May
correva, come al solito, in vantaggio sulla sua amica del cuore, Dot. Le strade
cittadine erano da sempre percorse da quelle due, sin da quando erano bambine.
La loro era un’amicizia speciale, un legame fortissimo. Nonostante le strade
affollate, facevano sempre gare di corsa in quei luoghi, e i cittadini si erano
ormai abituati ai loro giochi. Dot stava guadagnando terreno, e quando il
macellaio la chiamò non ci fece neanche caso. May prese una stradina laterale.
Rideva. « Su, forza, scattare! » intimò, voltando il capo. Era un viottolo
desolato e vuoto, non c’era il rischio di imbattersi in altra gente. Dot urlò
all’amica di fare attenzione; quella si voltò, ma non fece in tempo a fermarsi:
il palo che si trovava davanti era incredibilmente vicino. Chiuse gli occhi e
lanciò un urlo. « No! » Dot si interruppe. Nessun fragore, e, da parte
dell’altra, nessun dolore. La ragazza era allibita; May non capiva cosa fosse
successo. Sul suo volto, solo un’espressione perplessa. Dot apriva e richiudeva
la bocca, sgranando gli occhi, incredula. Aveva appena visto l’amica passare
attraverso quel grosso palo. Vi si
avvicinò, per constatare se fosse solo un miraggio, o un’illusione, o una
proiezione tridimensionale. Portò avanti la mancina. Freddo. Il palo era duro e
ruvido, perfettamente concreto. « Come diamine hai fatto? » balbettò. « Non…
non lo so… » replicò l’altra. Rimasero imbambolate per lunghi minuti,
interminabili, senza comprendere, fino a quando May non decise di riavvicinarsi
al palo. Allungò il braccio destro, la mano piatta in verticale. Sfiorò il
concreto, poi il suo arto si perse nel cemento. I suoi occhi si spalancarono,
ma prima ancora, per riflesso incondizionato, ritrasse il braccio. « Non è
possibile! » strillò istericamente. Dot si teneva lontana, spaventata. Passi. Poi apparve il volto del signor Keegan,
suo padre. « Dot… Vieni… » appariva molto preoccupato. « Dobbiamo parlare. È
successa una cosa… » deglutì. La sedicenne scambiò uno sguardo allarmato con la
coetanea, completamente ignorata dall’uomo, poi entrambe si misero al seguito
di quello, verso casa Keegan. L’abitazione si trovava vicino, in un condominio
senza ascensore, fortunatamente solo al secondo piano. I tre salirono con passo
funebre, senza scambiarsi una parola. Dunque entrarono.
In
cucina, al tavolo quadrato, era già seduta Roselyn, la signora Keegan. Reuben
fece accomodare la figlia, prima di sedersi anch’egli. « Posso…? » azzardò May,
ma fu completamente ignorata, di nuovo. Dot guardava curiosa il padre. « Dai,
dimmi. » lo esortò, per poi lanciare un’occhiata anche alla madre. Reuben fece
un profondo sospiro, poi chiuse gli occhi. « May è morta. »
La
risata di Dot apparve come una risatina isterica. « Stai scherzando, vero? »
chiese al padre. « Purtroppo… no. » rispose Roselyn. « Voi siete pazzi! »
sbottò la ragazza. « E lei allora chi sarebbe? » continuò, alzandosi e
affiancando la povera, sconcertata May. « Lei chi? » replicò Reuben,
aggrottando le sopracciglia. « Lei lei! » strillò Dot, indicando l’amica. « Sta
già delirando. » sussurrò la madre, cominciando a singhiozzare. « Andiamo! »
urlò Dot, prima di uscire corsa dal suo appartamento, seguita a ruota dalla sua
amica del cuore. Le due ragazze corsero ancora, fino a raggiungere il vicolo
dove si trovavano prima. Si sedettero a terra. « Sono un fantasma? » disse May.
La verità colpì entrambe come un fulmine a ciel sereno. L’unica spiegazione
possibile era che la ragazza fosse uno spettro, l’unica spiegazione al fatto
che non fosse totalmente concreta, al fatto che non fosse vista da tutti, al
fatto che venisse reputata morta. Eppure, non poteva essere reale, andava
contro ogni logica. Le due ragazze scoppiarono in singhiozzi, ma solo Dot vide
scendere delle lacrime sulle proprie guance: l’amica non ne possedeva.
May
era sempre stata una ragazza brillante. Magari un po’ distratta, ma con
un’intelligenza spiccata. Aveva appena compiuto sedici anni della sua vita, ed
era assai carina, bassa, con dei capelli neri che le giungevano fino alle
spalle o poco più in giù e una carnagione abbronzata assolutamente unica. Ciò
che meno le piaceva del proprio aspetto fisico erano gli occhi, poiché non
gradiva quel nero penetrante e oscuro, dunque approfittava dei lievi problemi
di vista per portare lenti colorate. Prediligeva il color acquamarina, che le
concedeva un aspetto inquietante. Ovviamente, con i ragazzi aveva un successo
enorme, ma non vi era granché interessata. Aveva avuto solo un paio di storie,
ma nessuna importante. Non era mai stata davvero innamorata. Frequentava una
scuola statale ad indirizzo umanistico, era al secondo anno.
