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Autore: Aya_Brea    02/01/2013    3 recensioni
“Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance.
Dagli occhi di Gin non trapela mai nulla, ma i ricordi si sa, non possono essere cancellati.
 
Fanfiction sul passato del più carismatico fra gli Uomini in Nero.
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Gin, Nuovo personaggio, Vermouth, Vodka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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9. Interrogatorio a doppio taglio



Nero. Intorno a lui non c’era nient’altro che oscurità. Riaprì gli occhi e per qualche istante credette addirittura di esser diventato cieco. Ma poi comprese rapidamente che nonostante le palpebre spalancate, il nero continuava ad offuscargli completamente la vista. Ci vedeva, eccome, ci vedeva benissimo, ma non avrebbe saputo distinguere il luogo nel quale era stato scaraventato.
Gin tentò di ricostruire mentalmente quel che era accaduto prima che l’agente della polizia lo tramortisse, ma i ricordi della sua mente erano terribilmente vaghi, confusi, intrecciati gli uni con gli altri in un groviglio inestricabile. Pian piano, assieme alla coscienza che diveniva vivida e tangibile, egli cominciò a percepire anche le altre sensazioni che sino ad allora erano rimaste sopite. Un dolore tremendo si infiltrava fra le ossa dei suoi polsi, stretti saldamente da uno stralcio di corda ruvida e robusta. Provò ad articolare qualche movimento, ma si ritrovò semplicemente ad arcuare le dita indolenzite.
‘Che diavolo? Dove mi trovo?’ A quel punto se lo chiese mentalmente, per appurare che non fosse diventato pazzo, che non fosse vittima di qualche strana droga somministratagli da quei luridi piedi piatti. Eppure la dimensione onirica lo stava abbandonando, e quella situazione spiacevole stava divenendo una tragica realtà. Si slanciò con il corpo in avanti e si rese conto di essere appeso per i polsi al soffitto; le scarpe strusciavano ancora al suolo poroso, ma nonostante ciò, era in grado di sbilanciarsi in ogni direzione volesse. Fu allora che ricollegò il tutto: i polsi dolenti, le braccia come atrofizzate e il freddo che lo scuoteva visibilmente. Si morse il labbro con forza, volendo entrare con più prepotenza nella propria coscienza: “Ehi! Bastardi!” Si dimenò: il gancio a cui era avvolta la corda cigolava ad ogni suo spasmo di rabbia. Il biondo strinse i denti più che poté: quella condizione lo stava letteralmente mandando al manicomio. Un tipo come lui non riusciva a rimanere costretto in una gabbia, era contro la sua stessa natura selvaggia.
Pochi minuti più tardi si sentì il rumore di una porta aprirsi; Gin risollevò il capo con uno scatto, con una tale rapidità da sentire chiaramente i muscoli rimettersi in moto. Udì una serie di passi e comprese che doveva trattarsi di due individui: il ticchettio lento e regolare doveva appartenere ad una donna, mentre il sordo rumore di anfibio, doveva necessariamente essere quello di una guardia nerboruta. Stavano procedendo nella sua direzione, a giudicare dall’intensità crescente di quel calpestio.
La porta della sala si aprì con violenza e in un secondo l’ambiente venne rischiarato da una fortissima luce al neon. Gin non riuscì a trattenere un lamento contrariato: quel bagliore improvviso lo accecò, come coltelli conficcati nelle pupille. “Dannazione!”
Il biondo era nelle medesime condizioni in cui lo avevano lasciato, Aiko Kirara poté constatarlo con una brevissima occhiata. “Vedo che finalmente ti sei svegliato, Jake.”
Gin aveva ancora gli occhi semi-chiusi. Quando li riaprì sentì un tonfo balenargli in petto: quel nome, nonostante non volesse ammetterlo, gli procurava un fiotto di emozioni contrastanti, ma al di fuori di quelle labbra, risuonò alla stregua di vero e proprio, dolore fisico. “Jake? Non conosco nessuno con questo nome.” L’uomo aprì gli occhi e finalmente vide la donna che lo aveva ridotto in quello stato. La divisa della polizia, bluastra e ricca di ornamenti, le calzava alla perfezione, come se fosse stata realizzata su misura per quelle forme così volutamente celate. Le dedicò uno sguardo molto interessato e profondo.
“Strano, perché la tua amichetta, Lily, dice di aver conosciuto un ragazzo molto speciale con tale nome.” Aiko incrociò le braccia al petto e guardò l’omone al suo fianco, anch’egli munito di uniforme e di manganello alla cintola.
