
conosce?”
“E mi vedi…
Nonostante tu sia un’adulta”
“Non sono
così vecchia!” si lamentò Elena.
“Sei proprio
la persona che cercavo” sorrise soddisfatto, avvicinandosi con un balzo leggero
alla ragazza.
La stanza
divenne ancora più fredda.
“La persona
che cercavi per cosa?” biascicò
Elena, battendo i denti.
“Ascolta!”
la zittì il Guardiano, assumendo un contegno serio che mal si addiceva alla sua
natura, “Nelle notti che verranno riceverai la visita di alcuni Guardiani”
“Anche del
Coniglio?” chiese lei eccitata.
“Sì, forse anche di lui…” disse a denti
stretti Jack.
“Ma non
potrei riceverli tutti insieme?”
“No, così è
più interessante” ghignò Jack, sinceramente divertito.
“Ma perché?”
“Perché così
imparerete la lezione… Il motivo, se
non lo avete capito ora, dovrete scoprirlo da sole…” sussurrò da ultimo il
Guardiano, rivolgendole uno sguardo di sfida.
Jack Frost
si stava prendendo gioco di lei, questo lo sapeva.
Ma voleva
stare al gioco, fino a che quel sogno non si fosse dissolto come tutti gli
altri. Anzitutto, perché si stava divertendo anche lei e poi perché la visita
delle cinque Leggende la faceva gongolare di gioia, soprattutto se si fosse
trattato del Calmoniglio.
Senza più
dire nulla, e impedendo a Elena di chiedergli altro, Jack indietreggiò fino
alla finestra e, aggrappandosi a una corrente gelida, si lasciò trasportare
fuori, per poi ricadere giù dal muretto con il perenne sorriso da mascalzone
dipinto sul volto. Elena, spaventata, corse sul terrazzo e guardò in basso per
controllare che non ci fosse il corpo rotto del ghiacciolino;
lo vide invece su uno dei tetti di fronte a lei, che si spostava di camino in
camino sospinto dal vento, libero come lo era sempre stato, con la luce della
luna che rendeva splendente la sua pelle.
Non lo vide
voltarsi indietro.
Aveva
un’altra meta in mente.
*
“… Ed è per
questo che sono venuto: per avvertirti” concluse Jack Frost, appollaiato con un
volatile in fondo al letto di Violet, con la finestra
dietro le spalle aperta e il gelo che entrava nella stanza, facendole perdere
quel poco di calore che aveva.
Violet,
invece, stava in cima al letto, a debita distanza da quell’apparizione che
all’inizio aveva scambiato per un ladro e a cui aveva dato in testa un
vocabolario di greco. Con la coperta che le arrivava fino al collo, meditava
sulle parole del Guardiano, chiedendosi se fosse tutto l’effetto di
un’allucinazione dovuta agli spinaci mangiati o se semplicemente stesse
impazzendo.
Dovette
ammettere che era più propensa per la seconda.
Jack,
invece, sembrava a suo agio. Nonostante il vocabolario evitato per un soffio,
era riuscito a fare un’entrata decente rispetto alla prima, di modo da
sorprendere l’altra prescelta e instillarle il rispetto. Avevano avuto una
conversazione abbastanza tranquilla e normale – ad eccezione di qualche
riferimento al Coniglio Pasquale da parte della ragazza – e lui si sentiva
soddisfatto per il lavoro riuscito.
Ora, poteva
anche andarsene.
“Non ho altro
da dirti”
“Io invece
avrei molto da chiederti…”
“Ma il tempo
è breve, e io ho da fare”
“Perché
riesco a vederti?”
“Perché
forse, in fondo al tuo cuore, credi in me” le fece notare Jack, sinceramente
lieto di quell’affermazione.
“Ma se fino
all’uscita del film non sapevo nemmeno della tua esistenza!” gridò quasi
esasperata Violet.
Non riusciva
a credere a tutto questo, non poteva: qualcosa glielo impediva.
La razionalità? Non ne ho mai avuta!
“Comunque,
io devo andare. Medita su quello che ho detto e… Ah, un’ultima cosa: non
affronterai questo viaggio da sola” disse infine serafico, prima di gettarsi
all’indietro fuori dalla finestra e scomparire nell’oscurità.
Violet
non si alzò per controllare, infreddolita com’era. Sapeva bene che si era
lasciato trasportare da qualche corrente, non era così idiota da sfracellarsi
al suolo: era semplicemente un vanitoso.
Facendo un
enorme sforzo di volontà, si alzò dal letto e, in punta di piedi, si avvicinò
alla finestra per chiuderla, osservando un’ultima volta la neve sopra i tetti e
infine la luna. Bella, splendente, mutevole.
L’incontro
avuto con Jack Frost e la situazione in cui si trovava – molto simile al “Canto
di Natale” di Dickens – andavano contro ogni logica. Era tutto così irreale,
così improvviso…
Esattamente
come i racconti che scriveva.
E, come
scriveva lei stessa, nulla avveniva per caso. Se Jack Frost si era disturbato
per andare a cercarla, il motivo non doveva essere una sciocchezza.
Così,
cominciando già a farsi viaggi mentali sulla possibilità di diventare una nuova
Guardiana, una domanda sorse improvvisa.
“Cosa
vorrebbe dire che non affronterò il viaggio da
sola?!”
SPAZIO DELL’AUTRICE:
Odio la
canzoncina della pubblicità della Bauli, mi ha fatto venire il palletico!
Ehm,
comunque, la storia comincia a prendere una direzione precisa (più o meno) e
questa cosa alla “Canto di Natale” mi fa quasi sorridere!
JACK:
Cos’è “Canto di Natale”? Un musical di Nord?
No, mio caro
ghiacciolino, è solo una delle più belle storie di Natale
mai scritte… Fatti una cultura!
JACK:
Preferisco dipingere le uova per il Canguro, piuttosto che mettermi a studiare.
CALMONIGLIO: Non sono un canguro, sono un coniglio!
ELENA/VIOLET: Aaaaah,
il Calmoniglio! *Gli saltano addosso per coccolarlo
come un peluche*
Tutti amano
il Coniglio Pasquale! XD
Bene, dopo
questo piccolo intermezzo, vi aspetto al prossimo capitolo!
See
you again! *Torna a
strapazzare il Coniglio, che tenta di fuggire*