La
sua compagna di banco era Dot, una ragazza ancora più bassa, ingenua e un po’
volgare, con le efelidi e dei capelli lunghissimi di un castano ramato,
appassionata di danza classica e con pessimi voti a scuola. Si erano conosciute
all’inizio delle elementari, non c’era un preciso ‘inizio’ del loro legame.
Era successo, semplicemente. Erano inseparabili. Una volta, in terza media, un
bulletto ripetente stava importunando May perché voleva uscire con lei, quando
era arrivata Dot e gliene aveva dette così tante da lasciarlo in lacrime. Aveva
una gran parlantina, e nonostante un lessico talvolta inappropriato, riusciva a
colpire nel segno. Ogni tanto, alle due si aggiungeva un terzo elemento, ma si
trattava di un avvenimento raro. Non che non andassero d’accordo con le
compagne di classe, solo che non riuscivano a legare davvero. Il terzo elemento
era April. Aveva dodici anni ed era più alta di sua sorella Dot. Non sapeva che
scuola avrebbe frequentato in futuro e praticava la pallamano; secondo la
maggiore, era semplicemente una palla al piede. Ma in realtà si volevano un
bene immenso. Solo che non potevano fare a meno di litigare; d’altronde, non si
sono mai visti fratelli che non abbiano screzi.
Era
una giornata di fine giugno, e faceva molto caldo. La giovane Keegan si asciugò
le ultime lacrime con il fazzoletto di stoffa e guardò la sua amica del cuore.
Prima non ci aveva fatto caso, ma i suoi occhi erano come non li vedeva da
anni. Neri. Scuri e penetranti, ma di una bellezza incommensurabile, suadenti,
rapitori. Tentarono di scambiarsi un abbraccio, ma non riuscirono. May passava
attraverso alla compagna. Non era una brutta sensazione, per Dot. Sentiva solo
come un brivido, dentro di sé, ma nulla di più. « Dimmi che sei davvero tu. »
disse dunque. « Dimmi che non sto delirando, che non sto solo avendo delle
visioni. » May sorrise tristemente. « Qui quella che vorrebbe sognare sono io.
»
Seguirono
altri minuti di silenzio. « Com’è successo? » chiese a un tratto Dot. May si
sforzò di ricordare, ma non riusciva. Non rammentava dove si trovasse prima di
raggiungere Dot, assolutamente. Scosse il capo, facendo spallucce. Nessuna
delle due aveva idea di come comportarsi. Era una situazione così assurda! Si incamminarono per il vicolo, nel
tentativo di schiarirsi le idee. Ne raggiunsero la fine, poi tornarono
indietro. Solo allora Dot si accorse di quel negozietto: “Da Howard – Pozioni e
Incantesimi di Ogni Tipo”. Era un’unica vetrinetta, apparentemente un luogo abbandonato,
non si riusciva a vedere bene l’interno per la polvere accumulatasi, ma in
vetrina si riuscivano a notare gioielli di vario genere. « Proviamo qui dentro.
» esclamò Dot, prima di entrare. Aprì il portone, e nonostante l’inutilità del
gesto lo tenne aperto per l’amica, che la seguì all’interno. Era effettivamente
un luogo semi-abbandonato, polveroso e buio, ma non appena il portone si chiuse
si sentì uno scampanellio che annunciò la loro presenza. Dietro il bancone,
sulla sinistra –proprio alla stessa altezza dell’uscio- si trovava una tendina
che nascondeva un corridoio. Le quattro pareti erano coperte di scaffali. I
gioielli in vetrina si rivelarono Amuleti
per Sfortunati. La ragazza-fantasma fu particolarmente attirata da quelli,
mentre l’altra si fiondò ad osservare, sulla destra, gli Elementi per Pozioni, racchiusi in barattoli quasi pieni di liquidi
colorati, le cui etichette recitavano parole come: Polvere di guscio di Peltocephalus dumeriliana, Coda di Moloch horridus, Scaglie di Tatzelwurm (forse). Quando le
tendine si scostarono perché arrivasse un figuro coperto da testa a piedi, le
due ragazze sobbalzarono. « Benvenute. » accolse con un lieve inchino. «
S-salve. » sbiascicarono entrambe; poi Dot domandò se fosse lui Howard. Per
tutta risposta, quello si piegò in due dal ridere. Il cappello a punta marrone
e zeppo di toppe che portava gli cadde, stessa cosa per la sciarpa, il che
lasciò scoperto il suo volto. Era solo un ragazzino, probabilmente più piccolo
delle due. « Seguitemi. » disse, soffocando le risa e raccogliendo i propri
abiti da terra. « Mastro Howard vi aspetta. »