“Oh. Donne. Si innamorano sempre di soggetti lontani dalla loro portata.” Gin non smise un istante di fissare la donna, nonostante la presenza dell’altro poliziotto fosse di gran lunga più ingombrante.
“Si dice che le mele buone si trovino sempre sulla sommità dell’albero. E ho imparato a mie spese che ciò corrisponde al vero. Magari le piacevi davvero.”
Il prigioniero strinse i denti ed assunse uno sguardo minaccioso: si diede la spinta all’indietro e tentò di raggiungerla, ma immediatamente, il poliziotto al fianco di Kirara si sfilò il manganello dalla cintura e gli assestò un colpo dritto al fianco. “Non ci provare.” Il biondo si placò momentaneamente, ma grazie a quel colpo capì di essere a petto nudo. I bastardi volevano torturarlo? La polizia non poteva adottare quei metodi così drastici.
Nel silenzio, riecheggiò la risata di Aiko, divertita più per quell’affronto, che per le percossa. “Stai buono lì, Jake. Lo sai che non hai via di scampo. Almeno finché non ci avrai detto quello che vogliamo sapere.” Cominciò a tracciare un cerchio intorno al biondo, che, contrariamente a lei, rimase immobile nella stessa posizione: il fianco gli bruciava. “Sappiamo dell’Organizzazione, sappiamo del tuo passato, abbiamo tutte le tue credenziali e sappiamo persino dei trascorsi malavitosi di tuo padre. Non ti conviene tornare pulito e carino a casa tua. O mi sbaglio? Non è così che funziona da voi? Se qualcuno scopre qualcosa del tuo passato, o si mette sulle tracce dell’Organizzazione deve morire. Mi sbaglio? Io non credo che la facciano passare liscia a quelli che ci forniscono le piste su cui indagare.”
“Vorresti dire che per me è meglio collaborare con voi piuttosto che ritornarmene a casa? Io non ho alcuna Organizzazione con cui fronteggiarmi. Sono solo.” Sorrise, sardonico. “Solo come un cane, agente.”
A quel punto Kirara si avvicinò a lui. “Ma non farmi ridere. Io te l’ho detto, ti conviene parlare.” La ragazza si fermò a qualche centimetro da lui: ne poteva annusare l’odore, poteva sentire il suo respiro empirgli i polmoni e gonfiargli mollemente il petto, con regolarità. Era come fronteggiare una tigre in gabbia: finché rimaneva fra le sbarre non doveva temere, non ne aveva motivo, ma se quelle barriere fra lei e lui si fossero rotte, forse avrebbe temuto quegli occhi così spiritati e quel sorriso ricolmo di sarcasmo.
Gin fece ciondolare il capo verso sinistra: rimase a fissarla come una statua di sale. 
Quel giochino si prolungò per una decina di minuti, fra le innumerevoli e martellanti domande della donna, e le battutine colme di sarcasmo del biondo.
Gin, ormai stremato da quell’interrogatorio serrato e borioso, lasciò che sul volto gli si dipingesse un ghigno smaliziato: “Sai, agente, non mi aspettavo un simile trattamento da voi. Da un corpo così onorevole come quello della polizia. Non avete un codice morale da dover rispettare?”
Aiko Kirara manteneva le braccia strette al petto, in un gesto quasi inconsciamente difensivo, e le ulteriori domande del biondo la infastidivano. Si stava spazientendo, soprattutto perché quel tizio credeva di essere una spanna al di sopra di loro: lo avevano in pugno, lì, nel bel mezzo di una cella, ammanettato, eppure lei non riusciva a sentirlo ‘suo’, non riusciva ad imporre la sua autorità su quell’assassino. Era come se con quei suoi occhi di ghiaccio, egli fosse irraggiungibile, inafferrabile, continuamente sfuggevole come una sferzata di vento. Un vento freddo che rischiava di raggelare anche le sue intenzioni più ardite.
Si sforzò di sorridergli con scherno: “Sai, il mondo non è tutto rosa e fiori come lo vogliono dipingere le televisioni, i giornali. Son tutte stronzate. I poliziotti hanno il preciso compito di far rispettare le leggi, ma più di ogni altra cosa, hanno a cuore il senso della giustizia. E voi rappresentate tutto quello in cui non crediamo. Se per arrivare al cuore della vostra organizzazione abbiamo un solo uomo che vi appartiene, sfruttiamo ogni mezzo in nostro possesso. Lecito o illecito che sia. E smettila di farmi la predica. Non sei credibile, neanche un po’. Jake.”
“Ti piace proprio chiamarmi con quel nome, non è vero?”
“Magari ti è rimasto ancora un briciolo di umanità per ricordarti che non sei un uomo in balia di un lurido ideale, ma che hai avuto anche tu un passato. Non mi interessa se si è trattato di un passato burrascoso, o se è stato il periodo più bello della tua vita. Mi interessa che tu comprenda quanto sia importante costruire noi stessi sulle nostre fondamenta. Non rinnegare quello che sei stato.”
Gin si inumidì le labbra, ormai secche per via della condizione precaria in cui si trovava da più di quattro ore. Cosa diavolo si era messa in testa quella poliziotta? Non riuscì a comprenderla, e non riuscì a capire se quelle sue parole fossero soltanto un mero tentativo di estorcergli delle informazioni o di muoverlo a compassione.
“Senti, non so quali problemi tu abbia avuto nei miei confronti, ma vorresti spiegarmi per quale motivo mi stai dando la caccia?” Il biondo sbottò, improvvisamente, con un tono da cui trapelava il suo avvilimento, ma anche la sua sincera curiosità.
A quel punto il volto della ragazza si rabbuiò e alcuni ciuffi corvini le ridiscesero sulle palpebre basse: stava guardando in terra, nel tentativo di trovare le parole, nel tentativo di scacciare quelle orribili immagini dalla propria mente. Si slanciò verso il prigioniero e in un impeto di rabbia si attaccò alle sue spalle, scuotendole vigorosamente: i suoi occhi erano spalancati e pieni di lacrime, ma i suoi lineamenti tutt’altro che avviliti, al contrario, dimostravano quanto sangue le stesse scorrendo nelle vene. 
“Hai ucciso gli uomini di cui mi fidavo, hai ucciso i miei compagni di lavoro, i compagni con cui ho condiviso tutto. La mia vita, le mie speranze, i miei fallimenti, le mie fatiche, le mie lacrime e le gocce del nostro sudore! Hai ucciso un pezzo del mio cuore, portando via loro. E poi …” Il biondo non mostrava ancora alcun segno di cedimento, e questo la mandava in bestia, le faceva esplodere la carotide. “Hai fatto fuori mio padre. Il mio orgoglio … La mia gioia.” Gli sferrò uno schiaffo di manrovescio e si allontanò immediatamente, per evitare ogni sua reazione.
Ma dopo che quell’esternazione le aveva lasciato un poco di serenità, osservò che lui non aveva battuto ciglio, non aveva mostrato alcun tipo di cedimento. Nulla. Era rimasto immobile nella medesima, scomoda posizione in cui lo aveva lasciato.
Piombò un silenzio tetro come la morte, un silenzio terribilmente opprimente che costrinse Kirara a pensare che probabilmente si era esposta troppo; si sentì fragile, si sentì di aver tradito se stessa per essersi confidata con un uomo come quello.
Ma fu allora, proprio quando si stava mentalmente maledicendo, che Gin si schiarì la voce e sorrise nuovamente. Alzò lo sguardo verso la donna.
“E’ buffo. E’ buffo come per te il passato sia stato importante. Ma per inciso, se avessi provato a costruire qualcosa sulle mie fondamenta, sarebbe crollato tutto. Perché era marcio sin dall’inizio, i mattoni erano così fragili e pieni di crepe, che avrebbero potuto cedere da un momento all’altro. E così ho deciso di buttar via tutto e ricominciare da capo. In un altro terreno, con altri mezzi e con altri materiali. Fu allora.” Inspirò, poi il suo sguardo cominciò a vagare altrove, come per visualizzare i momenti salienti della propria vita. “ … che mi sentii davvero libero. Senza radici, senza passato. Un uomo nuovo.” La citazione non era stata inserita alla sprovvista, ma col preciso intento di riportare alla memoria la creazione dell’uomo nuovo, un atto propagandistico così intensamente desiderato da tutti i regimi totalitari.
“E’ proprio questa idea da cerebrolesi che vi spinge tutti all’Inferno. Non si può rinnegare il passato.” Lo ripetè, la poliziotta.
“Io e te siamo molto simili. Entrambi siamo stati segnati dalla morte di qualcuno. Ma è paradossale come le diverse prospettive di un medesimo avvenimento ci abbiano portato a vivere due vite completamente opposte. Tu, immolata per quella che tu definisci giustizia, io, immolato per una mia causa personale. O per la libertà.”
“Smettila di sparare palle. Ne ho abbastanza. Marino, occupatene tu.” Aiko strinse i denti con stizza e si avviò alla porta, non prima di aver fatto un cenno al suo collega.
L’uomo robusto si sfilò il manganello dalla cintura e prese a farlo roteare con fare minaccioso.
“Non parlerò, neanche sotto tortura.” Gin sorrise con strafottenza, la stessa strafottenza che non mancò di abbandonarlo neanche quando i primi colpi gli si abbatterono sul torace nudo e svilito. Non poteva dargliela vinta.
 
 
 
 
 
Kirsch era un bagno di acqua: la pioggia l’aveva colta alla sprovvista prima che potesse mettere piede nella sua stanza. Da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di dormire presso l’Organizzazione: la sua camera era piccola e disadorna, ma aveva tutto l’indispensabile perché potesse trovarsi comunque a suo agio. Un letto morbido, una scrivania con parecchi cassetti e un termosifone che buttava aria calda ventiquattro ore su ventiquattro. E in quella sera così maledettamente fredda, non desiderava altro che rintanarsi in quel suo piccolo nido e farsi una bella dormita. La strigliata per via dell’arresto di Gin se la sarebbe beccata il giorno seguente.
Akemi era stata fortunata, ed anche grazie al suo aiuto era riuscita a svignarsela prima che i poliziotti la stanassero definitivamente. Gin, invece, era finito dritto in gattabuia. Chissà come se la passava.
Percorse il corridoio principale in religioso silenzioso, calpestando mollemente il pavimento per timore di far troppo rumore: alcune goccioline di acqua picchiettavano in terra con ritmo lento e regolare. I suoi vestiti erano completamente zuppi e la tuta nera le aderiva fastidiosamente contro il corpicino ghiacciato. Si sfilò l’elastico della coda e una folta massa di capelli neri si sparse sulle sue spalle e sulla schiena madida d’acqua. ‘Maledizione, mi prenderò una bella polmonite.’ Si trascinò pian piano verso la sua stanza e prese a rovistare nelle tasche del suo zaino per trovare le chiavi. Finalmente afferrò il portachiavi, poi spinse la porta con estrema lentezza e con un gesto dettato dall’abitudine procedette a tentoni per accendere l’interruttore della luce. Con uno scatto, la lampadina sul soffitto si accese quasi immediatamente, diffondendo un caldo bagliore nella stanzetta. Non fece neanche in tempo a voltarsi, che percepì chiaramente la presenza di qualcuno. Fu allora, che si volse.
Sul suo letto, immacolato e con le coperte ancora tirate su, era disteso un uomo. Aveva le gambe accavallate e la sigaretta morbidamente appoggiata fra le labbra.
“Irish?” Kirsch si richiuse sbutio la porta alle spalle. Il suo tono l’aveva letteralmente tradita, facendo trapelare quanto quella visita inaspettata l’avesse indispettita. In realtà, il cuore aveva preso a martellarle in petto senza volersi fermare.
L’uomo si sollevò seduto e spense la sigaretta nel posacenere adagiato sul comodino. La guardò con fare indagatore, scrutandola da capo a piedi. “Come mai sei arrivata così tardi?”
La piccoletta deglutì e si morse vistosamente il labbro inferiore. “C’era traffico, ho dovuto aspettare che la polizia concludesse il giro di ronda. Non ho potuto fare nulla per liberare Gin, mi dispiace.”
“Ce ne hai messo di tempo per capire che non ce l’avresti fatta.”
“Non potevo dare nell’occhio, Santo Cielo.” Kirsch cominciava ad infervorarsi, ma lo faceva in maniera così nervosa da incrementare soltanto i sospetti dell’uomo in nero.
Irish si alzò in piedi e le si avvicinò: quest’ultimo era persino più alto e robusto di Gin e la loro differenza non faceva che metterla ulteriormente a disagio. Si sentiva piccola piccola al cospetto di quell’omone che le stava facendo il terzo grado.  
“Non alterarti, carina. Volevo farti soltanto qualche domanda. Sai che siamo sempre parecchio diffidenti nei confronti delle reclute, no?”
Lei annuì con poca convinzione, ma decise ugualmente di non controbattere. Prolungare la conversazione non era la migliore delle scelte, per cui decise di starsene in silenzio a guardarlo negli occhi. L’uomo le posò una mano sulla spalla e la sentì sussultare. “Fatti una doccia calda e cambiati. Non vorrai prenderti una polmonite.” Il suo tono era cambiato in una manciata di secondi, il chè non fece altro che sorprendere Kirsch, rimasta allibita nella sua contemplazione. Quella premura le fece dimenticare completamente tutto il resto. E quando l’uomo fu uscito dalla stanza, ella si rese conto di non avergli neanche chiesto perché fosse entrato lì e soprattutto, per quale motivo lo avesse fatto.
 
 
 
 
 
La notte era ferma, l’aria sospesa ed immobile: un sottile strato di nebbia si sollevava dal basso verso l’alto, creando una candida sospensione di umidità. La pioggia aveva cessato di riversarsi sulla terra, ma le strade asfaltate erano ancora bagnate e disseminate di pozzanghere nere. Era tutto così etereo e stantio da sembrare finto. Di tanto in tanto si udivano i malinconici latrati di qualche cane randagio e persino le automobili sembravano essersi smaterializzate.
Gin non riusciva a prendere sonno, anche per via di quell’atmosfera così dannatamente fittizia e noiosa. Era in pessime condizioni e per via delle torture subite aveva anche difficoltà a respirare normalmente. Quei bastardi.
La porta della cella si aprì piano, rivelando uno spicchio di luce frangersi sul pavimento. Di nuovo quella poliziotta. Ma stavolta sembrava venire in pace. In qualche modo, Gin, glielo lesse sul volto.
Il silenzio del momento fu interrotto dal rotolio fragoroso di una lattina, poi la porta si chiuse ancora. Fortunatamente, dalla finestrella posta in alto, proveniva un bagliore lunare che illuminava la stanza quasi a giorno, differentemente dalla sera precedente, nella quale quella piccola finestrella era stata chiusa.
Le sagome di entrambi erano allora, facilmente distinguibili, ed ognuno riconobbe la fisionomia dell’altro, contornata da una sottile linea biancastra.
Aiko si piazzò di fronte al corpo dell’uomo, teso e rovinato in più punti per via delle percosse di qualche ora prima. C’era una pozza scura del suo sangue, sotto di lui, e i lividi gli macchiavano l’addome, assieme ad alcuni rivoli rossi che gli scivolavano sul volto.
“Ti hanno conciato per le feste, eh?” La ragazza parlò sottovoce, come se quella visita non le fosse stata ordinata da qualcuno, ma fosse soltanto il frutto della propria volontà. Il silenzio era un vincolo sacro che nessuno dei due si sarebbe premunito di spezzare.
Gin rise aspramente e a tratti dei colpi di tosse lo colsero di sorpresa. “Molto gentile da parte tua, venire a farmi visita a conti fatti. Il tuo collega me le ha date di santa ragione.”
“Ha fatto bene. Non ti sei ancora deciso a collaborare, piuttosto?”
“Era animato dallo stesso sentimento che mi spinge ad uccidere. Quando capirete che voi siete una razza addirittura peggiore della nostra?”
“Non cambiare discorso.” Il tono di Aiko si scaldò quasi subito.
“E’ stata quella stupida a parlare vero?” Gin aveva ripreso nuovamente la propria serietà.
A quella domanda la ragazza aggrottò le sopracciglia e parve crollare giù dalle nuvole, come dimostrò anche la propria espressione disorientata. “Di chi stai parlando?”
“Di Lily. Lo sai benissimo. L’avrete spremuta come un limone.”
“Lily non ha colpe. Non le torcerai un capello.”
“Ha la colpa di aver parlato e di avermi gettato nel disonore. Ma anche lei avrà quel che si merita.” Gin socchiuse piano gli occhi: Aiko compì qualche passo indietro finché la sua schiena non aderì al muro freddo della cella, dopodiché si lasciò scivolare a terra. Non capiva per quale motivo, ma improvvisamente si era sentita stanca e spossata, aveva necessariamente bisogno di starsene in quella posizione. Forse un calo di zuccheri, uno sbalzo di pressione dovuto alla tensione; ma non riuscì a spiegarselo razionalmente.
Il biondo non fiatò ulteriormente, ma quando riaprì gli occhi, vide semplicemente che si era accasciata al suolo, il suo respiro lento arrancava faticosamente. “Che ti prende, poliziotta?” Esclamò, sinceramente colpito da quella sua insolita reazione.
Gli occhi di lei si offuscarono di una patina lattea che le impedì di mettere a fuoco, tutto intorno aveva preso a vorticare rapidamente, il buio la stava pian piano inghiottendo da dentro, la coscienza dapprima vivida e chiara la stava abbandonando come la flebile fiammella di un fiammifero. Poi non riuscì più a comprendere nulla di quel che le stava succedendo.
L’uomo si sentì nuovamente spedito nella sua atmosfera cupa e silenziosa, ma stavolta, animato da uno spirito di sopravvivenza. “Sogni d’oro, Agente.” Sibilò.
 
 
 
 
 
Non sapeva chi fosse stato ad avvelenarla, non sapeva per quale motivo l’avessero fatto, e soprattutto non era riuscito a riconoscere l’ombra della figura che di soppiatto, si era introdotta nella cella per liberarlo dalla sua prigionia. Si ricordava semplicemente del sollievo che aveva provato quando gli erano state recise le corde che costringevano i suoi polsi e le sue braccia in quella posizione innaturale. Dopodiché, fuggire, era stato semplice come mandar giù un bicchier d’acqua. Ma di quella persona, nessuna traccia. Forse si era trattato semplicemente di uno dei suoi colleghi mandato in avanscoperta per dargli una mano.
Lo stradone su cui si affacciava il viottolo della loro base era un acquitrino: ovunque v’erano ampie pozze di acqua, i marciapiedi laterali erano franati in più punti e avevano riversato la terra bagnata sulla strada: soltanto alcune automobili sfrecciavano lungo il selciato, sfolgorando grazie ai loro fari gialli. Gin maledì l’ennesimo automobilista che aveva percorso lo stradone, poiché nel tentativo di evitare un gatto randagio, per poco non lo aveva beccato. L’unico regalino che gli aveva riservato, era stato un bel bagno d’acqua.
‘Brutto bastardo, avrebbe potuto far fuori quella bestiaccia.’ L’uomo trasse un profondo sospiro, poi si appostò al fianco della porta d’ingresso, stremato: fu allora, che sul ciglio di tale ingresso comparve la figura robusta di Vodka. Non appena vide il suo partner ridotto in quelle condizioni non mancò di sgranare gli occhi. “Oh santo Cielo, fratello! Come ti hanno pestato.”
“Piantala di fare la madre premurosa. La mia è morta, non me ne serve un’altra. Ti stavo aspettando.” Si ravvivò i capelli con un gesto, poi cercò di districarsi un nodo presso la parte terminale di una ciocca. “Chi è stato a liberarmi, in centrale?”
L’omone con gli occhiali scuri sollevò le sopracciglia, come incredulo. “Veramente Aniki, nessuno. O meglio, non avevamo predisposto che venissi liberato.”
A quel punto Gin si morse il labbro internamente e prese a scrutare Vodka, senza guardarlo effettivamente, ma trapassandolo con lo sguardo e pensando ad altro: chi poteva avere interesse nel liberarlo? Non di certo la polizia. Ma doveva pur trattarsi di qualcuno che lo conosceva.
“Ah, Aniki.” Fu nuovamente Vodka a distoglierlo dai suoi pensieri. “Irish mi ha detto che comincia a nutrire dei sospetti nei confronti di quella ragazzina, Kirsch.”
“Che dice il vecchio, a riguardo?”
“Crede che possa trattarsi della poliziotta.”
Il biondo si avvicinò alla porta. “Vedremo. Nel frattempo entriamo. Ho bisogno di farmi visitare dalla Miyano. Mi sono ricordato che prima di tramortirmi, quella ficcanaso mi ha iniettato qualcosa. Non vorrei lasciarci le penne. Non prima di avergliela fatta pagare.” Vodka non poteva saperlo, ma con quella frase voleva riferirsi ad entrambe le donne che gli stavano dando del filo da torcere: Lily ed Aiko.
“Chi? Cosa?! Non ti seguo, fratello, ma che stai farneticando?”
Gin gli ringhiò addosso, ma poi strinse i pugni in un gesto di stizza. “Lasciamo perdere. Piuttosto, hai un pacchetto di sigarette con te? Muoio dalla voglia di farmi un tiro.”
 
 
 
 
 
Akemi si infilò il camice bianco e fece schioccare i suoi guanti in lattice perché aderissero perfettamente alle sue manine, dopodiché si avvicinò al tavolo operatorio dove era sdraiato Gin: le sue ferite sul petto erano ancora fresche e palpitanti, ma averlo lì, a respirare regolarmente come un qualsiasi essere umano, le infondeva un certo senso di superiorità e di soddisfazione. Forse era stata la prima ad averlo sottomano in maniera così subdola: lo osservò da capo a piedi e gli riservò un gran sorriso. “Eccoci qui, rilassati, non ti farò male.” Gli afferrò il braccio e con l’unica mano libera andò a rovistare nel piattino dove aveva disposto un paio di siringhe e un laccio emostatico: afferrato quest’ultimo, glielo avvolse saldamente all’altezza del gomito. Brancolava minacciosamente la sua siringa nella mano sinistra. “Apri e chiudi il pugno.”
“Lo so come funziona.” Ribatté aspramente lui: si sentiva tutto un fremito su per il corpo: odiava gli scienziati, i medici. E odiava comportarsi come una cavia da laboratorio: ma in quel momento il suo egoismo aveva prevalso su tutto il resto.
“Non farla così drammatica. Non sarà un piccolo prelievo a strapparti via la tua dignità.”
Quando l’ago gli penetrò nella vena, egli distolse lo sguardo altrove, poi si perse negli occhi concentrati di Akemi. “Cosa dicevano riguardo Aiko Kirara?”
La ragazza sfilò la siringa con un gesto rapido ed indolore, dopodiché si avvicinò al bancone dove erano state precedentemente predisposte delle provette sigillate: riversò il sangue all’interno di una, fra le tante. “La poliziotta? Pare che abbia diffuso un paio di articoli riguardanti l’Organizzazione. E ha anche citato alcuni nomi di membri ben in vista. Ci sei anche tu, fra quei nominativi.” Alla scienziata parve non rappresentare un problema: non si era mai sentita perfettamente integrata in quell’ambiente, anzi, non vedeva l’ora di spiccare il volo altrove per potersi creare una nuova vita.
Gin, invece, scattò seduto sul lettino, non appena ebbe udito quelle parole. La faccenda andava complicandosi, e l’agente Kirara aveva oltrepassato quella sottile linea rossa che mai e poi mai, avrebbe dovuto oltrepassare.
 
 
 
 
 
Aiko era finalmente ritornata a casa dopo una stressante giornata lavorativa: assieme ai propri colleghi, aveva dovuto sbrigare alcune pratiche e sbrogliare alcuni procedimenti penali oramai agli sgoccioli, e contrariamente a quanto aveva previsto, quell’incarico le aveva assorbito gran parte del proprio tempo libero; così, aveva deciso di trattenersi in ufficio il più possibile, per eliminare almeno in parte, la mole più consistente del proprio lavoro. In quelle ore non aveva fatto altro che pensare alla fuga di Gin: era frustrata, si sentiva in colpa.
Si richiuse la porta alle spalle e già presso l’ingresso, prese a sbottonarsi la giacca della divisa, poi aprì i primi due bottoni della camicia e si avvicinò al tavolino dove vi era un bel bicchierone. Lo riempì d’acqua e cominciò a bere avidamente: le scale le avevano prosciugato le ultime risorse a sua disposizione.
‘Cavolo, ho lasciato la televisione accesa. Che idiota che sono. Mi arriverà una bolletta talmente salata che non mi basterà lo stipendio di questo mese. Ah, che scema!’ Aiko si sfilò anche i tacchi e procedette con i piedi nudi, avvolti dai collant. Afferrò il telecomando e proprio in quel momento si accorse di qualcosa a terra: un piccolo particolare posto lì per disturbare l’armonia della mobilia. Si avvicinò ulteriormente e notò che si trattava di un pezzo di carta un poco sgualcito sui bordi, così decise di afferrarlo.
Di fronte a lei c’era il grande finestrone del salone, le cui ante affacciavano sul complesso di palazzoni disposti sullo stradone opposto al proprio condominio: fra le tende color pesca si intravedeva una bella porzione di luci e calcestruzzo.
Aiko non riuscì a leggere neanche il primo rigo di quella lettera, che improvvisamente il vetro della finestra implose fragorosamente, poi un proiettile si conficcò nel muro, e lei giurò di aver sentito l’acciaio vibrare nell’aria e trascinarsi con sé una scarica di microscopici frammenti di vetro. La finestra era ridotta ormai in pezzi, tutti sparsi sulla moquette rossa: dall’esterno si insinuò una roboante folata di vento freddo, poi calò il silenzio.
La poliziotta era ancora chinata a terra, raggomitolata e tremante per lo spavento: si teneva ancora le dita fra i capelli corvini e i suoi occhi non facevano che percorrere quelle righe marchiate a fuoco su quel semplice pezzo di carta: era come ipnotizzata, non riusciva a muovere neanche un muscolo e per un istante ebbe come l’impressione che se avesse distolto lo sguardo, qualcuno avrebbe continuato a spararle addosso.

“Abbandona la tua battaglia personale, poliziotta.
Per questa volta te la sei cavata con un buco nel muro.
Ma ricordati che un cecchino non sbaglia mai per due volte consecutive.
La prossima potrebbe essere l’ultima.”








Aaaaaaaaaaaiuto! Questo capitolo non mi convince per niente, a parte qualche brevissimo frammento che mi è uscito decentemente.. U_U Mah, sarà l'ansia per gli esami che mi corrode :(
Spero che vi sia comunque piaciuto, è un capitolo un po' strano, a tratti introspettivo... Beh, lascio a voi il giudizio, intanto non posso che augurarvi un...

BUON 2013!!!!!!!!!!!!!!!! :) 

Vi abbraccio tutti <3 

A presto, 

Aya_Brea

 
  
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